Suzy e gli altri

Peppa Pig – Meet the characters – YouTube.

A parte una breve e infelice parentesi come insegnante di italiano in una scuola per stranieri, conclusasi con la fallimentare constatazione di non essere riuscito neanche a far pronunciare correttamente la parola “grazie” ai miei studenti, che ripetevano priva della “e” finale, mandandomi su tutte le furie, pochi mesi dopo la laurea ottenni il mio primo lavoro, o qualcosa del genere: operatore didattico nei musei. Il che significava avere a che fare, più che con quadri e sculture, con il disinteresse o la curiosità di intere classi scolastiche, con le domande ingenue o volutamente ingannevoli di ragazzi, ma soprattutto di bambini, spesso piccoli, più spesso piccolissimi. E’ stata dura: perché se sei poco abituato, come lo ero io, all’immediatezza, all’imprevedibilità e alla disarmante confidenza di comportamenti e di reazioni di cui sono capaci quegli esserini alti mezzo metro, è finita. Hanno la meglio su di te in quattro minuti scarsi. Il tempo di capire che per conquistarti basta il minimo gesto tenero, come prenderti d’un tratto la mano, quando non addirittura tentare di salirti in braccio o sulle spalle, anche se non ti hanno mai visto prima in vita loro, ed è subito disfatta. Non sei più il tizio del museo da ascoltare con interesse e forse rispetto, ma un altro compagno da coinvolgere in un nuovo gioco, meglio se molto vivace. Una lezione che avevo imparato bene, insieme a quella di non farmi cogliere impreparato dalle riflessioni suscitate dalla mia calvizie (“mio papà ha più capelli di te, perchè lui sopra le orecchie ce li ha”) o dai miei gioielli (“perché hai tanti orecchini e tanti anelli? e la tua fidanzata/moglie/mamma che dice?”), e di riuscire a dribblare la loro continua e frivola richiesta di attenzioni (io c’ho le scarpe nuove/le figurine dell’Uomo Ragno/lo smalto coi brillantini).

Lezione dimenticata: con Giulia, la mia nipotina di due anni dal visino angelico che cozza invece con un carattere peperino e ostinato, vesto i più classici panni dello zio – zerbino. Quello che nelle ore di babysitteraggio, motivate da un eccesso di fiducia, incoscienza o impegni di mia sorella, si annichilisce recitando trenta volte di seguito la fiaba della principessa Sofia e il rospo, giocando all’aereoplanino col cibo che non riuscirò mai a farle mangiare o alla transumanza di peluche da un divano all’altro, oppure ballando insieme a perdifiato i pezzi di Beyoncé che le ho insegnato con orgoglio. Ciò che avevo ugualmente dimenticato, e che Giulia mi ha rinfrescato, è quella magnifica assenza di pregiudizi e quella vocazione alla tolleranza, tipica dell’infanzia, oggigiorno perfettamente compresa dai programmi tv per bambini. Infatti, anche se molti studi recenti sottolineano, forse a ragione,  i potenziali danni che il trascorrere troppo tempo davanti allo schermo potrebbe causare loro negli anni (http://www.ansa.it/web/notizie/specializzati/saluteebenessere/2013/03/25/Troppa-tv-5-anni-Rischio-piu-aggressivita-7_8456231.html  http://adc.bmj.com/), sono portato a pensare che i personaggi dei cartoni per bambini siano però diventati l’incarnazione della loro piena, disinvolta e naturalissima apertura mentale. Giulia ad esempio, ho scoperto l’altro giorno, impazzisce per Suzy, che poi è una pecora, che è la migliore amica di Peppa, che poi è un maiale (video allegato) e chissenefrega se i due animali tra loro sono così diversi e nella realtà forse non s’incontreranno mai, se non a fette nel bancone della macelleria. Sono e rimarranno amiche per la pelle. Così come non desta loro sorpresa o scandalo se Barbapapà è un fagiolone rosa e Barbamamma un maxi-birillo nero, se spesso nei loro programmi gatti, tartarughe, gabbiani, vanno a scuola, giocano, vivono insieme. Non esistono differenze di forme, specie, razze: tutti possono stringere relazioni, amicizie, formare famiglie, con tutti, senza, distinzioni di alcun tipo. Questo succede nella tv per i bambini: e se avesse infine qualcosa da insegnarci?

L’occhio dell’imperatrice

Diana Vreeland: The Eye Has To Travel – OFFICIAL TRAILER – YouTube.

