Su(l)la testa!

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Il clima non era dei più rilassa(n)ti, motivo per cui, a colpirmi, furono innanzitutto la sua straordinaria capacità di rimanere, in apparenza, calma e concentrata, come sembravano anche suggerire la sua voce sottile e musicale e due grandi occhi felini. Ho conosciuto Eleonora così, qualche anno fa, nella generale frenesia che di solito precede l’inaugurazione di una mostra, alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti, a Firenze, dove ci siamo ritrovati a lavorare fianco a fianco, in un suggestivo laboratorio, che tra manichini sezionati, tavoli traboccanti di scatoloni e stoffe ammassate alla rinfusa, ci concedeva appena lo spazio per stringerci la mano in un “piacere” di presentazione. Io giravo tra le sale retrostanti il museo con un metro da sarta al collo, una buona dose di ansia nel petto, per il timore di non riuscire a concludere il mio lavoro, e con in mano una bretella metallica proveniente da un magnifico abito da sera di Gianfranco Ferrè, che non si capiva dove andasse esattamente posizionata. Lei, con la cura e la delicatezza necessarie, stava rinforzando e riposizionando la fodera originale, di un ipnotico color bronzo, ad una cappa anni ’20 di Lanvin, pezzo che per rarità e prestigio occorreva maneggiare con quella devozione in genere riservata alle reliquie. Per nulla intimorita dalla gravità del suo compito e dal mio sgurado ammirato e fisso, che riservo, stupito, a chi si distingue in quanto a talento pratico, Eleonora continuava a cucire lentamente facendo scivolare a poco a poco il tessuto sotto l’abilità delle sue dita, aprendosi spesso in un sorriso rassicurante che mi alleggerì il resto della giornata. La stessa leggerezza di cui, soprattutto in inverno, ho un forsennato bisogno e che mi obbliga, appena posso, ad andarla a trovare in quell’angolo di accogliente creatività che lei stessa si è ritagliata, con lungimiranza e determinazione, in una delle vie di Firenze a più alta densità di presenza artigianale, e che è riuscita comunque ad abbellire con la semplice piacevolezza delle sue idee.

Perché varcare la soglia dell’Eleolab (https://www.facebook.com/eleoLab?fref=ts https://twitter.com/eleoLab) come ha ribattezzato, ormai quasi tre anni fa, il suo primo e coloratissimo negozio/atelier, significa lasciarsi alle spalle il grigiore cittadino per immergersi nell’ironia già visibile nei fili d’erba e nei fiori che compongono lo zerbino all’ingresso, nel simpatico cartello scritto a mano “Un caffè e torno” (con tanto di freccia ad indicare il bar accanto), nella indiscussa abilità di confezionare mini – abiti per bambini che sembrano galleggiare sospesi in vetrina. Ma c’è molto di più: la singolare storia professionale di Eleonora, ad esempio, di cui si sono già accorti stampa e tv nazionali ( http://www.youtube.com/watch?v=v-yY3Gyq11Y ) che ne hanno fatto l’emblema di chi, in tempo di crisi, è riuscito ad “inventarsi” un mestiere per riuscire a rimanere a galla. “In realtà non ho inventato nulla” mi confessa Eleonora, con sincera modestia, lei che forte di una laurea in costume per lo spettacolo e di varie collaborazioni per lo studio e la catalogazione di accessori, ha rilevato (ed è proprio il caso di dirlo) i “ferri” del mestiere di un’attività in estinzione, quella di fiorista, per poi traghettarla nel terzo millennio. Stampi e utensili metallici, alcuni fuori produzione da oltre quarant’anni, che ha imparato a padroneggiare con invidiabile maestria e di cui tutt’oggi si serve per ritagliare e comporre le singole parti, come petali o foglie, in seta o altri materiali, alla base delle sue straordinarie e originalissime creazioni. Acconciature soprattutto, che le permettono un tocco di mirata stravaganza (“me ne hanno chieste anche di forme più insolite” ammette ridendo “cuori, bocche, scatole di cioccolatini. Ogni volta una sfida e un divertimento”) ma anche cappellini, borse, abbigliamento intimo e il progetto, in fase di realizzazione, di una mini – linea di soli abiti femminili. Senza tralasciare il lato “tecnologico”, il guardare cioè alle potenzialità di trasformazione offerte dagli stessi tessuti, il poter sperimentare la propria creatività su oggetti di uso più quotidiano (“avevo personalizzato la mia cover del cellulare, me l’hanno richiesta in tantissimi”), il servirsi delle piattaforme online per promuoversi, anche a livello internazionale, con maggiore incisività. L’unica domanda a cui non sa trovare una risposta Eleonora è quella già rivoltale (anche dal sottoscritto) in passato e che si scontra con la difficoltà di trovare un termine preciso per descrivere il proprio lavoro. “Invidio chi sa con certezza cosa fa. Io preferisco lasciare in sospeso la voce “professione”. Perché Eleonora è un’artista, aggiungiamo noi. Che forse fa ancora fatica ad ammetterlo.

