Cambio (di) stagione

A volte basta davvero poco, il leggero entusiasmo dell’autostima in rimonta su mille inutili tormenti, minuscole vittorie strappate ad una pigrizia fin troppo radicata, un risultato modesto ma piuttosto gratificante perché ottenuto con quella testardaggine che non ricordavi più fosse inscritta nel tuo dna. Episodi intimi e trascurabili, di nessuna importanza o quasi, eppure talvolta sufficienti a regalarti quel briciolo di soddisfazione di cui avevi però esattamente bisogno per sentirti di nuovo in grado di poter ambire a mete dapprima ritenute al di fuori della tua portata. Basta poco, dicevo, per scoprirsi rivitalizzati e apprezzati, capaci di euforici slanci di energia e a tratti quasi onnipotenti: l’aver intaccato con le tue sole forze quella situazione che sembrava ristagnare da un’eternità, una commovente e affettuosa dimostrazione di fiducia siglata da un abbraccio travolgente e inaspettato, perfino il riuscire a perdere con precisione quel tot di chili di cui volevi sbarazzarti in un mese, senza sforzi colossali e senza soprattutto il costante timore di dover salire sulla bilancia con una gamba sola, a mo’ di fenicottero. E siccome il raggiungere un qualsiasi traguardo, seppur esiguo, innesca la voglia di mettersi ancora una volta in discussione tentando di alzare sempre un po’ di più l’asticella, e dato che le lunghe e grigie giornate di autunno sono lastricate di buone intenzioni molto più delle innumerevoli strade per l’inferno, ne ho approfittato per stilare la lista dei prossimi miei obiettivi avvertiti come quasi realizzabili, senza troppe esagerazioni ma con tutta la presunzione, esistente al momento, di poterli sul serio concretizzare in questa stagione (o in questa vita, mi andrebbe bene comunque):

- tenere finalmente a bada quei disatrosi effetti dovuti a un’eccessiva emotività che mi scombina spesso la voce e la mente quando mi ritrovo a parlare in pubblico o con perfetti sconosciuti, causa di fiumi inarrestabili di frasi senza senso o di ben più gravi e spiazzanti vuoti di parole, che durano solo pochi secondi ma a che a me sembrano comunque un tempo infinto, in cui mi ritrovo a grattarmi freneticamente la testa in panne e a fissare il pavimento come se i termini che vado cercando potessero miracolosamente sbucare lì proprio davanti ai miei occhi, nell’angolo scalfito di quella piastrella dove si è arenato il mio sguardo.

- sforzarmi di apprezzare le attenzioni di un qualsiasi animale domestico, senza nascondermi dietro la scusa delle mie reali e devastanti allergie, perché studi scientifici dimostrano che chi si relaziona più spesso con cani e gatti vive più a lungo e più felicemente, perché da sempre mi scontro col pregiudizio mai superato di considerare chi si circonda di animali meno capace o desideroso di volerlo fare con i propri simili, perché Ravel, il cane della mia amica Claudia, quando mi accoglie scondizolante e smanioso di salirmi in braccio pare chiedermi ogni volta con i suoi occhioni imploranti “Mbeh? Tutto qui il tuo affetto per me?”

- riuscire finalmente ad accompagnare o anche solo convincere mia madre ad entrare tutta trionfante in quel famoso e raffinato negozio di abiti che ha da sempre amato alla follia, come è evidente dai lunghi sospiri sognanti che le sfuggono di bocca ogni volta che passiamo di fronte alle sue vetrine, per farle così provare ed acquistare un nuovo vestito rosso, perché è un colore magnifico che di sicuro le starebbe d’incanto, e perché non avrebbe mai tanto coraggio da chiedere esplicitamente un regalo del genere, che invece si meriterebbe eccome.

