Di notte specialmente

“Ti ricordi, vero, che stasera siamo a cena con i miei colleghi?”. Sono quasi le 18.30, devo tassativamente consegnare per il giorno seguente un articolo di 8.000 – 10.000 battute su una serie di negozi di moda, e come al solito, quando mi ritrovo immerso nella scrittura, perdo ogni riferimento spazio – temporale. A riportarmi all’urgenza della realtà ci pensa appunto la premurosa telefonata del mio amore. “Ma certo” replico io, tentando nel frattempo di dare un senso compiuto alla frase che mi è rimasta tronca sul monitor, “stavo chiudendo un pezzo, ma posso tranquillamente finirlo dopo. Tanto la sera sono più rilassato e faccio più in fretta. A che ora è l’appuntamento?” “Alle 8. E cerca di essere puntuale. Ci vediamo lì”. Peccato che “lì” significhi un paesino semisperduto arroccato su una collina distante almeno una mezz’ora di curve che si snodano a mo’ di mulattiera nella campagna toscana. Peccato che sia da ore pietrificato davanti allo schermo per cercare un aggettivo che non abbia già usato in precedenza nel mio testo, e non sia neanche al primo step del serrato programma ‘doccia – barba – stirati la prima cosa che trovi pulita – cerca anche di abbinarla – ricordati dove hai parcheggiato la macchina’, necessario per arrivare in tempo alla cena. Riesco però nel miracolo. Alle 20.05 (cinque minuti di ritardo, direi trascurabile) sono già, quasi impeccabile, nel posteggio del ristorante. Arrivato prima di tutti, tra l’altro. Forse un tantinello nauseato per la corsa in auto. L’articolo però e rimasto incompiuto. Ma posso terminarlo più tardi. La sera di solito scrivo più rapidamente. O così credevo.

Ore 23.44: rientriamo dalla cena. Divertiti, sazi, per fortuna neanche un po’ brilli, perché devo rimettermi per forza sul mio pezzo. Sottovalutando forse l’incidenza che il fritto di antipasti e la doppia porzione di cheesecake possono avere sulla mia creatività, riaccendo il pc. “Ti dà fastidio se guardo un po’ di tv?” mi chiede il mio amore, sprofondando sul divano e facendo partire sullo schermo le repliche di The Voice. “No, figurati, qui ho quasi fatto”. In effetti devo solo parlare degli ultimi due negozi. Scopro però di avere al riguardo delle cartelle stampa telegrafiche, in inglese. E delle foto minuscole. E ora, che scrivo?

Ore 00.31: “Vado a dormire, tu che fai?”. “Tra poco ti raggiungo, spero”. “Lascio accesa la tv?” “NOOO, ehm no…anzi, semmai togli il volume, così mi concentro meglio” “Ok, ‘notte”. Solo, in salotto, dal televisore ormai muto sbuca Shakira che pubblicizza uno yogurt e Kevin Costner in uno spot di una nota marca di tonno. Ho le allucinazioni? Tolgo gli occhiali, guardo dalla finestra, mi sembra di vedere una capra. Rimetto gli occhiali, la capra è in realtà un tizio che sta spingendo a piedi uno scooter. E’ ufficiale, ho le allucinazioni. Oltre a una pessima vista.

Ore 01.03. L’articolo è quasi pronto. Do un’occhiata alle battute: 7596. Troppo poche. Decido di dare avvio a quella che in gergo tecnico si chiama “operazione allunghiamo il brodo”. Comincio a spargere nel testo parole dalla funzione riempitiva, una pioggia di “così” “dunque”, di avverbi in “mente” che prendono sempre tanto spazio, potessi scriverei anche “supercalifragilistichespiralidoso” ma credo che non me lo passerebbero mai. Riconto le battute: 8891. Ci siamo. Le frasi sullo schermo restano però selezionate, pigio distrattamente con il gomito qualche tasto sul pc e puf, ecco che mi sparisce tutto l’articolo. Che non avevo più salvato. Mandando così in fumo l’ultima ora e qualcosa di lavoro. Tocca ricominciare. Di nuovo. Sgrunt.

