Questioni di (lato) B

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Bene. Sono appena le 9.44 del mattino. E questa che mi accingo a fare è già la terza, estenuante, fila. Deve esserci un qualche crudele piano divino, penso ogni volta, in questa situazione. Perchè ho scelto, a suo tempo, di vivere qui con il mirato scopo di recuperare tranquillità, energie, una placida e flemmatica dimensione quotidiana. Piuttosto alla larga dalla schizofrenica routine cittadina. Tutti vantaggi, credevo, che solo un microscopico e sconosciutissimo centro urbano, difficilmente rintracciabile anche sulla cartina, potesse davvero regalarmi. Poco meno di tremila abitanti, si dice, anche se dubito che il numero effettivo delle persone realmente residenti in questo rustico paesino, al confine tra ultima periferia e piena campagna, abbia mai superato i tre zeri. Che poi sono le stesse, tutte, (si metteranno d’accordo sull’orario?) che riesco a beccare ogni volta in una qualsiasi coda interminabile in cui mi trovo ad attendere il mio agognato turno. C’è la simpatica ultraottantenne con i suoi perenni occhiali da sole alla Keanu Reeves in Matrix, che si sbraccia di saluti, bastone alla mano, con chiunque inchiodi con l’auto per evitare i suoi attraversamenti selvaggi di strada. C’è l’irrudicibile signore di mezza età, ciuffo brizzolato e coraggioso abbigliamento da teenager, convinto, nonostante le mie dettagliate spiegazioni in proposito, delle mie origini romane, al cui ennesimo “A Roma che si dice, tutto bene?” mi limito ormai a rispondere “B – bene, grazie!”. C’è la matura e scoppiettante primadonna della piazza, un vago accento spagnolo che scappa fuori qua e là nella sue rumorose conversazioni, sempre vestita di azzurro, in ogni stagione, come una sorta di fata turchina in salsa tosco – iberica. Bene. E poi ci sono io, che mi aggiro silenzioso, con cordiale distacco, in questa località divenuta adesso familiare, in cui faccio ancora fatica a sentirmi a casa. E che, per ingannare il tempo da spendere nei miei soliti giri, mai così brevi come desidererei, passo in rassegna, osservo, ascolto la solita gente che, al solito, mi farà fare tardi. Proprio come oggi. Prima alle Poste, dove sono tornato con rassegnazione dopo che un improvviso black-out ai terminali mi ha fatto buttare via l’intero pomeriggio di ieri. Poi al supermercato, dove anche dirigersi alla cassa automatica per sbrigarsi è del tutto inutile perche la signora davanti a me l’ha inceppata con un numero elevato e sospetto di tavolette di cioccolato. Adesso anche in edicola, dove in genere ritiro con una rapidità da guinness tutte le riviste e gli allegati che lo zelante giornalaio mi mette da parte, fingendo un po’ che interessino a qualcun altro, oltre a me. In genere. Non oggi. Bene.