- insegnare qualcosa di memorabile a mia nipote Giulia, che non siano soltanto quei giochi pericolosi e sguaiati con cui di solito la intrattengo, tipo lanciarci il passeggino delle bambole o fare la lotta con i cuscini, con cui ho cercato di conquistarmi furbamente la fama dello zio più permissivo. Dovrei invece spiegarle una qualche attività utile o anche solo una parola davvero indispensabile in futuro, in modo che quando si troverà ad usarla possa pensare subito “è quella di zio Ale!”, ora soprattutto che fra le nuove insegnanti di scuola, la baby – sitter, i suoi coetanei più fantasiosi e stimolanti, il timore di essere rimpiazzato è forte.

- riuscire ad organizzare con il mio amore quel benedetto viaggio, rimandato purtroppo ormai da anni, per andare ad osservare la rotta delle balene che migrano verso Sud, perché è fra i suoi desideri più grandi, anche se io, al contrario, mi sento venir meno al solo pensiero di dovermi avvicinare ad un animale di quella stazza, e nonostante la soddisfazione della sua faccia esaltata e i racconti che andremo narrando per anni sull’episodio, già so che non potrò fare a meno di pensare in quel momento che con un colpo improvviso di coda potrebbero ucciderci entrambi. Però in autunno dicono sia la stagione migliore. Per le balene, intendo. Non per avere dei pensieri così negativi.

Datemi una “z”!

▶ FEDEZ – VELENO PER TOPIC feat. Luciouz (Official Video) – YouTube.

Chiamiamola pure un’insana abitudine, un arrovellamento inutile intriso di curiosità e triste consapevolezza, un mix di pensieri sconclusionati che si fanno largo tra migliaia di aspirazioni e piani irrealizzabili, ma talvolta capita di smarrirmi rimuginando sulla mia oggettiva e scoraggiante mancanza, in questa vita, di un qualche talento artistico, e di domandarmi quindi con tono speranzoso: “se potessi scegliere in chi rinascere nella prossima esistenza, chi vorrei essere?”. Il lato buffo e forse psicologicamente preoccupante di tutto questo patetico dialogo interiore non risiede solo nel tempo sprecato tentando di fornire a me stesso una risposta in qualche modo convincente e più appagante della palese assurdità della questione, quanto il fatto che spesso i vari personaggi che d’un tratto mi saltano in mente siano davvero lontanissimi da me per indole, look, carisma e modus vivendi. Ad esempio, oggi come oggi, di fronte al quesito bislacco posto qualche rigo più su, non avrei alcun dubbio nel rispondere al volo “vorrei essere proprio come il rapper milanese Fedez”. Si, lo so che molti di voi, al pari del sottoscritto, si siano resi conto della sua efficacia mediatica o anche solo della sua esistenza da quando è stato scelto per affiancare i pareri deliranti di Morgan e le acrobazie linguisitche di Mika nella giuria di X- Factor (apprezzabilissima anche la new entry di Victoria Cabello nel nuovo cast del reality canoro), ma santiddio, sono bastate un paio di puntate ed ecco che il