Ore 01.34: Tra imprecazioni e scoraggiamento tento di ricostruire l’ultima parte del testo andata irrimediabilmente persa. Contemporaneamente la mia vicina di casa brasiliana, nota per esibirsi spesso alle 6 del mattino, all’aperto, in una discutibile interpretazione di Like a Virgin, opta questa volta per una variazione sul tema “annaffiamento notturno del giardino con lite con il fidanzato”. E’ sufficiente per fortuna una mia comparsata alla finestra, tipo pontefice, ma con la faccia visibilmente più scura, per farli rientrare, in silenzio. Torno a scrivere.

Ore 02.12: Passaggio preoccupato nel corridoio, con occhio chiuso e voce intrisa di sonno, del mio amore. “Sei ancora lì?” “Lasciamo perdere. Ma ci sono quasi, eh!”. Biascica qualcosa di incomprensibile, poi si dirige di nuovo in camera. Che cosa diamine avevo scritto di questo negozio? Se solo avessero messo due informazioni invece di questa cartella stampa così risicata. O un’altra immagine. Incompetenti.

Ore 02.39: L’articolo è finito. Per la seconda volta. Le battute sono più di 9000. Poi l’avrò salvato almeno un centinaio di volte. Tranquillo, la situazione è tutta sotto controllo. Grande respiro di sollievo, posso andare a dormire.

Ore 02.44: In bagno mi tolgo i gioielli che in genere indosso, due catenine, tre bracciali, quattro anelli. Quello in argento al medio sinistro decide, proprio stanotte, di non venire via. Tento con l’acqua fredda, con il sapone, con una forza che di solito basterebbe a staccarmi di netto il dito. Niente da fare: l’anello non sale oltre la seconda falange. Pazienza, dormirà con me. Piombo finalmente sul letto.

Ore 03.56: Mi sveglio di soprassalto. Il dito con l’anello recalcitrante adesso è più gonfio e leggermente dolorante. Non sarà che la mano si è ingrossata perché ho scritto troppo? MA L’HO INVIATO IL PEZZO? NOOOO? Mi alzo di colpo, non trovo gli occhiali, inciampo in un paio di scarpe, raggiungo stordito il pc, lo riaccendo, controllo la posta elettronica. La casella dei messaggi inviati è vuota. Riesco a scrivere due righe deliranti al mio direttore, allego finalmente l’articolo, spedisco il tutto. Furioso, stanco, demoralizzato, ritorno a letto.

Ore 05.17: A svegliarmi stavolta è il forte dolore proveniente dal dito incriminato, che non riesco più minimamente a muovere o a piegare. Mi alzo sfinito per la seconda volta, vado in cucina, accendo la luce, al posto del medio mi sembra di avere qualcosa vagamente somigliante a un salsiciotto violaceo, con addosso un collare d’argento. Provo a ungerlo con l’olio (il sonno aguzza l’ingegno), fino a che, circa al ventesimo strattone tentato, tra urla soffocate e smorfie di sofferenza, riesco finalmente a sfilarmi l’anello. Torno un’altra volta in camera, deciso a  rimanere a letto, l’indomani, fino all’ora di pranzo.

Ore 07.02: Suona la sveglia del mio amore. Che in genere non sento. Ma proprio oggi? Ma perché poi quei due minuti in più dopo le 7? Bah.

Ore 08.22: Scopro che quella che credevo una professione ormai estinta, cioè l’arrotino, non lo è affatto. E nel peggiore dei modi, poi. Perché, forse uno degli ultimi rimasti in circolazione, si piazza, con tanto di registrazione autopromozionale diffusa a gran volume da un altoparlante, proprio sotto la mia finestra. Ok, mi alzerò. Niente riposo a oltranza. Il dito, almeno, si muove. Non che abbia pensato di salutare l’arrotino con un gestaccio (però, come se lo sarebbe meritato). Vabbè, rassegnato, comincio a prepararmi la colazione. Quasi quasi più tardi mi metto a scrivere anche qualcosa per il blog. Ho deciso che di mattina, d’ora in poi, mi riuscirà meglio.