Ed è qui, tra lo sconforto di una nuova attesa che si fa sempre più evidente e i capricci indomabili della bambina che al supermercato, pochi minuti prima, ha fatto il diavolo a quattro con la mamma per delle patatine e che adesso replica la stessa pietosa scena per l’album di Peppa Pig (signora, sono con lei, non ceda) che mi accorgo di una novità significativa. Bene. B la nuova avventura editoriale di Barbara d’Urso, un magazine fiammante tutto ideato da una delle signore più influenti e presenti della nostra tv, colei che, a scanso di equivoci, campeggia in copertina con un sorriso stratosferico (già visto, a dire il vero, qualche anno fa, in una pubblicità per uno studio dentistico di cui era testimonial) e una pelle luminosa e levigatissima, paragonabile solo a quella di mia nipote di tre anni. Colei che su uno smisurato repertorio di faccine, bacetti-smack-smack ed espressioni crucciate, che elargisce con abbondanza ad ogni sua intervista, sia l’interlocutore un ex premier o una ragazza madre rapita dagli alieni (perché l’ospite in studio deve raccontare storie al limite del credibile) ha costruito una delle più felici e criticate carriere catodiche. E che adesso prova ad allargare il proprio impero di consensi e di oppositori sbarcando in pompa magna in edicola, con una rivista che si preannuncia come l’ideale proseguimento cartaceo della sua, già consolidata, fama di sguazzatrice nel torbido delle notizie. I titoli non deludono le aspettative: l’incredibile e paradossale avventura della signora che ha partorito sul divano (scioccante, vero?), tutta la verità di Manuela Villa (che però ha cambiato taglio e colore di capelli) su suo padre (ancora?), e poi milioni di imperdibili consigli per evitare i disastri della prova costume, su cucina, bellezza e make-up, in un crescendo di argomenti e soggetti in bilico tra prevedibilità e trash. Avrà successo? Temo proprio di sì. E per una ragione molto semplice. C’è un po’ di B in ognuno di noi. Noi che per distrarci dalla piattezza della nostre giornate rovistiamo nell’apparenza delle esistenze altrui, pronti a sparare a zero su tutto. Noi che ci definiamo con orgoglio creativi per poi riuscire solo a fabbricare obbrobri inguardabili e dozzinali (come, ad esempio, la lampada coi cucchiai di plastica spiegata proprio nella rivista). Noi che attribuiamo a ipotetici talenti o sacrifici la nostra posizione, i nostri successi, la nostra carriera, quando sappiamo benissimo essere stata spesso una mera questione di scelte casuali, compromessi, mezzucci o spintarelle. O, in numerosissimi casi, di sfacciata fortuna. E’ per tutti noi c’è da oggi proprio B. E quel B starebbe per Barbara. Nel caso vi fosse venuto il dubbio che c’entrasse qualcosa una botta di lato B.

Avventure da couture

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Se non rientrasse nella categoria preziosa e scarna dei rari amici su cui poter davvero contare nella vita, di quelli straordinariamente generosi e ogni volta così sinceri nell’esprimere le loro opinioni, anche a costo di apparire brutali, Enrica sarebbe semplicemente detestabile, tale e schiacciante è ai miei occhi la sua perfezione. A cominciare dalla sua indubbia e magnetica bellezza, mai troppo ostentata, anzi, quasi dominata con discrezione, eppure così evidente in quel viso geometrico ed enigmatico che troveresti adatto a una copertina di i-D o W Magazine, in quella dentatura regolare e abbagliante che risplende ad ogni suo sorriso inatteso, in quel suo muoversi ovunque tra le gente con flessuosa e invidiabile disinvoltura, come se detenesse il potere singolare di rimpicciolire o di offuscare di colpo, con la sua sola presenza, qualsiasi ambiente stia attraversando per caso o qualsiasi altra persona possa sfiorarla. Senza considerare inoltre la sua sconfinata ed eclettica cultura di accanita lettrice che emerge nelle nostre numerose e piacevoli discussioni come nel suo riuscire a rimanere immobile e concentrata ovunque, anche in metro, magari immersa in un’opera di Dostoevskij, o il suo innegabile talento di giornalista, che prende corpo in pagine di articoli sempre stimolanti e privi di ovvietà, rafforzati da un linguaggio arguto, avvincente, esatto. Per non parlare infine del suo accattivante look personale e del suo eccezionale fiuto in fatto di stile, facile prerogativa di chi può apparirti comunque splendida anche solo indossando una divertente t-shirt delle Spice Girls (l’ho desiderata da subito anch’io!), smilzi pantaloni kaki e un paio di sneakers dai colori segnaletici, impossibili da non notare. E’ così infatti che mi accoglie, solo pochi giorni fa, nella caotica e superba cornice della sua Roma, investita da un caldo tropicale e ammutolente, mitigato in parte dall’incanto che si sprigiona alla mia vista ad ogni piccolo e grazioso angolo di Rione Monti, vero cuore artigianale della Capitale, in cui Enrica mi trascina inebriato da tanto fascino, mostrandomi, con la giusta dose di orgoglio, la sua ultima e riuscitissima avventura nella moda, Moll Flanders (http://mollflandersroma.wordpress.com/)