fanciullo (non ancora 25enne, e questo mi sembra il primo, valido motivo per invidiarlo) si è già imposto sugli altri per spigliatezza, humour, sensibilità. A dire il vero l’avevo già notato, senza putroppo prestare la dovuta attenzione alle sue, seppur interessanti, performance musicali, in un paio di precedenti comparsate televisive: ma come mi succede ogni volta di fronte a qualcuno ricoperto dalla testa ai piedi di tatuaggi, io che ho evitato con cura anche solo di farmi incidere delle iniziali, una data o un qualsiasi disegnino sulla pelle a causa di una disarmante volubilità di gusti e all’effettivo timore di rovinosi cedimenti fisico – strutturali, rimango così affascinato e insieme sconvolto da tanta audacia estetica da non riuscire a distogliere più lo sguardo da quell’incredibile e coraggiosa quantità di decori (la stessa cosa mi è successa pochi giorni fa in autobus, quando mi sono ritrovato a fissare un ragazzo davanti a me perché sfoggiava su una spalla la singolare scritta “Made in Puglia” con tanto di codice a barre riportato sotto, proprio come se fosse un pacco di orecchiette. Il che mi ha fatto supporre che da qualche parte, forse in fondo “alla confezione” avesse potuto avere anche la data di scadenza, magari tatuata per sempre sotto la pianta del piede). Per non parlare poi di quei piercing che scintillano continuamente sul viso del cantante, uno posto addirittura in mezzo agli occhi (mentre io a distanza di venti anni ancora ricordo il dolore della mia più ribelle decisione giovanile, un terzo orecchino al lobo sinistro, causa di settimane insonni a provare a dormire sul fianco opposto), di quella sua dentatura regolarissima e abbagliante, che neanche se decidessi finalmente di ascoltare il dannato consiglio di mettere un apparecchio odontoiatrico per riposizionare il canino destro nato obliquo e riallineare tutti gli incisivi sparpagliati come cani in fuga, mai e poi mai mi verrebbe fuori così. Senza dimenticare quell’aria un po’ strafottente da giovane canaglia che la sa comunque lunga sui meccanismi della vita, quella capacità di prodigarsi in elenchi infiniti di rime al vetriolo, scagliandosi con sarcasmo e perfidia contro case discografiche e colleghi (proprio come succede nel suo nuovo singolo Veleno per topic, video allegato), di sistemare infine frasi funamboliche in testi tutt’altro che banali perché vivificati da un linguaggio quotidiano, concreto, allo stesso tempo colorito e irriverente. Sì, vorrei proprio rinascere con il corpo e la testa di un rapper come Fedez. Certo, rimane l’incognita della scelta di un possibile e plausibile nome d’arte: forse, proprio come ha fatto Fedez (al secolo Federico Leonardo Lucia) una “z” messa al punto giusto potrebbe funzionare. Alez però, francamente, mi pare un po’ troppo banale, Guastiz, diciamolo, proprio non si può sentire: se fosso solo Stiz, che fa tanto “stizza”, la stessa che poi è presente in tutto il blog?