Nonsoloblogger…

Non è una caratteristica particolarmente edificante, e farei di sicuro una figura migliore a non parlarne affatto. Ma dato che spesso sono già uscito allo scoperto qua sopra raccontandovi (gran parte de)i miei difetti, che il lunedì grigio e l’umore di una tonalità del tutto simile non mi sono di aiuto nella riuscita di un incipit come si deve, comincerò rivelando  onestamente quello che è il mio rapporto con la lettura. Un disastro. Per quanto non riuscirei a tollerare la mia esistenza se privata della scrittura, per quanto le parole rimarranno in eterno la mia passione e la mia dannazione, per quanto vada considerando da quasi 15 anni quello di fashion contributor (che detta così fa fighissimo, a dispetto di una ben più squallida realtà) per alcune redazioni, a volte anche prestigiose, il mio principale lavoro (e calerei un pietoso velo su tutti le altre professioni che nel tempo mi hanno permesso di pagare affitti e bollette), non sono e non potrò mai essere un buon lettore. E’ sempre stato così, sin dai tempi della scuola, da quando la mia prof di italiano al ginnasio (di nome Lolita, in contrasto con un’immagine e un’età tutt’altro che da ninfetta) mortificava le mie aspirazioni adolescenziali di scrittore schiaffando sistematicamente un’insufficienza ai miei temi e aggiungendo, con un pizzico di perfidia, “Ti prendi troppe libertà. Leggi di più, i classici soprattutto. Guarda lì come bisogna scrivere”. Ma, insofferente già da allora a certe imposizioni e incapace di appassionarmi a ciò che avvertivo come distante dalla mia realtà di sedicenne (e Manzoni o Carducci lo erano abbastanza), ho sempre finito per abbandonare, in genere dopo poche pagine, quei testi, seppur importantissimi (ci mancherebbe), consigliati a scuola, in favore di letture che Lolita non avrebbe mai approvato (le riviste di moda, ad esempio). Riassumendo, ancora oggi, pur riconoscendo il valore di un buon libro, di un pilastro della letteratura o di un semplice bestseller, impiego a volte perfino mesi a scovare un volume che riesca davvero a concludere, mentre rimango un consumatore avido di magazine e giornali, che conservo disseminati in pile sbilenche, sparse ovunque per casa, dal bagno alla dispensa, e che vado consolando da anni con frasi del tipo “non temete, vi troverò una sistemazione adeguata, è una promessa!”.