Riduttivo definirlo documentario, impossibile etichettarlo semplicemente come un film. Però vi basti questo: è la cosa migliore che mi sia capitata di vedere da tempo. Diana Vreeland, The eye has to travel (anche se nella versione italiana, per una magia quasi incomprensibile, quell’azzeccata perifrasi “l’occhio deve viaggiare” che sigla il titolo originario è stata rimpiazzata da un ben più banale “l’imperatrice della moda“) assume piuttosto le forme, stravaganti e scanzonate, di un ritratto, intimo ma non troppo, della più celebre e celebrata giornalista di moda del Novecento. Nata a Parigi nel 1903 da una famiglia dell’alta società americana, nel pieno quindi del fermento culturale della Belle Epoque, la Vreeland ha attraversato quasi per intero, con la sua vita mondana e cosmopolita, divisa tra Francia, Londra e New York, con le sue intuizioni geniali, dettate da uno spirito sagace e anticonformista, un secolo di trasformazioni, stili, tendenze. Le stesse che proprio lei ha raccontato per decenni, nelle pagine patinate delle riviste più importanti del settore, Harper’s Bazaar prima e Vogue poi, radicalmente innovate dal suo contributo e da quell’invidiabile, unico e riconosciuto talento nell’individuare, prima della sua esplosione mediatica, il personaggio giusto, la modella giusta, il fenomeno giusto. La Vreeland è infatti colei a cui va riconosciuto il merito di aver consacrato, prima di ogni altra, la fama di artisti come Mick Jagger, i Beatles, Barbra Streisand, Cher, colei che ha lanciato indossatrici come Twiggy, Jean Shrimpton, Veruschka, Marisa Berenson, colei che ha compreso e sottolineato l’importanza di possedere un’immagine forte quanto la sostanza, cogliendo ogni volta la profondità dietro la superficie e dandole la forma più adeguata. E proprio come l’altra grande fashion icon del Novecento, Coco Chanel, sua amica di vecchia data, che si era reinventata per l’ennesima volta nell’industria della moda a 70 anni, Diana Vreeland si ritaglia una nuova carriera, quando, licenziata da Vogue perché disposta a spendere troppo per i suoi servizi fotografici, approda nel 1971 come curatrice e consulente tecnico per il Metropolitan Museum di New York. E’ un nuovo trionfo: le sue mostre, seppur prive di quel puro rispetto filologico tipico della storia del costume, richiamano folle di visitatori in quanto coraggiose, atipiche, attuali, come quella allestita nel 1983 e dedicata, circostanza mai verificatasi in precedenza, a uno stilista ancora in vita, Yves Saint Laurent. Il tutto raccontato con un ritmo coinvolgente e incalzante, dato dai filmati di repertorio, estratti da alcune sue irresistibili interviste televisive, in cui la Vreeland mischia divertita realtà e finzione, intervallati da anedotti e testimonianze di stilisti, attori, modelle (c’è mezzo jet set internazionale) che nel tempo hanno avuto la fortuna e il privilegio di affiancare una donna così vulcanica, irriverente, leggendaria. Un mito, ancor oggi inimitabile.

Sorry

Mina – Sì l’amore – YouTube.

Avrei un sacco di ottime scuse. Potrei ad esempio ricorrere, come le vecchie giustificazioni che firmavo a scuola, a volte anche rubandole dai libretti dei miei compagni (le mie finivano sempre così in fretta) ai classici “motivi di salute” o “familiari”, formule che poi comprendevano un po’ tutto, dal vero/ma più spesso finto mal di testa/denti/pancia al “mi è morto il pesce rosso e mamma ha tanto insistito perché gli facessimo un degno funerale!”. Potrei parlarvi di impegni improvvisi, catastrofi inevitabili, rapimenti alieni, e giù con tutto un repertorio di avventure incredibili che mi avrebbero impedito, cosa che ero riuscito a fare finora con una puntualità di cui sono il primo a stupirmi, di aggiornare a dovere questo blog (colgo l’occasione anche per ringraziare quanti oggi, più o meno carinamente, hanno lamentato l’assenza del post del lunedì). Dicevo, potrei, ma non voglio: ho già avuto un inizio di settimana che definire rocambolesco è poco, motivo per cui non mi va di lagnarmi o di perdere altro tempo per scovare poi chissà dove una ragione plausibile per il mio ritardo quotidiano, di cui mi dichiaro profondamente pentito, anzi, potessi allegherei un mio video con tanto di meritata fustigazione, ma non so quanto sarebbe poi gradito al pubblico del web (di sicuro, non a quello che frequenta questo blog). Ciò che forse risulta più grave, nella generale sconclusionatezza di questa giornata, sfuggitami di mano direi dopo solo 15 minuti dalla sveglia, è che stavo per dimenticarmi di una ricorrenza che invece ogni anno mi fermo a celebrare con il giusto e doveroso coinvoglimento: il compleanno della mitica Mina (il 73esimo per la precisione. Auguri). A questo punto diventa obbligatorio, nel post (ritardatario) di oggi, oltre a rinnovare le mie scuse, pubblicare un suo splendido brano, tra i miei preferiti, lo stesso che proprio l’altra sera a cena tentavo di spiegare a una mia conoscente, che replicava “Il titolo non mi dice niente, come fanno le parole poi?”. “Quali parole?”.