Mostruosi ricordi!

The Addams Family TV Show Opening 1964 – YouTube.

Nella convulsa quotidianità di un adulto, definzione che in base a quella cifra incontestabile presente alla voce “data di nascita” sulla carta d’identità dovrebbe inculdere anche me, trovarsi a ripescare occasionalmente nella testa i ricordi un po’ offuscati della propria infanzia rappresenta in molti casi un piacevole e non sempre pianificabile passatempo, una distrazione placida e imprevista in cui immergersi quando la memoria ti coglie di sorpresa divertendosi a spalancare a casaccio alcune finestre sul tuo vissuto. Naturalmente è così anche per me: quel misto di tenerezza e imbarazzo che mi provoca rievocare la mia immagine di bambino perennemente sbrindellato, sudacchiato, un po’ selvatico, che rientrava a casa solo quando era impossibile continuare a ignorare i richiami via via più minacciosi di mia madre alla finestra, con i calzoni della tuta sempre macchiati d’erba e un’immancabile crosta di sangue al ginocchio sinistro, di cui conservo una simpatica cicatrice ancora oggi, si accompagna all’enigma mai risolto di come abbia fatto a trasformarmi negli anni in un esemplare di persona oggi comunemente ritenuta mite e piuttosto affidabile. Non che fossi un tipino poi così irrequieto e scavezzacollo: ma dietro quell’apparenza calma e assenata, frutto di un’indole quasi timida e di un rendimento scolastico medio – alto, dovuto al dono provvidenziale di una memoria da elefante che mi ha sempre garantito buoni risultati con il minimo sforzo, rimaneva da gestire un’energia anche fisica che talvolta finiva per essere incanalata in pericolosi svaghi, dal salire appena possibile sugli alberi nei giardini all’eseguire ovunque capriole e giravolte rischiose, con un’agilità poi purtroppo svanita chissà dove. Questo per chiarire maggiormente quale trauma possa aver rappresentato per me affrontare a circa 8 anni, di fronte a una platea di altri classi semiannoiate, il mio primo e unico ruolo ottenuto in una recita scolastica, la sola che le mie insegnanti ci permisero di mettere in scena, giustificando la propria evidente incapacità di tenerci a bada in simili occasioni con un banale “sono troppo vivaci”. Per di più, invece di legare l’evento, come da consuetudine, alla sentita tradizione religiosa, che prevedeva l’allestimento di uno spettacolino amatoriale verso Natale o Pasqua, con bambini in vesti rabberciate a mo’ di angioletti, pulcini, fiocchi di neve o fiorellini, le mie maestre, dimostrando senza dubbio originalità e un senso dell’umorismo un tantinello lugubre, decisero, forse ambiziosamente, di farci addirittura cimentare nella Famiglia Addams, il celebre telefilm che proprio questi giorni va compiendo 50 anni dalla sua prima messa in onda negli States (nel video, la sigla originale). E dato che Stefania, la mia compagna di classe colpevole di avermi dimostrato con troppo entusiasmo la sua cotta colpendomi con una sedia dritto sulla testa, era stata ritenuta perfetta per la parte di Morticia, ma un mio eventuale affiancamento nei panni di Gomez avrebbe messo a rischio ancora una volta la mia incolumità e i nervi già provati delle insegnanti, la soluzione migliore fu quella di tenermi a debita distanza da lei assegnandomi il ruolo assai gratificante di, udite udite, Mano. Il che significò che per tutto il tempo delle prove così come per la durata stessa della recita, percepita come infinita, sarei dovuto rimanermene accovacciato e quatto quatto sotto alcuni banchi accostati, coperti da una polverosissima tovaglia bordeaux con le nappe, sistemata per nascondere l’apertura strategica da cui avrei far dovuto fuoriuscire la mia mano che faceva così la sua magica comparsa sbucando da una scatola di scarpe ridipinta. Un gran debutto artistico, non c’è che dire. L’unica consolazione era sapere (perché di riuscire a vedere qualcun altro, là sotto, non se ne parlava) che “sul palco” ci fossero altri compagni ancor più pubblicamente ridicolizzati: Merygiusy (mi pare si scrivesse così) ad esempio, a causa dei suoi lunghi capelli lisci color miele, fu scelta per impersonare il cugino It e costretta dunque a recitare in ginocchio, di spalle al pubblico, con un paio di occhiali da sole indossati al contrario sulla nuca. Emanuela, data la sua corporatura gracile e il faccino pallido perennemente imbronciato, divenne, con pochi piccoli accorgimenti, una copia quasi fedele di Mercoledì, e dunque poi condannata a fare i conti con quel cupo soprannome per alcuni anni a venire. Perché va precisato: uno dei motivi per cui tutti ricordiamo volentieri il telefilm, oltre al quell’efficace humour nero e alla stravaganza di vicende, dalle quali nei primi anni ’90 è stata tratta una riuscita versione cinematografica e adesso anche un musical, è per averci soprattutto fornito un noto e riconoscibile campionario di tipi fisici e relativi nomignoli con cui etichettare o sbeffeggiare chicchessia. Quello che ho pensato proprio qualche giorno fa quando ho dovuto rinnovare il mio tesserino di accompagnatore turistico: una rapida occhiata alla nuova foto, ed ecco che la mia infanzia traumatica di Mano ha lasciato adesso il posto ad una più spettrale maturità da zio Fester.

Sì, lo voglio!