Disco top

Gisele & Bob Sinclar – Heart of Glass (Official Video) – YouTube.

“Quando sei bella ti perdonano tutto” era solita ripetermi Francesca ‘Fruffù’, preziosa e  spassosa confidente e storica coinquilina negli anni universitari, con cui una volta mi sono perfino azzardato a contare tutti gli amici, conoscenti o sconosciuti che nel periodo della nostra lunga e felice convinvenza avessero bivaccato, anche solo per una notte, sul comodo ma orrendo divano letto con le mimose occupante l’ingresso (arrivati però in pochi minuti a superare le 100 persone, spaventati, abbiamo rinunciato)! Una massima a cui io, in realtà, mi ero sempre opposto, in una sorta di sfiancante lotta contro i mulini a vento, nel tentativo, spesso vano, di convincerla dell’esistenza di un generale apprezzamento, anche maschile, rivolto verso altre qualità, tipo la sensibilità, il carisma, la simpatia. Oggi, a distanza di tempo, per quanto ancora fermo in parte su certe mie vecchie prese di posizione (frutto, in realtà, di un dannoso giovanilismo) mi trovo a dare, almeno in questa occasione, quel tanto di ragione che spetta (e forse spettava) alla sua sintetica saggezza. Di fronte alla bellezza, siamo davvero tutti più disposti a chiudere un occhio o a concedere un’altra chance? Di certo ci ammorbidiamo nell’esprimere giudizi netti, forse convinti che le critiche mosse a una persona oggettivamente ed esteticamente piacevole possano essere imputate ad una lieve e strisciante invidia, o forse perché certe affermazioni tipo “sì, ma ha le gengive basse, e anche le ginocchia troppo sporgenti” potrebbero suonare, in qualche caso, un tantinello ridicole o patetiche. E chissà come reagirà Fruffù oltre che l’intero, affezionato e calorosissimo (oddio, non sempre) pubblico di questo blog, di fronte alla notizia del curioso debutto musicale di colei talvolta definita la più bella, spesso la più pagata, top model del mondo, Gisele Bundchen. Brasiliana di Horizontina, 34 anni di cui 20 spesi in giro per il pianeta a solcare passerelle come a posare per le campagne dei più noti brand di moda e di intimo (Victoria’s Secret su tutti), una chiacchierata ex – relazione con l’attore Leonardo di Caprio, un patrimonio stimato quasi 300 milioni di dollari, di sicuro incrementato nel 2009 dal matrimonio con Tom Brady, giocatore di football dei New England Patriots, dal quale ha avuto due figli. Probabilmente insoddisfatta da una vita che in effetti immaginiamo cupa e monotona, sguarnita com’è di ricchezza, successo e fascino, la splendida Gisele ha così voluto dimostrare di possedere un ulteriore e insospettabile talento, quello musicale (Carla Bruni, in sostanza, sta facendo già scuola). E così si è cimentata in una prova canora, non incidendo un proprio album (almeno, non ancora), ma comparendo nelle insolite vesti di vocalist nella cover di una celebre hit dei Blondie, Heart of glass (video allegato) realizzata e prodotta dal dj francese Bob Sinclar, artefice, un paio di anni fa, anche del rilancio della Carrà in versione disco con il remix di A far l’amore comincia tu. Il singolare progetto fa parte in realtà della nuova campagna della collezione mare del colosso svedese H&M, i cui pezzi, bikini ridottissimi animalier e costumi dalla linee vagamente anni ’70, sono gli stessi indossati dalla super model nel video, girato in Costa Rica, in un’atmosfera a metà tra una copertina di Sport Illustrated e una pubblicità per bagnoschiuma. Rimane da valutare l’impresa ai microfoni di Gisele: com’è la top model in versione cantante? Bellissima, su questo non c’è alcun dubbio, anche se sulla voce, ecco, nessuno ha ancora gridato al miracolo. Occorre però anche ribadire che tutti i proventi del brano, scaricabile nelle prossime settimane dal sito stesso di H&M e naturalmente da iTunes, saranno devoluti in beneficienza per un’iniziativa che vede impegnata la Bundchen in persona al fianco di Unicef. E di fronte a una simile dimostrazione di bontà, più che alla sua riconosciuta e indiscutibile avvenenza, anche un blogger dallo spirito sarcastico e talvolta crudele è disposto a concederle il proprio perdono per l’azzardata performance.

