Elegante, perfetto…noioso?

Suit & Tie (Official Lyric Video) – YouTube.

Entrambi non hanno bisogno di presentazioni. L’uno, Tom Ford, è lo stilista artefice della rinascita e del rilancio, agli inizi degli anni ’90, dello storico marchio italiano di moda Gucci, colui che azzeccando una collezione dopo l’altra ne ha riacciuffato le sorti, riportandolo in auge e riposizionandolo tra i più ammirati e venduti al mondo, facendone nuovamente così un simbolo internazionale di allure e di superba eleganza. Texano, 51 anni di fascino indiscutibile, gli occhi alla Richard Gere perennemente socchiusi, (forse perché fa “più sexy” o forse per una leggera miopia), una relazione quasi trentennale con il compagno, il giornalista inglese Richard Buckley, dopo l’addio alla Gucci e una felicissima parentesi nel cinema nel 2008 (è il regista del toccante A single man, la pellicola che detiene il record di lacrime da me versate sui titoli di coda) dal 2004 si occupa, con alterne fortune, del proprio brand omonimo di abbigliamento e accessori. L’altro, Justin Timberlake, cantautore da svariati milioni di copie di dischi venduti nei cinque continenti, ballerino, attore (notevole la sua prova in Alpha Dog di Nick Cassavetes, nel 2005) doppiatore, produttore, probabilmente supereroe visto tutto ciò che riesce a fare (e bene), ex di Britney Spears, ex di Cameron Diaz, ha da poco riconfermato il suo unico interesse per le donne famose sposando pochi mesi or sono in Puglia (mbeh? non sapevate della passione fra le coppie hollywoodiane per i pranzi a base di orecchiette?) l’attrice Jessica Biel. Con due curricula così, la collaborazione che li ha visti entrambi impegnati per il nuovo imminente album di Timberlake dal titolo 20/20 e prodotto da Jay-Z, anticipata solo due giorni fa dal magazine britannico Daily Telegraph (http://fashion.telegraph.co.uk/columns/bibby-sowray/TMG9831972/Tom-Ford-and-Justin-Timberlake-collaborate.html) suonerebbe come qualcosa di unico ed esplosivo. Peccato che a giudicarne gli esiti, come la preview del primo singolo Suit & Tie (video allegato) tutta la faccenda si riduca a una banalissima, scontata e a tratti stucchevole operazione di marketing. L’impressione è infatti quella di un Timberlake all’affanosa ricerca di una nuova “confezione” più matura e appetibile per un artista che voglia scrollarsi di dosso la precedente immagine di bravo ragazzo, poi divenuto cattivello, adesso adulto. E chi poteva dargliela se non proprio Tom Ford, fautore di quell’eleganza studiata e impeccabile, vagamente retro, fatta di uno stile ricercato e minuzioso? Senza considerare poi la necessità per lo stesso Ford di un’occasione di riscatto, dopo il parziale flop delle sue ultime collezioni che, assenti per volere dello stilista dai calendari di sfilate nel tentativo di circondarle di un alone di mistero ed esclusività, hanno finito semplicemente con l’essere un po’ snobbate dalla stampa. Insomma, se l’opportunità sembrava ghiotta per tutti, il risultato, ahimé, suona artificioso e deboluccio. Già lo stesso titolo del singolo, Suit & Tie, completo e cravatta, insiste sui codici di un abbigliamento classico e formale, non a caso ribaditi dalla continua presenza di tutti i capi di Ford, costantemente inquadrati nel video, come in un lungo, noiosissimo, spot. Il tutto a far da cornice a un pezzo musicale facile, ritmato, forse di futuro successo, ma alla fine decisamente distante da quella raffinatezza così elaborata voluta nel look. Insomma, l’impegno c’è, ma l’eccellenza ancora no: provateci ancora, ragazzi!