Un nome letterario e controverso, chiara evocazione del mestiere più antico del mondo, un tempo anche il più frequente nell’oscurità dei portoni di via dei Capocci, oggi invece stradina curata e pittoresca, tutta botteghe e terrazzini di gerani, in cui si affaccia anche la sua, altrettanto deliziosa, attività. Ma quella scelta pare soprattutto assumere il ruolo di richiamo alle possibilità offerte da una seconda nuova vita, proprio come le innumerevoli e movimentate vissute dal celebre personaggio di Daniel Defoe e come quelle che Enrica, insieme al fratello e a due amici/soci, riesce a donare ai tanti abiti e accessori firmatissimi che affollano il loro sorpendente negozio. Tutte creazioni originali e in ottimo stato, troppo recenti per rientrare esattamente nella definizione di vintage, troppo raffinate per essere banalmente liquidate come un normale usato, seppur di lusso; si tratta piuttosto di un’accurata selezione, operata con occhio critico e competenza, di splendidi capi realizzati dai più famosi brand internazionali (Prada, Alberta Ferretti, Balenciaga, Stella McCartney), affiancati da piccole proposte di designer giovani o emergenti, rimessi poi in commercio a prezzi più che accessibili. Elegantissimi o stravaganti pezzi d’abbigliamento sia maschili che femminili, e poi un’infinità di scarpe e borse di ogni formato o capienza, bigiotteria ricercata e strepitosi occhiali da sole, il tutto perfettamente calato in un’atmosfera giocosa che ricorda un piccante boudoir o un salottino di epoca vittoriana. Dove adesso hanno trovato spazio anche due Borsalino provenienti dal guardaroba privato del sottoscritto, che non mi sono mai azzardato ad indossare in pubblico, perché scoraggiato dall’aria clownesca e poco convincente che mi hanno sempre donato. E che mi sono parsi al contrario subito rianimati da un nuovo e più sofisticato spirito non appena sistemati tra le ironiche mura di Moll Flanders, dipinte a righe alternate. Per non parlare naturalmente dell’effetto che fanno sul volto di Enrica: provati per scherzo, la rendono uno schianto. Ma come diamine è possibile che le stia sempre bene tutto?

Campi minati

▶ Mina – La palla è rotonda [Mondiali di calcio Brasile 2014] – YouTube.

In determinate circostanze penso immediatamente che dovrei davvero ampliare la lista dei miei (scarsi) interessi, esplorare almeno una di quelle strade mai percorse che un nuovo hobby, in precedenza neanche preso in considerazione per un minuto, fosse anche il cake design o la danza sufi, potrebbe d’un tratto apririmi. Oppure provare a buttarmi coraggiosamente a capofitto nello studio di una materia fino adesso esclusa dalle mie limitate attenzioni, anche ripescandola tra quelle abbandonate troppo presto negli anni scolastici, come la chimica o la geografia astronomica, magari riscoprendo in loro un nuovo fascino che la mia accondiscendenza di uomo semi-maturo, a dispetto di certe rigide e giovanili repulsioni, sarebbe in grado adesso di riconoscere. E ci penso soprattutto in quelle rarissime occasioni in cui mi ammutolisco di colpo, la bocca silenziosa ma aperta per lo stupore, gli occhi che si fanno più sottili e attenti, perché letteralmente sedotto dalla potenza, dall’espressività e dal colore di altri linguaggi che, solo chi è avvezzo a praticare terreni da me poco battuti, riesce a padroneggiare o anche solo a comprendere. Talvolta ad esempio mi succede al ristorante, come quando l’altra sera, mentre la mia amica Simona mi chiedeva delucidazioni sulla crema al rosmarino (“Sai cos’è? L’hai mai mangiata?” “No, e dubito di farlo proprio oggi!”) ecco piombare tra di noi il sommelier, un ragazzo che dal viso non avrei giudicato troppo sveglio, a elencarci prontamente le qualità dei vini a disposizione da abbinare al nostro eventuale menu (“ma ‘sta crema poi la prendiamo?” “ma due fettuccine invece come le vedi?”). Ed ecco soprattutto dalle sue labbra schiudersi d’improvviso e prender vita davanti a noi mondi diversi e paesaggi pittoreschi, sentori e sapori anche lontani, evocati dalle sue parole con un’enfasi inaspettata, con un lessico barocco e iperbolico, che continuavo a trovare smisurato per poter essere tutto racchiuso in quella che ai miei occhi appariva ancora come una semplice bottiglia di vetro con del liquido alcolico all’interno. Ho capitolato infine di fronte al suo deciso sottolineare “al palato è tondo”, perché scosso dall’efficacia della presenza dell’aggettivo “tondo”, che posto a fianco del termine “vino”, potessi trascorrere anche interamente altre sei vite a scrivere, non mi salterebbe purtroppo mai in mente di utilizzare.