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Ecco, ci mancava pure il blindatissimo (solo 150 invitati, si dice) eppure strafotografato e onnipresente (sul web e non solo) matrimonio della nostra Elisabetta Canalis, colei che dopo aver collezionato nel tempo stuoli di amori vip, i cui dettagli hanno riempito per anni il palinsesto di tutte le trasmissioni di gossip e ogni edizione di Studio Aperto, ha deciso qualche giorno fa, in linea con quella che sembra ormai diventata l’ultima mania tra le star, di convolare frettolosamente a nozze, nella sua magnifica Sardegna (il fortunato però, spiacenti, non è affatto un volto noto, ma un chirurgo americano, Brian Perri, provvisto di quel profilo un po’ schiacciato che farebbe pensare più ad un pugile). Già, come se in questo ultimo scorcio d’estate, tutt’altro che avara di scoop, non ci avessero già abbastanza tediato prima con le insinuazioni e i sospetti crescenti, sostituiti poi dalla scioccante certezza, del fatidico sì pronunciato in terra francese dai due belloni di Hollywood per eccellenza, Angelina Jolie e Brad Pitt, i quali, sebbene per tutto il decennio della loro chiacchieratissima storia abbiano reso noto a mezzo stampa, sistematicamente, ogni singolo incremento di prole, tatuaggio o acquisto di qualche villa milionaria sparsa per il pianeta, si sono d’improvviso scoperti creature riservate e amanti della privacy, lasciando trapelare i particolari e gli attesi scatti del loro matrimonio solo a nozze avvenute. E siccome lo spirito di emulazione in questi casi è sempre presente, e per quanto vi preoccupiate di fingere disinteresse per l’argomento magari in fondo a quell’angolo imperscrutabile del vostro cuore un microscopico pensierino l’avete pur fatto, o forse al momento state davvero scalpitando in attesa che vi si concretizzi davanti agli occhi una sorta di proposta semidecente, eccovi la solita, insensata ma attendibilissima lista di brevi consigli finalizzati alla scelta dell’abito giusto per un eventuale, sospirato o più o meno realizzabile, matrimonio.

1) Per lei. Amiche mie, siete sempre così ipercritiche verso voi stesse, soffrite più o meno tutte di un leggero dismorfismo corporeo, che vi porta a scovarvi un’enormità di difetti inesistenti e a lasciare in balìa delle tarme un numero spropositato di capi sexy o costosi condannati per sempre alle tenebre dei vostri armadi. Come si spiega allora che nella ricerca estenuante dell’abito da sposa perdiate ogni cognizione del vostro fisico e vi ostiniate a provare tonnellate di abiti vaporosamente kitsch, dall’improbabile linea a sirena, nell’uno o nell’altro caso del tutto inadatti? Lasciate dunque alla Canalis o alla Jolie la ridicola prerogativa di milioni di balze e di ricami stravaganti, loro sarebbero apparse comunque gnocche anche con un sacco dell’immondizia annodato sulle spalle. Fate così: oltre alla mamma (so che non potete murarla a casa quel giorno, anche se lo desiderate) scegliete di farvi accompagnare negli interminabili e necessari giri per boutique proprio da quell’amica stronza (tutti ne abbiamo una), la stessa che da anni va narrando ad ogni cena le circostanze imbarazzanti dell’unica vostra ubriacatura colossale, la sola che appena uscite dal parrucchiere vi riporta a casa per mano per rifarvi uno shampoo e una messa in piega meno svettante. Quella. Il suo, credetemi, è il parere migliore.

Per lei 2: Se il vostro modello di riferimento vip per l’abito da sposa non è un’irragiungibile diva planetaria ma una bellezza più acqua e sapone, una fanciulla della porta accanto, insomma una celebrità casalinga del genere “sì, carina, ma ti vorrei vedere al mattino ancora struccata”, potete sempre ispirarvi all’altro strombazzatissimo matrimonio di stagione, quello celebrato qualche settimana fa a Capri tra la conduttrice Caterina Balivo ed il suo compagno, il manager finanziario Guido Maria Brera (e qui in genere la malignità si trova ad un bivio, se aggiungere un commento velenoso sul mestiere o sul nome di lui). La Balivo ha ripiegato (azzeccandolo abbastanza, ve lo concedo) su di un abito vintage originale anni ’50; se siete orientate ad una soluzione simile, vi ricordo che per vintage si intende esclusivamente un capo che abbia almeno venti anni di storia, meglio se rappresentativo dello stile della propria epoca di appartenenza. In tutti gli altri casi si tratta, senza tanti preamboli, di un abito vecchio, dismesso, di un banalissimo e non sempre in buone condizioni, usato: non azzardatevi ad acquistare o a spacciare per vintage un pezzo se non siete sicure della sua qualità o della sua provenienza. L’effetto “gattara” è quanto di più mortificante vi possa capitare al vostro matrimonio.