E’ stato proprio grazie a questa, forse insana, mania, che circa tre anni fa faccio la conoscenza di una nuova rubrica, pubblicata su di un noto settimanale (uno dei più noti, peraltro) tenuta da una giornalista che nasconde, nella foto, parte del volto dietro un notebook aperto e la sua identità dietro il buffo nickname di Elasti. Una folgorazione. Rimango subito colpito dall’ironia del suo stile, dal suo lessico accessibile eppure ricco, dalla particolare sensibilità che traspare in ogni sua singola parola. Devo saperne di più: indago, cerco in rete, scopro che Elasti (al secolo Claudia de Lillo) è da qualche tempo l’autrice di un blog seguitissimo, nonsolomamma (http://www.nonsolomamma.com/), in cui narra le prodezze quotidiane della sua vita rocambolesca divisa tra tre piccoli figli maschi, un marito economista marxista “pendolare” a Londra e un lavoro di giornalista finanziaria part – time. A quel punto credo di non aver fatto altro, per una decina di giorni, che rileggermi per intero il suo blog, dal principio, giorno e notte; come ho continuato a fare, da quel momento, ogni mattina. Perché non rientrerò esattamente nei canoni del suo pubblico (composto principalmente da donne e mamme), ma c’è qualcosa di così attraente nei suoi post, la capacità di dar voce a certi meccanismi umani universali innanzitutto, di descrivere con esattezza certi grovigli emotivi, di porre e di porsi con insolito coraggio certe domande, così piacevole inoltre, singolare, commovente, che attraversare il suo blog è un’altalena di sensazioni da consigliare a chiunque. Solo due giorni fa, finalmente, il nostro primo incontro di persona: dal suo account Twitter, in cui la seguo con l’assiduità dello stalker, scopro che Elasti sarà a Campi Bisenzio, vicino Firenze, per l’inaugurazione di un circolo ricreativo culturale, il Porto delle Storie, (http://www.portodellestorie.it/). Butto all’aria i programmi già fatti da tempo per il week-end, obbligo il mio amore a seguirmi cercando il posto dove è previsto il suo intervento e dove arriviamo con mezz’ora di anticipo (“perché con me sei sempre in ritardo?” mi chiede difatti la mia dolce metà). Elasti è già lì. Minuta, sorridente, gli occhi enormi pieni di riflessi come solo nei vecchi cartoni animati giapponesi tipo Candy Candy. Vinco le mie resistenze di ex – timido, le vado incontro, mi presento, la saluto, lei ricambia con il calore di una vecchia amica che non vedo da tempo. Parliamo fitto per alcuni minuti, delle nostre famiglie, di lavoro, dei nostri progetti, anche di quelli zompati per il week-end. Ogni sua frase conferma le qualità già dimostrate nel suo blog: quelle di una persona umile, spiritosa, di talento. Tutto ciò che ogni blogger vorrebbe e dovrebbe essere.

Welcome back!

Kanye West – Bound 2 (Explicit) – YouTube.

Dovrei arrendermi all’evidenza dei fatti: non ne sono all’altezza. Di fare il tuttologo, intendo, di riuscire ogni volta a individuare circostanze, persone, nomi (cose, città…ve lo ricordate il gioco? Quello con la lettera iniziale, che il colore con la F veniva sempre e solo Fucsia, che poi non ci si metteva mai d’accordo se si dovesse scrivere Fucsia o Fuxia…vabbè, la smetto di divagare) che meriterebbero invece di essere trattati con la giusta competenza e il necessario rilievo. E’ vero, ho peccato di superbia (e quando mai!?) e di conseguenza ho modellato il mio blog secondo una strategia più presuntuosa che ambiziosa, dividendolo in quattro categorie (ve ne eravate già accorti, giusto?) come se potessi indifferentemente occuparmi di musica, tv, scienza, costume, poltica e moda, saltando da un argomento all’altro con l’agilità di Bolle sul palco (a proposito, divinità in ascolto, nella prossima vita rinascere con quell’involucro lì, lo stesso – o anche simile – del nostro Roberto dico, non mi dispiacerebbe, ecco. Prendi nota). La triste verità è, al contrario, tutt’altra: quel poco di cultura che possiedo è difatti estremamente settoriale, limitata com’è alle nozioni basilari di storia della moda faticosamente studiate anni or sono e poi accresciute un pochetto con la passione e la professione (che spesso, per fortuna, hanno finito per coincidere). Il resto si tratta più banalmente di gusto personale, il mio ovviamente, neanche così raffinato se vogliamo, caratterizzato da una vena pop-retro-trash in campo musicale e televisivo, da una sfumatura dispregiativa in campo tecnologico e sportivo, da una totale repulsione verso fenomeni che non mi suscitano il benché minimo interesse e che invece poi irrompono ovunque con tutta la loro potenza mediatica, lasciandomi così escluso dal mondo. Vi riporto soltanto l’ultimo esempio: Kim Kardashian. Signorina (non riesco a trovare una definizione adatta alla sua professione: socialite? prezzemolina? un aiutino?) americana di origine armene, figlia di Robert, l’avvocato che ha fatto assolvere O.J. Simpson, fortunosamente dotata di un fisico esplosivo seppur mignon (sotto il metro e sessanta, si vocifera), protagonista oltreoceano, da anni, di reality show da picco d’ascolto e di gossip tra il sentimentale e lo scandaloso.