Stessa cosa mi accade quando, soprattutto negli assonnati e detestati lunedì mattina, mi accorgo di captare un po’ ovunque, a partire dal vocìo degli studenti scalmanati che affollano il bus ai capannelli di persone incaravattate fuori dagli uffici, delle colorite e originalissime (oddio, non sempre) discussioni di calcio. Tralasciando il limite della mia più cupa e scoraggiante ignoranza in materia, ciò che trovo avvincente è, oltre al calore e al trasporto che spesso permeano certi confronti post partita, l’uso di un vocabolario quasi epico, di espressioni ridondanti, di perifrasi ardite poggiate su termini che se utilizzati in altre situazioni quotidiane stonerebbero di certo perché troppo aulici. Che poi è decisamente lo stesso effetto che mi fa seguire i vari servizi sul pallone propinati da qualunque tg (me lo permettete un piccolo appello al direttore Mentana?: Enrì, uno a edizione sarebbe sufficiente, grazie!) in cui, a commento di quelle immagini che a me sembrano sempre identiche (un campo verde delimitato da due porte dove una ventina di giocatori corrono su e giù come forsennati) si intrecciano le più fantasiose e mirabolanti descrizioni, si indugia nella narrazione di azioni spettacolari e ipoteticamente mozzafiato, si ricamano parole immaginifiche che fatico ad abbinare alla visione di un qualche banale spezzone di partita. E che adesso ritrovo tutte fortunatamente concentrate, come in un approfonditissimo e senza dubbio ironico formulario, nel testo della nuova canzone della stravenerata (da me, in primis) Mina, La palla è rotonda (qui, almeno, sulla pertinenza dell’aggettivo non si discute), un samba coinvolgente, omaggio alla tradizione musicale del paese ospite degli imminenti Mondiali di calcio, il Brasile, per di più scelta da mamma Rai come sigla ufficiale delle trasmissioni del tanto atteso evento sportivo. Un brano più ritmato e trascinante della, pur onnipresente, colonna sonora dei Negramaro, Un amore così grande, di cui c’eravamo già occupati (http://www.tempiguasti.it/?p=2862), lanciata per la medesima occasione, il quale pare inoltre ribadire il ruolo, mai peraltro messo in discussione, della Tigre di Cremona come la nostra più eccezionale interprete di tutti i tempi, in grado, a 74 anni suonati, di essere ancora riconosciuta la sola degna di incarnare televisivamente le differenze dello sconfinato pubblico italiano che si radunerà di fronte alle partite. E che ho intenzione di imparare subito a memoria, se non altro per quell’uso sensazionale dell’aggettivo “ubriacante”, l’unico che forse avrei utilizzato, non proprio a casaccio, con il mio troppo saccente sommelier.

Lunga vita (virtuale) al Re!

Michael Jackson – Slave To The Rhythm – YouTube.