Note mondiali

▶ negramaro – Un Amore Così Grande 2014 (videoclip ufficiale) – YouTube.

Uno degli indici più odiosi dell’inesorabile scorrere del tempo (no, tranquilli, non è l’ennesimo post sulla dannatissima paura di invecchiare del blogger, almeno non nelle intenzioni) è il progressivo accorciarsi, con l’età, della percezione stessa della durata degli anni. Tanto per fare, come al solito, un esempio scemo, e rendere chiara la stramba questione introduttiva a chi non abbia ancora bissato la quindicina (per quanto riguarda tutti gli altri, sapete invece bene di cosa stia parlando), provate per un attimo a pensare ai Mondiali di calcio. Che, diciamo, fino verso quella fase della vita in cui alla parola “sofferenza” si associa più facilmente l’eliminazione dei peli superflui che non le pene d’amore o i dolori articolari, sembrano arrivare al ritmo di ogni sei, sette secoli. E tu che magari conservi arrotolata nel ripostiglio la bandiera tricolore in vista di una caotica festa collettiva in piazza, che ha tutta l’aria di essere un appuntamento piuttosto divertente, soffri per l’improvvisa e inaspettata eliminazione della tua Nazionale, soprattutto perché i futuri quattro anni di attesa per la prossima occasione ti sembrano davvero un tempo infinito. Poi cambia tutto. E da adulto (o quasi), alla prima frase distratta che giunge invece a coglierti di sorpresa dalla tv o dalla radio e che suona più o meno come “…adesso, con l’avvicinarsi dei Mondiali…”, reagisci con quel visibile moto di sbigottimento misto a incredulità, mentre in testa ti risuona un solo, gigantesco, inevitabile “di nuovo?”. Anche perché poi, di calcio, ma questo è facilmente intuibile, non è che c’abbia mai capito un granché: anzi, spesso si tratta di una di quelle rare occasioni (le altre sono le interminabili spiegazioni dei giochi a carte, oltre alla già dichiarata scarsa propensione alla tecnologia) in cui il mio cervello diventa automaticamente repellente, rifiutandosi di assorbire, anche a sprazzi, perfino quelle tre, quattro, regole fondamentali. Ad essere sinceri fino in fondo, non credo di conoscere neanche più di cinque dei nostri famosi (per gli altri) giocatori azzurri, cioè i soli che per una qualche ragione extraprofessionale (o extraconiugale) finiscono per riempire anche le pagine di cronaca rosa (come Balotelli e Buffon, per dire). Così come riesco a mandare su tutte le furie i miei amici più “devoti”, quelli che ogni domenica, anche in mezzo al mare o al nulla più totale, trovano sempre il modo di tirar fuori, forse da sotto le unghie, una microscopica eppur funzionante radio per seguire le partite, perché non so mai cosa sia un fuorigioco (se è per questo non sono neanche così sicuro di come si scriva) o un calcio d’angolo (su questo, almeno grammaticalmente, ho meno dubbi).