Il guardaroba del rampollo

Prima, importantissima, premessa: io lo capisco. Capisco il senso di inquietudine, l’irrequietezza, la smania che ti coglie a un certo punto della vita di combinare qualcosa di buono e di memorabile, da solo con le tue forze, impossibile da soddisfare se sei l’erede di cotanta dinastia. Pensateci bene: nasci Lapo Elkann, avrai molti privilegi, questo è fuori discussione. Ma qualunque cosa tu voglia inventare, qualsiasi idea brillante tu possa avere, qualunque sforzo disumano tu possa tollerare per dimostrare di valere un minimo come professionista e perché no, come persona, al di là del cognome che porti, niente da fare. Rimarrai sempre Lapo Elkann, il nipote di Gianni Agnelli, parentela ben sottolineata ogni volta che la tua faccia compare sui giornali. Non basta essere un imprenditore di successo, fondare holding a tuo nome, avere intuizioni poi dimostratesi vincenti come il rilancio del vecchio logo Fiat stampato sulle felpe che abbiamo visto ovunque, fino alla nausea, indossate da pizzaioli e benzinai di mezzo mondo. Non è sufficiente neppure farla da padrone sulle pagine di cronaca rosa, calcare i red carpet più in vista, farsi accompagnare da una girandola di vere e presunte fidanzate, attrici e stelline, amiche e cugine, metterci tutto l’impegno per dare scandalo, per consolidare la tua fama di playboybad boy, per creare e nutrire un personaggio all’altezza dei riflettori spesso puntati su di te. Macché: la famiglia d’origine, i genitori ma soprattutto il nonno, quel nonno così ingombrante e universalmente noto, sinonimo di mezza storia economica, politica e sportiva d’Italia, stai pur sicuro che verrà puntualmente nominato e ricordato accanto a te. Altra premessa: riconosco un suo stile. La moda è un terreno che gli è forse congeniale, come dimostrano le sue uscite pubbliche e private, a cui ci ha abituato da anni, sempre condite da un guizzo estroso, un dettaglio sgargiante, un colore imprevisto. Non reputo così malvagia perciò l’idea del lancio e della creazione di un suo proprio brand, Italia Independent, che perfettamente in linea con il suo gusto personale, punta in particolar modo su accessori fantasiosi e di misurata stravaganza. Del resto l’immagine che più si confà a Lapo è appunto quella di un neo – dandy, un giovanotto dal look curatissimo e spesso sopra le righe, fatto di piccoli azzardi e di nuances coraggiose. Interessante, forse. Elegante, concedetemelo, proprio no. Eppure deve aver pensato esattamente il contrario Frida Giannini, direttore creativo del marchio Gucci, dato che è ricorsa proprio al rampollo di casa Agnelli per una nuova collaborazione, dopo già il felice connubio che li aveva visti due anni fa impegnati fianco a fianco nell’ideazione della Fiat 500 by Gucci. Stavolta però non si tratta del restyling di un’auto ma della creazione di una vera e propria linea di abbigliamento, o meglio una capsule collection, dal nome esplicito, Lapo’s wardrobe, il guardaroba di Lapo, (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cultura/2013/03/14/Moda-Gucci-collezione-Lapo-wardrobe-_8400760.html) che verrà presentata il prossimo Giugno in occasione della settimana milanese di moda maschile. Un progetto che nelle intenzioni punta a ridefinire la visione di un gentleman moderno, raffinato, ma sempre con un occhio indirizzato alla tradizione e all’eccellenza dell’artigianalità italiana. Vuoi vedere che sarebbe tanto piaciuto anche al nonno?