Matrimonio all’italiana

Esistono dei fenomeni che, forse inspiegabilmente o forse a causa di un certo loro fascino inquietante, continuano ad esercitare una potente attrattiva su di me. Non mi riferisco a quei misteri insondabili dell’universo, all’esistenza di altre galassie o di altre forme di vita, né tanto meno agli ufo, ai cerchi nel grano e a tutto il classico repertorio di astroboiate che riempie interi palinsesti televisivi e qualche cervello di troppo. A dire il vero sarebbe stato preferibile, perché ciò che al contrario trovo allo stesso tempo incomprensibile e avvincente, sbalorditivo e paralizzante, quasi paragonabile allo sguardo di una moderna Medusa in grado di rendere il mio corpo di pietra, è la permanenza, il duraturo successo e l’interesse che ancora suscitano sui media certi personaggi di dubbio talento, bellezza o carisma. Un esempio su tutti, Valeria Marini. Giuro, non ce l’ho con lei. Anzi, fosse per me, andrebbe, come tutti i volti noti che si reggono sul nulla più evidente, semplicemente ignorata. E’ solo che se nella mia ricerca quotidiana di qualche avvenimento o notizia curiosa con cui rovinarvi l’inizio della settimana, mi sbuca ovunque il suo faccione sorridente e labbrodotato, il suo fisico burroso che rivela ormai qualche cedimento, le sue mise improbabili e bambolesche, alla fine, dopo un lungo e inutile girovagare, mi stufo, mi arrendo, mi adeguo. Il popolo vuole la Marini? E la Marini avrà! Che poi, lo scoop non sta tanto nel fatto che la nostra Valeriona nazionale abbia finalmente deciso di convolare a nozze come riportato dall’agenzia uscita pochi giorni fa sul sito dell’Ansa e ripreso da numerosi quotidiani(http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/spettacolo/2013/01/26/Valeria-Marini-sposa-maggio_8144066.html); voglio dire, per quanto insista a togliersi pubblicamente gli anni (ma guarda, abbiamo perfino qualcosa in comune) l’età “da marito” ormai l’ha abbondantemente raggiunta. E neanche che il prescelto per il fatidico sì, che pronuncerà a Maggio, pochi giorni prima del suo …esimo compleanno (pare 46, ma c’è netta discordanza  tra le fonti e le sue dichiarazioni rilasciate in proposito) ”ovviamente in chiesa” (ovviamente…come risparmarsi su certi dettagli!), il prescelto, dicevamo, sia, guarda caso, come nel 99% dei casi precedenti, un famoso imprenditore, Giovanni Cottone. E neppure che i testimoni accuratamente selezionati per l’evento siano personaggi altrettanto celebri come Maria Grazia Cucinotta e, tenetevi forte, la coppia Anna Tatangelo – Gigi d’Alessio (non sarà mica un bieco tentativo per risparmiare sui cantanti che allieteranno il banchetto?), quanto che per l’abito di nozze, Valeria abbia indetto addirittura un concorso via web, tramite il quale le sarebbero già giunti centinaia di bozzetti da selezionare. Ma come? Non vorrai dirci che nonostante la tua vocazione di stilista dimostrata nella creazione del brand di moda Seduzioni Diamonds non saresti in grado di disegnarti il tuo vestito nuziale senza saccheggiare le idee altrui, per altro gratis? Ma le mie sono solo perfide insinuazioni da blogger insolente e frustrato. Perchè, ribadisco, non ce l’ho minimamente con te, Valeria: è che occupi troppo spazio, sui giornali, intendo. Ah, dimenticavo: congratulazioni!

Finalmente, la tv!

L’INTERVISTA BARBARICA A TIZIANO FERRO – YouTube.

