(ri)Cominciamo!

Charlie Chaplin, Il grande dittatore – Discorso all’umanità – YouTube.

“Un buon attacco. Un inizio che sia accattivante, esplosivo, se non addirittura ipnotico. Parole che catturino da subito l’attenzione, che muovano la curiosità, che guidino il lettore, senza rivelargli ancora troppo, fino quasi alla metà dell’articolo. E poi, a quel punto, inserire la notizia. Raccontare i fatti, tutti, nei minimi dettagli. E dare necessariamente il tuo punto di vista. Mai troppo invasivo, la vicenda non va sovrastata. Le tue opinioni devono trasparire, fare capolino, sfiorare gli occhi dei lettori con la leggerezza di un soffio. Ma l’inizio, oh l’inizio, deve essere invece un urlo in pieno volto”. E’ quello che mi ripeteva ogni giorno Paolo, il direttore di un piccolo ma piuttosto conosciuto quotidiano locale che per primo,  inaspettatamente, mi diede (un bel po’ di) tempo fa l’opportunità di scrivere. Avevo poco più di vent’anni, un futuro pieno di stimoli e di incognite, tanti progetti ambiziosi e poca concretezza (e da allora temo di non essere cambiato molto, se non nell’età). Mi affidavo alla sua esperienza, ai suoi consigli precisi e appassionati che riportavo scrupolosamente su di un’agenda ancora oggi sul mio comodino, ai suoi modi schietti, un po’ burberi, in cui trovavano spazio una singolare sensibilità e una stima senza dubbio sincera. Mi chiamava tre, quattro volte alla settimana, mi proponeva le notizie più varie e assurde, concludeva le sue telefonate dicendo “Lo so, non farebbe per te…però, se vuoi provare” e sfidava di continuo il mio ego a misurarsi con la complessità dei più diversi fatti di cronaca, di politica, con la pesantezza di interminabili convegni di restauro o di medicina. Accettavo di buon grado l’inevitabilità dei suoi tagli e delle sue necessarie correzioni ai miei articoli, che ci teneva sempre a motivare con le dovute spiegazioni, trattenevo a stento l’entusiasmo quando finalmente mi affidava un pezzo di moda, di fronte alla sua faccia che si contraeva in una rassegnata espressione traducibile in “Contento tu!”. Ci siamo salutati a malincuore diversi anni fa, quando mi trovai costretto ad accettare un lavoro meno creativo ma più redditizio, ci siamo ritrovati soltanto ieri, per caso, al bancone affollato di un bar, entrambi provvisti di quei pochi minuti necessari per prendere un caffè. “Ciao…ti ricordi di me?” mi ha chiesto, dopo avermi riconosciuto, io semidistrutto dopo una mattinata da cardiopalmo, lui dietro la solita aria sorniona e severa, sul viso la stessa barba folta che ricordavo, solo un po’ imbiancata. “Certo, come stai? Che ci fai qui?” replico io, felicemente sorpreso dell’incontro “Niente, una sparatoria, qua vicino. Sai com’è. Scrivi ancora?”. “Non ho fatto altro. Ho anche aperto un blog” “Ah bene. Corro subito a vederlo” “Ehm, in realtà dovrei aggiornarlo. Ma…” “Ma? Non hai tempo?” “Sai, gli impegni, sempre di corsa” “Fallo stasera” mi risponde secco. “Ecco, stasera avrei un concerto. L’ho fissato da mesi” “Bene, puoi raccontare quello. Dall’inizio. E mi raccomando proprio l’inizio. L’inizio è tutto, te l’ho sempre detto. Adesso devo proprio andare” e si congeda. Ora, io non saprei dire esattamente il perché, forse perché condizionato dall’eccezionalità dell’evento, forse perché continuo ad avvertire la sua influenza come quella di un’importante autorità, ma ho davvero pensato tutto il giorno alle sue parole. E ho continuato a pensarci soprattutto la sera stessa del mio concerto, quello dei Negramaro, che avevo organizzato da tempo, che avevo voluto comunque mantenere pur in un periodo fitto di piacevoli imprevisti, che consideravo una meritata parentesi di relax in un momento della mia vita soggetto a un’improvvisa accelerata. Ma la sorpresa maggiore dell’agognato appuntamento canoro è stato appunto il suo inizio. La scenografia abbagliante, sei maxi – schermi a led tinti di blu, a illuminare una folla rapita dalle straordinarie parole che venivano diffuse, quelle tratte dal celebre monologo finale de Il grande dittatore di Charlie Chaplin (video allegato). Un discorso efficace, potente, quasi sconcertante nella sua indubbia modernità. Un inizio strepitoso, che vale la pena di lasciare qui per intero. Proprio come piacerebbe a Paolo.

Provaci ancora prof!