C’è chi lo negherà fino alla morte (perché, per quanto negli anni ti possa faticosamente esser riuscito di conquistare l’opinione di persona assai figa, per retrocedere all’infimo gradino di esemplare ridicolo basta invece un attimo) ma sfido a scovare anche un solo trenta/quarantenne degli attuali anni ’10 del terzo millennio che, due o più decenni or sono, non c’abbia provato almeno una volta. Magari allenandosi di continuo allo specchio nella blindata solitudine della propria cameretta, o forse fornendo un saggio discutibile delle proprie abilità danzerecce, spronato da quella scioltezza e dalla caratteristica faccia di bronzo che un qualsiasi pessimo vino, scolato senza freni in una qualsiasi festa casalinga, può regalare anche al più legnoso, restìo o timoroso dei ballerini. Di sicuro consumando prematuramente e in maniera sbilenca quella scomoda suola rasoterra, prerogativa di una certa marca di scarpe da tennis (perché sneakers è un termine fin troppo moderno, mentre gli attuali, coloratissimi e iperstrutturati modelli con ammortizzatori non sono proprio adatti allo scopo), oppure riuscendo a bucare sempre nello stesso punto centinaia di paia di calzettoni, perché in effetti, senza scarpe, cimentarsi in quel lento scivolare all’indietro sul pavimento poteva sembrare, almeno all’inizio, di una facilità impressionante. Per farla breve (che, diciamolo, non è proprio il mio forte) bastava accennare, anche in maniera scomposta, due passi, seppur incerti, del celebre moonwalk e ti pareva quasi di essere investito e in parte toccato da quell’unicità di grazia e dallo smisurato talento del solo, indiscusso e impareggiabile Re del Pop, Michael Jackson. E per quanto, all’epoca, potevate invece appartenere alla già esistente e altrettanto scatenata fazione dei madonnari convinti (nel senso di fan sfegatati, tutti pizzi e crocifissi, di Miss Ciccone, non di artisti da gessetti di strada) vi sarà comunque impossibile non riuscire ad ammettere il vostro debito di riconoscenza verso sua maestà Jackson. Colui che ha contribuito, soprattutto, a fissare nella vostra memoria di italiano così allergico alle lingue straniere quei cinque, sei, termini di inglese basico (tipo bad, dangerous, beat, o black e white) facilmente spendibili anche nella conversazione più improvvisata o spicciola, oltre naturalmente a quei sensuali movimenti pelvici che almeno in una circostanza (una di sicuro) vi saranno tornati piuttosto utili. Insomma, tutti coloro che ricordano a menadito le coreografie di Billie Jean o Smooth Criminal, che sono rimasti come ipnotizzati di fronte al fasto di videoclip come Remember the time o Scream, talvolta più lunghi e costosi di un’intera soap opera nostrana, che hanno assistito, sgomenti, alla radicale trasformazione di King Michael, causa delirio da eccesso di miliardi e di chirurgia plastica, da gradevole esemplare maschile di colore a femminea ed eburnea creatura priva di naso, che sono infine rimasti spiazzati e in qualche modo addolorati, cinque anni fa, dalla sua precoce e mai del tutto chiarita scomparsa, potranno in parte gioire questi giorni per il suo singolare ritorno sulle scene. Non tanto sul piano musicale, con l’uscita dell’album postumo Xscape, che, come già avvenuto per decine di artisti amatissimi e improvvisamente mancati, fa leva sulla pratica del necro-business sfruttando qualche traccia scartata nel confezionare lavori precedenti, magari arricchita di un qualche duetto con un cantante adesso in auge, così, tanto per darle una rapida ed orecchiabile svecchiata. Quanto quello avvenuto su un palcoscenico vero e proprio, sabato scorso a Las Vegas, in occasione dei Billborad Awards 2014, grazie a un sofisticato e studiatissimo ologramma virtuale che ha dato, per una notte, l’illusione di una sua coinvolgente performance in perfetto vecchio stile (video allegato). Che, nonostante la sincronizzazione non proprio perfetta con il corpo di ballo (vero e) presente e i mai superati difetti insiti nelle, ormai usatissime, ricostruzioni al computer, come una certa piattezza di ombre e l’inconsistenza materica dei corpi che sembrano galleggiare nello spazio, ha riportato sotto i riflettori le sue indimenticabili ed imitatissime movenze come la sua ineguagliabile bravura. Solleticando allo stesso tempo tutti i numerosi ricordi, la stima e la nostalgia dei suoi tanti sudditi ancora affascinati dalle capacità di un sovrano mai del tutto rimpiazzato.