Naturalmente anche la mia memoria, scorrendo a ritroso negli anni alla voce ‘mondiali di calcio’, recupera con maggiore facilità il ricordo di alcuni brani musicali del passato che non qualche azione da goal o l’esultanza per un risultato vittorioso, di cui in effetti non conservo la benché minima traccia. Mi riesce più facile rievocare invece il celebre duetto Bennato-Nannini che al ritmo di Un’estate italiana scandì le notti di Italia ’90 (degne di menzione anche per il lancio di Ciao, la mascotte più brutta dell’intera storia sportiva planetaria), oppure un Ricky Martin sexy e ancheggiante al ritmo de La copa de la vida, inno di Francia ’98, per terminare infine con il Waka – Waka di Shakira (rinfrescato nei passi, da poco, in discoteca, con quattro tizie sconosciute) colonna sonora dell’ultima edizione del Campionato mondiale, quella sudafricana (ma gli azzurri avevano partecipato?). Una variegata lista di successi a cui, da oggi, dovrei aggiungere Un amore così grande (video allegato), cover di una nota canzone del 1976 interpretata da Claudio Villa, che i Negramaro hanno ripescato e reinterpretato per l’occasione, facendone il brano ufficiale della prossima avventura della nostra Nazionale agli imminenti Mondiali del Brasile. Eppure, nonostante la mia passione più volte ammessa per il medesimo gruppo, io stesso avrei preferito in questo caso una hit del tutto nuova, o almeno più vivace e coinvolgente, che non un pezzo dalle sonorità e dal testo un po’ malinconici e retro, perché composto in un’epoca lontana, addirittura quando le parole ‘forza Italia’ possedevano ancora il loro solo significato calcistico. Pazienza, mi acconteterò di guardare e riguardare il video, diretto da Giovanni Veronesi, in cui gran parte dei giocatori azzurri compaiono ripresi in alcune delle loro gesta memorabili durante la storia della Nazionale, così, almeno per tentare di riconoscerne nomi e volti. Sulle mie irreparabili lacune in materia di calcio, invece, aspetto l’ennesima, dettagliata spiegazione di fronte alla prima partita trasmessa in tv: sempre che stavolta riusciate a chiarirmi del tutto cosa sia un fuorigioco.

Gentilezza a casaccio

▶ “Unsung Hero” (Official HD) : TVC Thai Life Insurance 2014 : โฆษณาไทยประกันชีวิต 2557 – YouTube.