Per lui: Amiche, mi rivolgo sempre a voi, tanto, parliamoci chiaro, cosa volete ne capisca lui di abiti da sposo? Sapete meglio di me che il vostro futuro maritino sarebbe davvero in grado di presentarsi quel giorno all’altare in t-shirt, bermuda fiorati e ciabatte ai piedi (forse sulla comodità non avrebbe poi tutti i torti). Mi raccomando: non lasciatelo da solo nelle mani di quella che sarà vostra suocera, lei l’ha messo al mondo, lei è incapace di vederne i difetti, lei potrebbe sul serio consigliargli quel terribile completo di un tessuto verdino o blu elettrico con cui credevate potessero confezionare solo le tutine dei Power Rangers. Sostenetelo, incoraggiatelo e soprattutto non perdetelo di vista neanche un secondo: men che mai nelle grinfie dell’amica stronza di cui al punto 1. Nella scelta del vostro abito sarà pure fondamentale; per la rovina anticipata delle vostre nozze, un rischio troppo grande, da non correre.

(photo Miles Aldridge, Vogue Italia, Settembre 2011)

Le faremo sapere

Può succedere a chiunque, in qualsiasi momento della vita. Che siate giovanissimi o 29enni bugiardi e recidivi, come me, che abbiate una preparazione formidabile e competenze assai richieste o un’affascinante quanto inutile laurea in storia del costume, come la mia, lasciata a marcire in qualche cassetto della segreteria dell’Università. Che siate poco abituati agli scossoni professionali e a rimettervi in gioco ogni due, tre anni o ormai rassegnati, al pari del sottoscritto, a cercare di far fronte alle spese quotidiane con spericolati equilibrismi che richiederebbero il dono dell’ubiquità. Può succedere a chiunque, dicevo, di trovarsi improvvisamente o di nuovo senza più un lavoro e di doversi rimettere a capo chino a cercare un altro posto o un altro impiego, una sfida che può diventare ogni volta più sfiancante e temibile della precedente. Esattamente quello che sto vivendo io da qualche mese, da quando, dopo aver rifiutato con un moto di orgoglio e di incoscienza, un gratificante ma sottopagato incarico professionale svolto negli ultimi tempi, ho ricominciato a inondare il web di curriculum e proposte di collaborazione, migliaia, a cui sono arrivate risposte (poche) più o meno incoraggianti. Quella che segue è perciò la sintesi semiseria, in forma di dialogo, degli strampalati ma reali incontri con i vari personaggi che hanno dimostrato un minimo d’interesse alla mia nuova e coraggiosa richiesta di un lavoro. Buon divertimento:

- Responsabile comunicazione azienda di moda: “Sarò sincero, è difficile inquadrarla all’interno di un’azienda, ha avuto tante esperienze così diverse. Il suo curriculum sì, è piuttosto interessante, però è, come dire…” “Eclettico? (boh, gli butto lì un aggettivo, magari gli è di aiuto!)” “Sì, eclettico, stavo quasi per dire schizofrenico, ma eclettico può andare. Ecco, e lei lo è?” “Schizofrenico? (ma che gli sembro matto?)” “Intendevo dire eclettico” “Ah, scusi, non avevo capito (e niente, con questo tizio non c’è proprio feeling)”.

- Responsabile comunicazione azienda di moda 2: “E mi dica, Alessandro è più veloce o più preciso?” “(ma ora perché parla di me in terza persona? e che razza di domanda è? Di sicuro è un trabocchetto, proviamo a pensarci un attimo. Però ci sto impiegando troppo tempo a rispondere, non posso mica più dirgli “veloce”, sembra quasi lo prenda in giro) Beh, direi più preciso!” “Ok, però si ricordi che anche la tempestività è importante nella comunicazione!” “Quindi avrei dovuto rispondere veloce? (lo sapevo, era un trabocchetto).