Alla mia età

“Tranquillo Ale, in qualche modo mi organizzo. Grazie comunque, sei gentilissimo”. A schivare con placida cortesia le mie ansie telefoniche è mio cugino Piermario, poco più di vent’anni, un’invidiabile e sempre impeccabile chioma scolpita, un tatuaggio vistoso che fa capolino dall’avambraccio destro e un guardaroba puntualmente aggiornato di tutto il repertorio della più moderna vanità maschile. Un giovane uomo, che si dedica con devozione quasi rigorosa all’eleganza e alla forma fisica, che si preoccupa di scegliere con scrupolo cosa indossare, cosa mangiare, cosa evitare, che riesce a condire l’ineccepibile cura del suo aspetto con modi affabili e cordiali, con un sorriso pacato, con l’anacronistica educazione di chi, quando ti parla, rinuncia a rimanere per ore a testa bassa maneggiando il proprio smartphone. Una delle rare persone verso cui, in questa esistenza, ho sviluppato, in maniera straordinaria, un graduale e quasi soffocante istinto protezionistico, avvertito chiaramente la prima volta quando uscii in tutta fretta da scuola per catapultarmi in ospedale dove rimasi per ore immobile, a fissarlo, roseo e sgambettante, pochi momenti dopo la sua nascita, da dietro il vetro di una stanzetta surreale e asettica dove giaceva, con altri (secondo me più bruttini) neonati. Quell’irrazionale e mai sedato senso di crescente responsabilità che mi sono trascinato nel tempo quando, lui bambino più che esuberante, io adolescente irrequieto, spendevo volentieri i miei pomeriggi aiutandolo con i compiti di scuola, a fargli studiare, talvolta invano, i confini della Valle d’Aosta o il present continuous, accompagnandolo per mano, con orgoglio e incoscienza, dai miei amici che impazziti facevano a gara per tenerlo sulle spalle o per insegnargli nuove parolacce (che imparava più velocemente della geografia). E che non riesco ad accantonare neanche adesso che Piermario, quasi adulto eppure ancora cucciolo ai miei occhi, ha scelto di girare l’Italia inseguendo una malcerta carriera nella moda (una maledizione genetica, oserei dire), causa di telefonate improvvise del tipo “faccio un salto a Milano per un casting, forse poi riesco a fermarmi da te”, a cui reagisco fremendo per mettergli a disposizione casa, riempiendo il frigo di cibi salutari e ipocalorici che in genere snobberei, sperticandomi in valanghe di sms e consigli asfissianti per monitorarne spostamenti e successi. Con quell’evidente impulso ansiogeno, forse irrefrenabile, quasi paterno. Che mi fa sentire tremendamente vecchio.