Se la cattiveria avesse un regno, questo sarebbe senza dubbio il sovraffollato e crudele impero di internet. E’ in rete infatti che, a dispetto di una educazione basilare (più o meno) ricevuta da tutti e del necessario rispetto per le principali norme di una civile convivenza, materiale in teoria da maneggiare quotidianamente, ci trasformiamo al contrario in esseri sgarbati, rozzi, dediti a una violenza e ad un’aggressività verbale a cui di rado ricorriamo invece nella vita reale. Trincerati dietro i nostri pc, armati solo di sarcasmo e tastiera, sicuri soprattutto che una discussione o un diverbio online non possano (almeno sul momento) degenerare in uno scontro fisico, in cui forse avremmo la peggio, ci lanciamo in commenti perfidi, affermazioni offensive e inopportune, frasi ciniche e di dubbio gusto, come se il loro concretizzarsi solo su uno schermo potesse in qualche modo attutirne la gravità dei contenuti. L’esempio più calzante sono ovviamente i social network: sempre più stressati, frustrati, inaspriti da un tran tran che non offre le medesime e quasi catartiche occasioni di sfogo, ecco che riempiamo i nostri spazi sul web di tutto ciò che vorremmo dire ma che forse, non saremmo mai davvero in grado di pronunciare in pubblico, in fondo anche perché unicamente la rete riesce darci l’illusione di possedere un nostro, fedele e ammirato, pubblico da deliziare, per quanto solo virtuale. Scommetto che anche voi infatti vi ritroverete spesso con la home di Facebook letteralmente sommersa dai post di quell’amico/a che non fa che lagnarsi di continuo e soprattutto minacciare botte a chicchessia, quando poi, nella vita di tutti i giorni, è la persona più mansueta o innocua che conosciate, incapace perfino di una qualsiasi risposta maleducata. Oppure vi sarà successo, come a me, di seguire questa o quella “twistar” perché in grado di condensare delle originali perle di perfidia in soli 140 caratteri, e poi sentirla intervistata in tv riuscire a balbettare solo delle banalissime e insulse risposte, con il sospetto crescente che il proprio account Twitter sia stato dato in affidamento a qualcun altro forse più in gamba. Fatto sta che la maggior parte degli interventi sul web si contraddistinguono, riscuotendo dovunque il proprio successo, per una maggiore scorrettezza di contenuti, per i toni fortemente polemici o battaglieri, per un piglio rabbioso che talvolta poi non possiede neppure la più pallida ombra di equivalenza nella vita reale. Succede anche che, paradossalmente, il curioso popolo di internet, lo stesso che si esprime nella maggior parte dei casi con un humour tagliente e feroce, si trasformi invece d’un tratto nella quintessenza della sensibilità, rivelando al contrario un cuore tenero, una dolcezza inimmaginabile e quasi stucchevole. Ecco dunque fioccare e moltiplicarsi gli appelli di stampo animalista (solo in questi giorni qualche migliaio quelli per la salvaguardia degli agnelli di Pasqua), le onnipresenti clip e immagini di cagnolini e gattini dal musetto simpatico che spingerebbero anche un eremita convinto alla compagnia di un animale domestico, e ancora accorati appelli alla solidarietà per bambini sofferenti (di cui si diffondono le storie personali sin nei dettagli), per reparti ospedalieri, associazioni umanitarie, in un guazzabuglio di foto, video e commenti in cui poter ogni volta trovare di sicuro parole del tipo “toccante”, “commovente” “ho pianto per settimane”. Di recente è stato lo spot Unsung Hero (video allegato), prodotto e realizzato dalla compagnia di assicurazioni thailandese Thai Life Insurance ad aver catalizzato l’attenzione dei navigatori sul web, superando le 10 milioni di visualizzazioni e diventando così piccolo caso internazionale, grazie a un messaggio diretto ed inequivocabile: si può essere generosi, altruisti, disponibili senza necessariamente aspettarsi qualcosa in cambio. La gentilezza fine a se stessa, senza la certezza di future lodi o ricompense, può essere ugualmente appagante. La condivisione in rete dello spot è stata, naturalmente, altissima. La sua messa in pratica, come prevedibile, al momento, molto, molto meno.