Chiariamolo subito, il mio è un semplice parere di spettatore. Di quelli della peggior specie, poi. Di chi cioè non ha mai utilizzato la tv come strumento di informazione o cultura. Per me l’apparecchio televisivo, che mi sono sempre guardato dall’avere in camera, quasi fosse un intruso con cui non volessi condividere la mia intimità notturna, equivale a un mezzo di puro intrattenimento. Accendo la tv e spengo il cervello: mi rapiscono i programmi trash, le sit-com, le soap opera, i reality show, Miss Italia e Sanremo, senza considerare poi il costante sottofondo dei canali tematici musicali e di moda, che scandisce le mie giornate di home-working o di odiate pulizie domestiche. Non faccio quindi della tv un uso critico né intelligente, per me avere un telecomando in mano significa bisogno di evasione, zapping alla frenetica ricerca di tutto quello che mi permetta di non pensare. E per quanto voglia incolpare di ciò la mia appartenenza alla generazione cresciuta con i fagioli della Carrà, quelli che bisognava indovinare quanti fossero di preciso nel barattolo (ricordate?), credo che convenga più banalmente arrendermi all’evidenza della mia indole di spettatore medio/superficiale. E’ capitato poi, per una di quelle strane manovre del destino, che in tv abbia anche lavorato per un periodo: una singolare parentesi di 2 anni e mezzo (6 mesi da stagista) nella redazione di una trasmissione di moda, ormai defunta, della domenica notte di Rai 1, di cui non è rimasta alcuna memoria negli annali televisivi, condotta nientepopòdimenoche da Katia Noventa, nota soprattutto per essere stata, 20 anni fa esatti, la valletta di Fiorello nel karaoke. Il che, ovviamente, è ben lontano dal rendermi un esperto in materia, per cui le considerazioni che seguiranno sono dettate da ragioni ascrivibili a un mero gusto personale, da condividere o biasimare in tutta tranquillità. Spero però siate d’accordo nel trovare “Le invasioni barbariche” di Daria Bignardi, programma ricominciato con una nuova edizione mercoledì scorso su La7, un prodotto avvincente e ben confezionato come raramente se ne trovano in giro. La conduttrice poi, che firma anche una delle rubriche più seguite su Vanity Fair, ha un talento innegabile per mettere alle strette i personaggi intervistati, senza perdere un briciolo della sua compostezza e della sua algida professionalità, scagliando, con quella voce un po’ nasale e dalla cadenza flemmatica, domande che mirano sempre dritto al cuore della questione. Com’è successo con l’ospite principale della prima puntata Tiziano Ferro (video allegato), che dopo cinque minuti d’intervista partita scoppiettante, con tanto di battute e frecciatine simpatiche, crolla, con le parole quasi rotte dal pianto, dichiarando apertamente la fine della sua storia d’amore con cui aveva tenuto banco su tutti i giornali negli ultimi due anni. Bingo! C’è lo scoop, il colpo di scena, la Bignardi quasi incredula incalza, tenta di strappare poco alla volta i particolari, Ferro resiste, poi cede, divaga su considerazioni generiche e un po’ pessimistiche sui sentimenti, lei lo riporta in pista, lo tranquillizza, ritorna l’allegria iniziale e il tono spensierato con cui si conclude infine la chiacchierata. Eccola, la televisione: quella che t’inchioda allo schermo anche se t’interessa poco o niente del personaggio in questione (del quale invece, per quei compromessi necessari in amore, conosco tutte le canzoni e ho perfino presenziato a un paio di concerti), quella che spettacolarizza e s’insinua nel personale senza cedere al cattivo gusto e alla morbosità di inutili dettagli. Quella che con garbo e apparente leggerezza svela la sorprendente uguaglianza di certi meccanismi umani, oscillando con discrezione tra pubblico e privato. Quella che in Italia, sepolta da decenni di trasmissioni spazzatura, sembrava essere sparita del tutto.