Be happy!

Abba – Dancing Queen – YouTube.

Niente musi lunghi oggi, dobbiamo festeggiare. Non solo l’inizio della primavera, arrivata quest’anno in anticipo, proprio come cantava Laura Pausini in una suo celebre brano (perché, non lo conoscete?), parentesi che già dovrebbe darvi un’idea di quanto mi rincretinisca del tutto l’avvento della bella stagione. Inutile ripeterlo: il mio umore e le mie energie, messi a dura prova dalla brevità delle giornate e dalle rigide temperature invernali, mi portano ogni anno a contare ad una ad una le ore che mi separano dall’equinozio di primavera, (cioè il passaggio del Sole dall’emisfero australe a quello boreale…o forse il contrario?) avvenuto precisamente oggi alle 11.02. Un’ora che purtroppo si addice poco all’eventualità di un brindisi, altrimenti, credetemi, l’avrei degnamente celebrata con la bottiglia riservata alle grandi occasioni. Ma torniamo a noi: è primavera (basta, non lo sottolineo più, promesso) ma non solo. Come riportato da numerosi quotidiani odierni (http://www.lastampa.it/2013/03/20/societa/oggi-tutto-il-pianeta-prova-a-essere-felice-qcasGdm2F3zss3BeTy2zWN/pagina.html) l’ONU ha infatti stabilito nello scorso Luglio che proprio oggi, 20 Marzo 2013, forse per colmare quel vuoto esistente tra la festa del papà e il tradizionale avvio della nuova stagione, cadesse per la prima volta la Giornata Internazionale della Felicità. Dove per felicità non s’intende quel sentimento astratto e forse irraggiungibile che ciascuno persegue nella propria esistenza, con risultati più o meno soddisfacenti, ma un valore reale, oggettivo, peraltro stimabile con esattezza sulla base di precisi parametri, come la crescita economica, il progresso sociale e l’attenzione per l’ambiente, ovviamente variabili da Stato a Stato. Va da sè che nelle nazioni di area scandinava, come Norvegia e Finlandia, da sempre più sensibili a certe problematiche e più all’avanguardia in numerosi campi, l’indice di felicità sia potenzialmente maggiore che in altri paesi situati più a sud nel mondo. Eppure, discutendo con la mia amica svedese Kicki, la stessa che dal mio accento (da migliorare) nel parlare inglese e dal mio aspetto pensava fossi brasiliano e che si stupiva quando le nostre amiche di area mediterranea sollevavano problemi a lei sconosciuti, come la peluria scura sulla braccia, ho scoperto che anche lassù hanno i loro bei grattacapi. Ad esempio l’alto tasso di alcolismo diffuso soprattutto tra i giovani, pare in parte dovuto alla scarsità della luce solare durante l’anno (ragione che mi ha sempre scoraggiato dall’andarla a trovare) che aggrava di gran lunga l’intensità di alcuni stadi depressivi. Oppure il gran numero di incidenti stradali causati dalle alci, i bestioni tipici delle loro foreste, che, per quanto abituati a considerare animali innocui e simpatici per via dei peluche in vendita all’Ikea, sono in realtà dei colossi grandi due volte un cavallo di stazza media, con il vizio di zompare all’improvviso sul cofano delle auto perché attratti dai fari. Più interessante è semmai notare (ma non credo che l’ONU lo includerebbe mai tra gli indici di misurazione della felicità di un paese) che proprio in questi giorni, in Svezia, a Stoccolma, si stiano completando i lavori per l’inaugurazione, prevista per il prossimo 7 Maggio, del singolare museo interamente dedicato all’attività e alla storia degli  ABBA, (http://espresso.repubblica.it/style_design/lista/fotogallerie/32604291?ref=HRSN-1 http://www.abbathemuseum.com/) il gruppo che con i suoi successi come Mamma mia, Dancing Queen (video allegato) ha segnato come nessun altro la musica disco anni ’70 – ’80. Tra l’altro, online, è già possibile prenotare i biglietti per l’ingresso nell’edificio appena ultimato, al cui interno è prevista anche la ricostruzione fedele della loro storica sala d’incisione, con tanto di costumi originali, con zampa d’elefante e lustrini, da indossare. Notizia che, immagino, in questa giornata, vi renda ancor più felici.