Mi ero ripromesso che non ci sarei mai più cascato. Ero serenamente giunto alla conclusione che non fossi la persona più adatta, che difetto di autorevolezza, di polso, di pazienza, che per appropriarmi del titolo di insegnante non avessi la giusta esperienza, la formazione necessaria, l’adeguato temperamento. Non nego che sia stata un’esperienza magnifica quanto impegnativa: nei due anni che mi hanno visto salire (indegnamente?) in cattedra per una nota scuola di moda ho tenuto sei diversi corsi, mi sono confrontato con decine di studenti appassionati, vulcanici, talvolta diffidenti, mi sono domandato di continuo se avessi davvero qualcosa da trasmettere loro, anche solo quel piccolo consiglio, da fratello maggiore più che da professore, a cui sarebbero potuti ricorrere in futuro. Ricordo ancora il timore della prima lezione: l’aula più grande di quanto mi aspettassi, sessanta allievi già seduti e incuriositi, centoventi orecchie e occhi fissi su di me, su ciò che tentavo di dire, sulla mia voce incerta e cavernosa amplificata dal microfono (che da allora non ho più usato), sul mio nervoso passeggiare su e giù tra loro simulando una calma e una sicurezza mai possedute. Ho avvertito col tempo calare il disagio iniziale, perché letteralmente travolto dall’entusiasmo impetuoso tipico della loro età, dalla loro ansia di crescere, di mettere in discussione ogni singola frase o certezza. Mi sono più volte scontrato con i loro legittimi dubbi, con i loro sottili moti di arroganza o di presunzione, con la loro voglia di urlare al mondo “ci sono anch’io, fatemi spazio!”. Mi infuriavo quando non si impegnavano, mancando di rispetto soprattutto al proprio talento, quando arretravano o si accontentavano di risultati modesti, perché a vent’anni invece bisogna rischiare e non adagiarsi, quando si abbattevano di fronte alla prima delusione, perché nella vita le delusioni sono più utili dei successi. E’ stato divertente sentirsi chiamare “profe” o “prof” anche se non lo sono e mai lo sarò, è stato decisivo attingere dalla loro energia e dalla loro stima per affrontare le difficoltà della mia vita, è stato infine doloroso attraversare la loro esistenza per poi doverne uscire, lasciandoli liberi di cavarsela da soli. Perché vorresti invece continuare a incoraggiarli, sostenerli, proteggerli. E invece no, un bravo insegnante capisce anche quando arriva il momento di farsi da parte. No, non faceva proprio per me, ne ero certo.

E infatti, dopo neanche tre anni, sono già tornato sui miei passi. Mi sono lasciato convincere, tra l’altro nel giro di poche ore, dalle parole lusinghiere e calorose di un’affabile ex – collega, ho messo da parte tutti i precedenti dubbi e i timori sotterranei che il tempo aveva comunque smorzato, ho soprattutto avvertito di nuovo, con chiarezza, la voglia e la necessità di misurarmi con un piccolo uditorio, con l’imprevisto di domande e osservazioni non immaginate, con l’interesse o la noia che le mie lezioni possono ugualmente suscitare. Ho accettato d’istinto, volentieri, senza ripensamenti né riserve, perché questa volta c’è, a dire il vero, una differenza fondamentale: l’età dei miei allievi. Che, un eccesso di politically correct impone di definire over, perché ormai anche i termini “anziani” o “maturi” sono diventati forieri di una sfumatura dispregiativa e dunque inaccettabile. Mentre i miei nuovi studenti, dimostrando molta più saggezza, dignità e autoironia di certe etichette esterofile, nel descriversi si lasciano tranquillamente sfuggire dalle labbra aggettivi come “vecchierelli” o “vecchietti”. Consapevoli naturalmente di non esserlo affatto, soprattutto nei loro slanci di vitalità contagiosa, nel coraggio e nell’umiltà che rivelano mettendosi ancora una volta in discussione, nel desiderio mai sopito di apprendere, di stare tra la gente, di scoprire che esistono sempre milioni di motivazioni valide per andare avanti. Anche quando la vita ti ha beffato con pessimi scherzi, quando ti ha privato del tuo più grande amore, quando ha cominciato a regalarti qualche acciacco di troppo, quando i ricordi e le esperienze accumulate si fanno ormai più numerose delle aspettative. Sulla carta d’identità potrebbero essere tutti benissimo i miei genitori, qualcuno perfino mio nonno; il più delle volte hanno un atteggiamento rispettoso, signorile, oppure materno e protettivo, a tratti al contrario simpaticamente indiscreto, specie quando azzardano qualche quesito impertinente sulle mie origini o sulla mia vita privata. Sono volenterosi, organizzati, instancabili, scrivono pagine e pagine di appunti, intervengono in maniera intelligente e composta, citando fatti d’attualità, personaggi noti, la storia e la letteratura che ricordano dai tempi della scuola. Mi accolgono con la bontà dei loro dolci fatti in casa, mi salutano con altrettanto affettuosi inviti a prendere un tè o un caffè, con il progetto di una pizza o una gita tutti insieme a cui non posso assolutamente mancare. Mi fanno sentire apprezzato, utile, speciale. E anche questa volta sono io ad aver tutto da imparare.

Post-upendo!