Peccati da social

Stavolta temo proprio di non capire. Eppure sull’argomento dovrei essere piuttosto ferrato. Le dinamiche dei social network, Facebook in primis, principale colpevole nel dimezzare la produttività delle mie giornate lavorative, le trovo così appassionanti e divertenti che siamo di fronte all’unico caso in cui sia riuscito a vincere le mie note resistenze di fronte al mondo della tecnologia in generale.  Di “invidia” invece non ne so nulla: si dice, a tal proposito, che sia l’unico dei sette vizi capitali che non si riesce mai a confessare. Ammettiamo molto più facilmente di essere creature irascibili, di sfoderare tutta l’avarizia degna di un personaggio di Molière e talvolta, perfino con una punta di orgoglio, ci vantiamo della nostra natura lasciva, incline alla lussuria. Ah, no, non stavo parlando di me. Io non rientro neanche nelle categorie appena citate.  Diciamo che sul mio personale podio peccaminoso svetta incontrastata la superbia (ebbene sì), seguita, ex aequo, da gola e accidia. Non che di tale primato vada orgoglioso, intendiamoci. Ma, di fatto, l’immotivata sopravvalutazione delle mie qualità esclude automaticamente il “rosicare” per il benessere altrui. Non invidio, e non ho mai invidiato qualcun altro, perchè non ho mai desiderato essere qualcun altro. Ma torniamo all’argomento principale, perchè se ricomincio a scrivere di me poi divago e non concludo (vedete, la superbia…o è egocentrismo? Vabbè, tanto li possiedo di sicuro entrambi). Dicevamo, l’invidia: stando alle conclusioni non ancora ufficiali di uno studio condotto da due Università tedesche, in pubblicazione il prossimo mese, ma già anticipato proprio ieri dalle pagine di numerosi quotidiani internazionali e dai principali siti (http://www.repubblica.it/tecnologia/2013/01/22/news/facebook_provoca_infelicit-51060718/?ref=HREC2-18 ) Facebook causerebbe ai suoi utenti, oltre alla deprecabile nullafacenza da ufficio, al continuo cazzeggio clandestino e alla preoccupante dipendenza compulsiva da gioco (che vi impedisce, al momento, di staccarvi da Ruzzle), anche un costante senso di infelicità e frustrazione. Motivo? L’invidia che scaturisce nel vedere sulle pagine dei vostri amici, la loro, vera o presunta (lo sappiamo, su Facebook, si finge benissimo) ma comunque strombazzatissima, felicità. Permettetemi, a questo punto, di dissentire: dopo 4 anni, quasi 5, di permanenza del mio profilo, 3 o 4 diverse reiscrizioni, centinaia di contatti, innumerevoli commenti e pollici su di apprezzamento, il mio è un parere che possiamo presuntuosamente definire da esperto. Perciò, tentiamo di fare chiarezza: ma chi si azzarderebbe mai, non solo a definirsi felice, ma anche soltanto ad accennare un qualsivoglia moto di allegria e contentezza su Facebook? Siamo tutti uomini di mondo, suvvia, chi si dichiara pienamente appagato e soddisfatto di se’ o della proprio vita rimane sempre un po’ sulle balle. I social sono ormai un’efficace vetrina aperta sulla nostra esistenza, dove allestiamo ciò che più attrae: cerchiamo complicità, comprensione, solidarietà. Perciò sulle nostre pagine ci sfoghiamo e ci lamentiamo, di continuo: del lavoro, della politica, dell’amicizia, dell’amore, della nostra quotidianità in generale. Che, di sicuro, è molto più ricca di apprezzamenti e di momenti piacevoli di quanto vogliamo far credere, ma perchè ammetterlo? Risultiamo di gran lunga più simpatici nella creazione di un nostro alter ego ironicamente sfigato che  nel sottolineare continuamente ciò che invece funziona. Provate voi stessi, anche adesso, a dare un’occhiata alla vostra home di Facebook e a contare i post da includere in un’eventuale categoria “felicità”: ne avete molti? Dubito. Perchè forse sarà anche meglio suscitare invidia che compassione: ma di quella virtuale, al momento, ne facciamo volentieri a meno.