Dimmi come ti chiami…

“E’ nato? Ah, femmina? E come la chiamano? Roberta? NORBERTA? Ma che nome è Norberta? Non mi piace, no, per niente, è brutto…povera creatura!”. La signora seduta di fronte a me in treno, mèches impeccabili e troppe perle a ricoprire una banale maglia corallo, appartiene alla tipologia di passeggeri con cui non vorresti mai viaggiare, quelli che ci tengono a rendere tutto il vagone partecipe delle proprie conversazioni telefoniche. Normale perciò che quel nome discutibile, scandito a un volume non proprio contenuto, abbia suscitato, comprensibilmente, una silenziosa e solidale riprovazione affiorata in tutti gli sguardi degli altri occupanti, che tentavo invano di evitare. Poche sillabe urlate che hanno risvegliato una collettiva e simultanea reazione fatta di occhi improvvisamente spalancati, teste che si scuotevano nell’aria a disegnare un “no”, piccoli sbuffi o risatine impossibili da soffocare. La mia mente bislacca naturalmente, era andata già oltre: immaginavo quell’ignara bambina, divenuta un’adolescente ribelle, arrovellarsi ogni giorno, maledicendo i propri genitori, nel tentativo di scovare un nomignolo o un’abbreviazione graziosa in grado di sostituire quella sadica scelta, che non suonassero però altrettanto orrendi, anche se Norby o Berta non mi erano sembrati al momento così convincenti. Perché poi, per rovinare l’esistenza dei propri figli, ci vuole un attimo: basta una decisione bizzara o la volontà di apparire a tutti i costi originali o creativi, e voilà, ti ritrovi tutta la vita a trascinarti un nome che detesti e che diventerà il tuo tormento ripetuto all’infinito sulle labbra di chiunque incontrerai. Io l’ho scampata per poco: mamma, folgorata da Signorsì, primo romanzo di Liala (non c’entra nulla, ma, ora che mi viene in mente, tra gli insulti  fantasiosi con cui nel tempo sono stati stroncati i miei testi c’è anche “scrivi come un incrocio fra un verbale dei carabinieri e un romanzo di Liala”. Non proprio carino, ma pittoresco, quello sì), voleva battezzarmi proprio come il suo protagonista, un avventuroso aviatore, Furio. Nome che a me fa venire in mente solo l’ossessivo e precisino personaggio di Verdone: per fortuna babbo, in uno di quei suoi rari slanci propositivi, o forse spinto dal senso di colpa per l’eredità di un cognome facile bersaglio di future prese in giro, che ho imparato col tempo ad anticipare, se la cavò con un “se lo chiami Furio non te lo riconosco” e così optarono serenamente insieme per Alessandro.

Che, al di là dello splendido significato (salvatore o protettore di uomini, anche se non ricordo di avere mai salvato o protetto neanche una formica) è sempre stato piuttosto diffuso; in ogni classe che ho frequentato a scuola ad esempio ce n’erano almeno altri due o tre, più un paio di Alessio/a. Così succedeva spesso che ad ogni ‘Ale’ urlato da chiunque nel cortile ci si voltasse minimo in quindici, ragion per cui io finivo immancabilmente per essere etichettato come “quello scuro” oppure “quello basso”, o, più spesso e volentieri, Guastino. Persone a cui è andata forse in maniera peggiore ne ho conosciute diverse. Una stravagante compagna di università, ad esempio, origini siciliane, capelli cortissimi rosso fuoco e un numero imprecisato di piercing, che si era presentata a noi tutti, e solo così pretendeva essere chiamata, con cinque semplici lettere, Sassa. E se non fosse stato per il nostro docente di filosofia antica, dal buffo accento tedesco, che un giorno decise a sorpresa, durante una lezione, di fare l’appello degli iscritti, sarei forse invecchiato con la convinzione che il vero nome di Sassa fosse in realtà Sabrina o Samuela, e non di certo, come risultò invece essere, Crocifissa. Tra le cause principali di certi, irreparabili, danni, proprio la devozione religiosa ha da sempre avuto la sua parte (generando perle come Fede o Luce), al pari di alcune inevitabili tradizioni familiari (“sai, era il nome di mio nonno, c’avrebbe tenuto”) oppure di uno spiccato gusto per l’esotismo (del tipo Jonathan o Swami) come infine l’improvvisa fascinazione per alcuni personaggi televisivi (ricordo di aver conosciuto a suo tempo anche un Sandokan). Senza dimenticare poi che sono soprattutto gli stessi esponenti del mondo dello spettacolo a dare il meglio di sé quando si tratta di scovare un nome inconsueto per la propria prole. In questi giorni, alla schiera delle varie Lourdes Maria (figlia di Madonna, tanto per tornare in tema di religiosità), Apple (figlia invece degli, ormai ex, Gwyneth Paltrow e Chris Martin), Chanel (Totti) e Suri (Cruise) si è infatti aggiunto Maddox Prince, primogenito dell’ex – velina Melissa Satta e del calciatore ghanese Kevin Boateng; scelta a metà tra un supereroe dei fumetti e un medicinale per il bruciore di stomaco. Nomen omen, recita un vecchio motto latino: il destino è già scritto nel nome. Un destino che, in questi casi, può soltanto migliorare.