- Responsabile progetti digitali agenzia eventi: “Le va di parlarmi dei suoi genitori?” “(e questa poi? mica sarò finito, senza saperlo, dallo psicoanalista? Qui c’è qualcosa che mi puzza, proviamo prima a tastare un po’ il terreno) Certo. Potrei solo sapere, per curiosità, perché me lo sta chiedendo?” “Serve per valutare la sua reazione emotiva. Un’altra candidata, per esempio, alla stessa domanda mi è scoppiata in lacrime” “Ah, capisco (oddio, mica tanto). Ma non si preoccupi, non è mai successo che abbia pianto parlando dei miei. Forse, di questi tempi, è più probabile il contrario. Ma dovrebbe chiedere a loro!

- Agenzia di lavoro interinale: “Vedo dal suo cv che la sua conoscenza dell’inglese è ad un buon livello. Al punto che potremmo continuare questa nostra conversazione in inglese?” “Beh, sì, se vuole (capirai, fino adesso abbiamo parlato solo delle stranezze del tempo e di quanto faccia caldo oggi)!” “Ah, no, si tratta di una semplice domanda di routine. Si figuri, io poi ho studiato francese!” “Quindi la sua valutazione del mio livello d’inglese è, diciamo così, basata sulla fiducia? (averlo saputo prima mi sarei spacciato per madrelingua!).

- Agenzia di lavoro interinale 2: “Però, ha lavorato anche in tv. Ma non mi sembra di averla mai vista! “(Eh? Ho capito male. Cioè, sta pensando sul serio che comparissi davanti alle telecamere? E chi mi crede, Gerry Scotti?) Ecco, vede, lavoravo in una redazione tv. Significa che scrivevo testi e curavo dei pezzi per una piccola trasmissione, ma dietro le quinte, diciamo” “Ah, sì, infatti nel suo curriculum ha messo “redattore” “Appunto. Era quello che facevo. Sennò avrei scritto “conduttore” (o valletta. Questa però è scema forte).

- Addetto comunicazione casa di produzione (via e.mail). “Gentile dott. Guasti, avremmo bisogno, per fissare un colloquio conoscitivo, anche di un suo curriculum più “motivazionale” (scritto proprio così, tra virgolette). Ad esempio, cosa l’ha spinta a cercare una collaborazione qua da noi”. “Gentile dott. Vattelappesca, direi innanzitutto la mia voglia di misurarmi in un ambiente di lavoro stimolante, la curiosità verso un’azienda qualificata come la vostra…(e giù un’intera e.mail di salamelecchi e false carinerie)”. La data del colloquio ovviamente non è mai più stata fissata. Colpa mia: forse avrei dovuto allegare anche l’ultima bolletta del gas da 634 euro. Sarebbe sembrata di certo più “motivazionale”.

- Titolare studio comunicazione (via e.mail): “Gentile dott. Guasti, potrei incontrarla per un colloquio conoscitivo appena avremo terminato i lavori per un nostro cambio di sede. Mi ricontatti alla fine del mese”. Dopo un mese “potremmo fissare un giorno al mio rientro dalle ferie. Mi chiami tra due settimane”. Dopo altre due settimane “Mi dispiace, ma ho avuto un piccolo infortunio alla gamba, non so dirle quando potremmo incontrarci”. Ora, non so se quell’infortunio sia vero. Posso dire che da una parte me lo auguro tanto?

- Titolare ufficio stampa: “Leggo qui che ha anche un blog. E di cosa scrive?” “E’ solo un piccolo progetto personale, mi diverto a scriverci un po’ di tutto, di moda, di costume, delle varie notizie che mi colpiscono e della mia vita privata. Scrivo tante cretinate, soprattutto” “Ah. Immagino che lo utilizzerà anche per togliersi qualche sassolino dalle scarpe” “In realtà no, finora non è mai successo. Però lo sa che mi ha appena dato un’ottima idea?”