Voilà, la chanteuse!

Carla Bruni – Quelqu’un m’a dit – YouTube.

In fondo la trovo perfino simpatica. E mi viene il sospetto che l’unico e vero linciaggio mediatico a cui abbiamo assistito in questi anni non sia quello più volte recriminato da un ex-premier (uno a caso) visibilmente più truccato e ritoccato della signora in questione. Perchè lei, Carla Bruni, senza quell’accento sulla “à” finale che regalerebbe a chiunque un’aria snob e un filino di puzza sotto il naso (provate pure col vostro nome), magari inesistente nella realtà, ha sempre fatto buon viso a cattivo gioco. Adesso è più difficile, diranno i maligni, vista l’espressione così impietrita e gli zigomi immobili come due polpette congelate che fanno capolino dalle foto delle sue ultime  apparizioni. Ok, ammettiamo pure che sia ricorsa a qualche ritocchino o iniezione di troppo, per altro mai dichiarati (quindi stiamo solo supponendo), ma è così grave? Non sarebbe certo l’unica che per vanità o paura di invecchiare rischia di deturpare irrimediabilmente il proprio bel faccino con qualche intervento dai risultati deleteri. Senza considerare poi la sua non più giovanissima età (45 anni compiuti lo scorso Dicembre) e la sua precedente e indimenticabile carriera di top model, di chi insomma sul mito di un’irraggiungibile bellezza ha costruito parte del suo impero. All’epoca però, a cavallo tra gli ’80 e i ’90, quando la Bruni era semplicemente l’unica italiana a distinguersi nel ristretto olimpo delle supermodels, la stampa non si accaniva certo sul suo aspetto: le rimproverava, quello sì, la superficialità di certe affermazioni riguardo ai suoi compensi da capogiro. Frasi del tipo “Non è mica facile spendere tutti i soldi che guadagno con questo lavoro” non ti fanno propriamente entrare nelle grazie di giornalisti e pubblico, è chiaro. Parole che suonano come un peccatuccio veniale però rispetto alla celebre massima della sua collega Linda Evangelista, che in un eccesso di sincerità dichiarò candidamente “Per meno di 10.000 dollari non mi alzo neanche dal letto”! E anche a voler interpretare come sfacciata ambizione la sua presunta scalata sul jet – set internazionale, come amante prima (passo falso che le ha inimicato le mogli di tutto il mondo) e poi coniuge dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, chi può dire che non si è trattato invece di amore puro e travolgente fra i due? Lo so, emulare il look di Jackie Kennedy nelle occasioni ufficiali sembrava un travestimento fin troppo studiato e artificioso per una vera first lady. Ma non trovavate così tenero l’espediente delle scarpe senza tacco che non facevano sfigurare il maritino più basso di una spanna? Perchè poi Carla un talento ce l’ha, e l’ha ampiamente dimostrato: quello di cantante. Il primo album, Quelqu’un m’a dit (video allegato) ha venduto oltre due milioni di copie, mica bazzecole. Tutta un’altra storia rispetto ai penosi tentativi discografici, fortunatamente caduti nel dimenticatoio, delle altre top Naomi Campbell (appello per tutti i collezionisti del kitsch, io ne possiedo una copia) o Karen Mulder. E adesso che è in arrivo finalmente la pubblicazione del terzo album della Bruni, firmato addirittura con la prestigiosa etichetta Barclay della Universal, come riporta il magazine francese Challengs (http://www.challenges.fr/media/20130122.CHA5367/carla-bruni-signe-avec-barclay-universal-music.html?xtor=RSS-21) ci sarà ancora chi oserà affermare, che sì, si tratta di canzoncine piuttosto orecchiabili, ma la sua voce, ahimè, ricorda più Romina Power che Arteha Franklin? D’accordo, sarò sincero, alla fine Carlà non sta poi così simpatica neanche a me. Ma nessuno è perfetto, no?