Quella stessa sera che tentavo di definire, per telefono, i dettagli di una sua evenutale e graditissima visita, avevo però un appuntamento che mi avrebbe momentaneamente placato, o così credevo, quell’insensata autoimpressione percepita di “uomo-maturo-con-precise-responsabilità-e-doveri” di cui ogni conversazione intrisa del giovanile entusiasmo di Piermario mi lascia in balìa. Perché i miei infaticabili e diligentissimi studenti over 65, conosciuti tra i banchi di un interessante corso per la terza età in cui mi sono ritrovato, con soddisfazione ineguagliabile, a insegnare storia del costume, avevano organizzato una cena spettacolare di fine anno che non avrei potuto perdermi per nessun motivo. Alla quale mi ero presentato, in realtà, armato delle più buone intenzioni di non ferire, casomai, la loro generosa disponibilità anche quando, temevo, avrebbero potuto cominciare a intavolare discorsi incentrati su malanni o malesseri tipici della loro età (“sai, ho ritirati le analisi…questo non potrei mangiarlo…se non fosse per quest’artrite…etc, etc.) Ecco, non è andata esattamente così. L’esordio imprevedibile di tre di loro piuttosto è stato: “Ale, scusaci, non siamo potute venire alla tua ultima lezione, ma eravamo in Uzbekistan” “In Uz..in Uzbekistan?” faccio io, tentando di nascondere lo stupore “Sì, ci sei mai stato?” “No, mai (in realtà adesso non saprei collocarlo neanche con precisione nel mondo)” “Devi andare, è favoloso. Stiamo già pensando di ritornarci”. E non si è neanche trattato di un episodio isolato, anzi, la serata si è svolta unicamente su un registro del tutto simile. “L’altro giorno ho fatto un magnifico giro in mongolfiera” mi fa d’un tratto un’altra allieva “ma ci sarai già salito anche tu, no?” “A dire il vero no (ed escludo di farlo in questa vita)” replico io, sempre più scioccato “Te lo consiglio, davvero, non sai che ti perdi”. “Vai a ballare domani?” mi chiede poi un’altra ancora “Non penso. Perché tu sì?” “Sì, certo. Ma devo rientrare presto. La scorsa settimana, quando sono rincasata, alle 6.45 (giuro) ho beccato mio nipote che andava a lavoro e mi ha rimproverata”. E vi assicuro che riuscire a gustare la cena, o anche solo a deglutire qualche boccone, è stato in alcuni momenti piuttosto difficile, perché le narrazioni avventurose dei loro recenti viaggi in tutto il pianeta, dei loro quotidiani allenamenti in palestra o in piscina, dei loro hobby numerosissimi e a volte pericolosi, che hanno fatto da sottofondo a tutta la sorprendente serata, mi hanno letteralmente preso in contropiede, turbato, sconvolto. E fatto sentire, di nuovo, in maniera diversa e inaspettata, vecchio.

Divertito ma pensieroso faccio finalmente rientro a casa. Trovo il mio amore ancora in piedi, con tutta probabilità stava leggendo uno di quei classici mattoni da migliaia di pagine che adora tanto. “Com’è andata? Ti sei annoiato?” mi chiede con curiosità, ed io “Tutt’altro, credimi. Una vera e propria rivelazione! Piuttosto” proseguo “ma quanti anni ho?”. Per fortuna, conoscendo ormai perfettamente tutti i miei devastanti arrovellamenti sul tempo che passa, invece di allarmarsi di fronte all’apparente illogicità della domanda, replica, come migliaia di altre volte in passato, con “Non preoccuparti. Sei ancora giovane”. Questa volta però leggo una maggiore esitazione in quelle parole, un silenzio di qualche secondo di troppo piazzato inavvertitamente prima della sua risposta. Non va bene. “Almeno tu ricordi, vero, quanti anni abbia io, di preciso? Non quanti ne dichiaro, quanti ne ho”. Uno dei disarmanti pregi della mia dolce metà è che è del tutto incapace di fingere, che messo improvvisamente alla strette non spara la prima bugia di rattoppo, ma si rifugia in una risata contagiosa e colpevole, che si arrampica fino all’azzurra limpidezza dei suoi occhi. “Ecco, adesso, così, su due piedi…” “Su due piedi un corno”, ribatto irritato ma cominciando ugualmente a ridere “stiamo insieme da quando esistevano i Take That e non riesci a ricordare esattamente la mia età?” “E va bene”, continua “se proprio insisti. Quasi quaranta”. Taccio. Soprattutto per aver sentito “quella” cifra. Poi riprendo “Questa conversazione ha preso una bruttissima piega. Ne riparliamo domani”. La notte mi sveglio all’improvviso, mi ritrovo a contare e ricontare i miei anni, mi sembrano molti di più. “Quasi quaranta” penso nel dormiveglia “Non può essere. Secondo me sono troppi. Domani forse arriva Piermario. Quasi quaranta. Sì, sono troppi. Mi sento vecchio. E’ il caso di prenotare un giro in mongolfiera”.