Salita alla ribalta per una copertina senza veli su Playboy nel 2007 e un video porno (pare) privato, diffuso in rete (pare) a sua insaputa, secondo una modalità già sperimentata da Paris Hilton (l’altra modalità per la fama in tempi brevi, quella dell’arresto per guida in stato di ebbrezza, alla Lindsay Lohan per capirci, è stata invece preferita proprio in questi giorni dal cantante Justin Bieber), l’ho sempre, volutamente, snobbata come personaggio e forse perfino sottovalutata. Mi ripetevo: sì, non è brutta, ma in fondo è quasi una replicante di Jennifer Lopez (anche per la fama che si concentra tutta sul suo lato B), ma al contrario di J.Lo che almeno recita, cant(icchi)a e ball(icchi)a, Kim è solo e semplicemente tanta, come tante altre. Sparirà presto, mi illudevo, inutile considerarla, con quel cognome lì poi, che fa un po’ detersivo per il bucato, avrà i suoi 15 minuti di fama, dopo di che verrà inghiottita dal nulla. E invece no. Le basta qualche comparsata in alcune serie televisive, il lancio di una sua linea di moda, attività che non si nega mai a nessuno (stilisti che sgobbate per avere un vostro spazio, non sarebbe ora di una rivoluzione per opporvi alle milioni di bonazze che vi rubano il mestiere?), un vita sentimentale condita da matrimoni lampo con sportivi e cantanti di successo, ed ecco che la permanenza tra le dive (?) più pagate negli Usa e presenti su stampa e web è assicurata. Gli ultimi esempi? Dopo l’attuale relazione con il rapper Kanye West, da cui ha avuto lo scorso Giugno una bambina, chiamata North (e noi che prendevamo in giro la Gregoraci e Briatore per aver scelto Nathan Falco) e qualche chilo di troppo messo su durante la gravidanza (oh, un briciolo di umanità), l’instancabile Kim ci tiene a far sapere al mondo di essere ritornata in forma. E lo fa comparendo, in versione bionda e con un repertorio di espressioni vagamente somiglianti alla nostra Carmen di Pietro, nell’ultimo video della hit del suo compagno, Buond 2 (video allegato), che vi sfido a guardare per intero senza riuscire a ridere o ad esclamare “ma che è ‘sta porcata?”. Non contenta di aver sfoderato cotanto buongusto, nelle ultime settimane Kim si è prodigata nel pubblicare sul suo profilo Instagram ( http://instagram.com/kimkardashian# ) numerosi autoscatti carichi della solita, evidente, classe, che però hanno sollevato in rete perfidi (e legittimi) dubbi sull’uso o meno di photoshop per ritoccare le sue curve. Vorrei avere anche il vostro parere in proposito. E ditemi se non sarebbe meglio continuare a ignorarla.

Adieu finesse!

Toni Servillo manda affanculo la speaker di RAI News 24 – YouTube.

Sia ben chiaro, non sono tra coloro che considerano il valore dell’educazione, in pieno terzo millennio, alla stregua di un accessorio inutile o demodè, lo scomodo retaggio di un passato da cui occorre liberarsi, una consuetudine oggigiorno ingombrante oppure superflua. Cresciuto da genitori non esattamente severi ma senza dubbio rigorosi in certi precisi dettami, mi era sufficiente una loro occhiata, pari ad un “a casa facciamo i conti”, per capire la fondamentale importanza di rispondere sempre e cortesemente con “grazie” o “prego” in determinate circostanze, di contraccambiare sorridente il saluto di chicchessia, di dare obbligatoriamente del lei alle persone sconosciute o più mature, scontrandomi con la mai del tutto superata difficoltà di dover coniugare i verbi in terza persona. Certe formalità, sottolineo necessarie e basilari regole di convivenza civile, rimangono a dire il vero anche l’ultimo baluardo in cui si rifugiano i miei rimasugli di timidezza, le uniche occasioni in cui riesco ancora a manifestare a tratti un disagio, che emerge nella lingua ben piantata tra i denti, talvolta causa di ridicoli balbettii. Perché se da un lato, dal mio personalissimo punto di vista, l’educazione incarna innanzitutto il metro con cui misuro la gentilezza altrui e la piacevolezza di un primo incontro o della prima impressione riguardo a una nuova conoscenza, dall’altro si trasforma ben presto in una zavorra di cui provvedo a liberarmi all’istante, nel momento in cui diviene maggiore la confidenza o l’intimità con la persona in questione. Mi spiego meglio: ritengo che rivolgersi con garbo e distaccato rispetto, nelle parole e nei modi, sia doveroso e maggiormente indicato quando abbiamo a che fare con gli estranei, soprattutto nelle più complicate dinamiche che scandiscono un rapporto professionale, mentre possiamo fare anche a meno di troppi “per favore, scusami, figurati”  che a lungo andare rischiano di trasformarsi in un ulteriore ostacolo alla crescita di una ricercata familiarità o di un’amicizia sincera. I miei (non troppi in realtà, ma buonissimi) amici veri, possono per esempio scherzarci su etichettandomi come brutale, sgarbato o rozzo (e vi risparmio i miei soprannomi in merito) nel dire ciò che penso senza troppi giri di parole, ma apprezzano di sicuro il mio approccio diretto nel fornire un parere o nell’esprimere un concetto, del tutto esente, credetemi, da carinerie di facciata o da pillole indorate. E qui finalmente, dopo quella che ritenevo essere una semplice premessa (ma che mi ha occupato invece quasi tutto lo spazio del post) arrivo al nocciolo della questione: il ruolo della parolaccia. Perché può infastidirci, stufarci, per giunta indignarci l’eccesso di aggressività verbale, la volgarità gratuita, l’insulto pesante e non sempre necessario. Può sorprenderci, annoiarci, stufarci il dover constatare arrendevolmente che, dovunque, dalla politica allo spettacolo, non c’è più alcun territorio rimasto immune dal potere dilagante del turpiloquio. Va anche detto però che certi termini, certe locuzioni, certe espressioni, in quanto a immediata comprensibiilità, potere di spiazzamento ed efficacia, per quanto triviali, sono e rimangono insostituibili. Ecco, ammettiamolo, possiamo affannarci a definire quanto vogliamo una collega o una conoscente spregevole una “strega”, ma quando finalmente arriviamo a darle della “stronza”, lo sentite da voi, è già tutta un’altra musica. Possiamo perfino tentare il più mirabolante sforzo di fantasia per studiare un altro luogo dove poter inviare il nostro nemico occasionale, che sia un’alternativa ai ben più banali “vai al diavolo” o “a quel paese”. Ma quando ti becchi un sonoro “vaffanculo”, al momento giusto, non esiste altro invito così disarmante ed esplicito al quale, per di più, risulta praticamente impossibile replicare. Lo ha imparato, a sue spese, in diretta, la povera giornalista di RAI News 24 che, nel tentativo di avanzare delle (legittime?) critiche, in un collegamento telefonico, all’attore Toni Servillo (video allegato), reduce dalla vittoria ai Golden Globes del film “La grande bellezza”, si è sentita apostrofata dallo stesso con un inequivocabile “vaffa” (seguito da un, altrettanto comprensibile, “sta cretina”). Una risposta sgarbata, forse inopportuna, sicuramente maleducata; ma che, nel contesto così compassato come lo svolgimento di un tg, assume il sapore di una replica diretta e viscerale, profondamente umana, una reazione che incrina inaspettatamente il clima di artificiale formalità. Un siparietto imprevisto che avrà causato, di sicuro, la perdita di qualche fan al bravissimo interprete, ma che mantiene comunque un suo lato innegabilmente divertente. E chissenfrega delle buone maniere. O se preferite, e “‘sti cazzi!”.

“Anta” e ancora incanta!

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Prima considerazione che mi viene in mente: certo che negli anni deve essersi presa un sacco di rivincite! Perché forse all’epoca eravate troppo giovani o forse la vostra memoria, giustamente, seleziona informazioni più importanti che le aspre critiche lette due decenni or sono sulle (allora molte meno) riviste di moda, ma quando all’inizio degli anni ’90, sbucò fuori, quasi dal nulla, una piccola inglesina, destinata a rivoluzionare i canoni estetici di un’intera categoria professionale, quella delle top model, così come il concetto stesso di bellezza, furono tutt’altro che teneri con lei. Lei è naturalmente Kate Moss, supermodel dalla fama planetaria e dalla vita privata turbolenta, che dal suo debutto avvenuto in età adolescenziale, grazie all’occhio di Sarah Doukas dell’agenzia Storm che la mise sotto contratto a soli 14 anni, ha collezionato amori celebri e tormentati (i più noti con l’attore Johnny Depp e il cantante maledetto Pete Doherty), è comparsa su oltre 300 diverse copertine di magazine, in un numero impressionante di campagne fotografiche e passerelle, senza tralasciare videoclip musicali (di Elton John, George Michael e White Stripes, tanto per dire), e guadagnando cifre che ancora oggi si aggirano sui 10 milioni di dollari l’anno (spicciolo più, spicciolo meno). E chissà dove sono finiti adesso o cosa penseranno tutti coloro che agli esordi, quando Kate posava in esclusiva per Calvin Klein o Gianni Versace, scrissero fiumi di insulti e di cattiverie su di lei, oggi splendida 40enne, (è nata il 16 Gennaio del 1974), non risparmiandole frasi del tipo “ha le gambe arcuate e gli occhi distanti” “è troppo piccola, troppo magra, un sensuale mucchietto di ossa” “farla sfilare tra Christy e Naomi è uno sbaglio”, e via dicendo. Certo, nel momento della sua comparsa, il mondo della moda guardava piuttosto alle forme generose e all’altezza da valchiria di Claudia Schiffer e di Cindy Crawford: Kate, con il suo fisico minuto (167 cm di altezza, 86 – 63 – 89 le sue misure), con quei canini un po’ sporgenti che intaccavano la regolarità del suo sorriso, quel leggero strabismo di Venere che rendeva il suo sguardo nelle foto perennemente languido, rappresentava al contrario un’anomalia, una rarità, un’eccezione. Una bellezza ambigua e del tutto nuova, un assoluto concentrato di femminilità e fragilità, un primo scossone al voluto mito irraggiungibile delle top model, che spalancherà invece le porte del fashion – system all’imperfetto, all’inusuale, al non omologato. Facendo la sua fortuna: capofila delle top “diverse ma interessanti”, è stata l’unica a resistere nel tempo ai cambiamenti di immagine e di gusti che decretavano la fine del successo altrui,  reggendo così perfino di fronte all’urto delle più diverse accuse (come quella di anoressia) e di gravi scandali (non ultimo, quello dell’uso di cocaina che la investì nel 2005). Risorgendo ogni volta dalle sue stesse ceneri e rilanciando, prima che una carriera, se stessa, come unica, indiscussa, icona della moda. Appellativo per la prima volta datole nell’Agosto del 1994 dall’allora direttore di Vogue UK, che la volle a tutti i costi in prima pagina, designandola, senza troppi giri di parole, come a modern icon. Oggi, a 20 anni di distanza da quel traguardo, Kate furoreggia ancora su di una copertina, quella di Playboy, immortalata come sexy coniglietta dall’obiettivo di Mert & Marcus (foto allegata), per il 60esimo anniversario della rivista. Un unico regalo per un doppio compleanno: con buona pace dei suoi numerosi detrattori o di chi ritiene che a 40 anni ci si possa unicamente concedere un trattamento per le smagliature o un ritocchino al volto. Happy birthday Kate!