P10102333

E’ bene sottolinearlo subito, questa volta si tratta di un post autopromozionale. In maniera diretta, esplicita, oserei dire sfacciata, mi servirò insindacabilmente del mio blog per affrontare e pubblicizzare il mio lavoro. Le ragioni mi paiono chiare: qui sopra decido io, senza possibilità di appello, ed essere liberi di scrivere scemenze, di sfogarsi, di sparire per giorni senza dover rendere conto a nessuno (se non ai soliti dodici miei lettori che lamentano le mie brevi fughe), digitare eventualmente parole senza senso tipo “qwertyuiop”, rimane di certo uno dei lati più divertenti del possedere un proprio spazio on-line. L’altro, e forse più importante motivo, è che amo profondamente quel che faccio: ho scelto di assecondare una passione dirompente, di lanciarmi in una professione straordinaria e insicura, in ambienti talvolta ostili, disorganizzati, aridi di opportunità e di solide prospettive per il futuro. Ma rimango uno storico del costume: risposta che quando fornisco a chi mi domanda “e tu, di cosa ti occupi?” suscita spesso facce perplesse, angoli della bocca ripiegati in modalità dubbiosa, espressioni tra il risibile e il compassionevole. Quindi, tanto per chiarire, sono un modesto e squattrinato esperto di abiti e di moda (precisazione che aggiungo sempre alla risposta di cui sopra…la parola “moda” intendo, non le delucidazioni sul mio conto perennemente in rosso): lavoro che affianco necessariamente ad altri impegni o collaborazioni, perché non rientro di certo tra le figure più richieste in questo paese, perché in pieno terzo millennio vivere di “vecchi stracci” da studiare è arduo, perché alla fine non rinuncio neanche a mettermi in discussione e ad affrontare nuovi o diversi settori. Ma quando mi si presenta finalmente l’opportunità di misurarmi nel campo che più di ogni altro avverto come mio, ne ricevo un’iniezione di pura vitalità che mi ricarica per lungo tempo, che mi ripaga delle mille difficoltà e delle spiacevoli, inevitabili delusioni, e che non penso alla fine di essere mai riuscito a saper trovare altrove. Fortunatamente, da ben cinque anni, collaboro con la Galleria del Costume di Palazzo Pitti a Firenze, unica istituzione museale nazionale deputata ad illustrare la storia della moda dal passato sino ai nostri giorni: il capitolo seguente sarà perciò il resoconto della sua ultima, imperdibile, mostra.

Ci sono voluti ben due anni di riunioni interminabili, di scambi di e.mail al vetriolo o di lunghe telefonate di sostegno tra tutta l’equipe, di intere giornate trascorse nei depositi del museo a valutare, misurare, analizzare le creazioni ritenute più adatte all’esposizione, il tutto coordinato dall’infaticabile talento della direttrice Caterina Chiarelli. Il risultato è la nuova e coinvolgente selezione espositiva Donne protagoniste del ’900, inaugurata lo scorso 12 Novembre e che rimarrà ad impreziosire le sale della Galleria per i prossimi due anni, secondo l’appurato criterio che un abito non possa rimanere al pubblico per lungo tempo, pena subire uno stress fisico tale da comprometterne la conservazione. La sfida rimane perciò ogni volta quella di assecondare la particolare natura dinamica del museo stesso, che avvalendosi della continua rotazione di opere e manufatti da esporre rimane un unicum nel suo panorama, e di riuscire inoltre a legare i singoli abiti, in base ad un principio già adottato nelle ultime mostre, da un tema comune che si snodi lungo tutto il percorso. Questa volta il fil rouge si tinge quindi di rosa, perché volto ad illustrare l’intero universo femminile degli ultimi due secoli, mettendo in scena le creazioni e il guardaroba di donne che si sono distinte nei più diversi settori, assegnando ogni volta alla moda un ruolo di spicco nella propria vita. Ci sono dunque volti noti dello spettacolo, come Patty Pravo, visibilmente emozionata e lusingata il giorno dell’anteprima, che ha deciso di donare alla Galleria alcuni suoi abiti storici indossati a Sanremo, come il celebre kimono in maglia di metallo creato da Gianni Versace nel 1984 (foto allegata), appositamente collocato sulla sommità di una lunga scala che ricorda proprio quella del festival canoro. Ci sono, per la prima volta orgogliosamente esposti in un museo statale, le raffinate e stravaganti creazioni di Anna Piaggi, la più eccentrica e colta giornalista di moda, scomparsa di recente, che nella sua straordinaria carriera di musa e amica dei più importanti stilisti ha collezionato pezzi rarissimi come manti e mise di primo ’900 firmati Poiret, Gallenga, Schiaparelli. Ci sono i semplicissimi ed emozionanti abiti privati di Eleonora Duse, attributi all’artista spagnolo Mariano Fortuny e risalenti al breve periodo di lontananza dalle scene dell’attrice. E ancora i pregiati e rappresentativi vestiti di Cecilia Mattuecci Lavarini, annoverata tra le più importanti collezioniste mondiali di haute couture, di Rosa Genoni, prima creatrice nazionale ad introdurre nel secolo scorso il concetto di Made in Italy, i ricercati e divertenti bijoux di Angela Caputi. E molte altre superbe e spettacolari creazioni, che non vi svelo, sicuro che vogliate accorrere ad apprezzarle di persona.

Lady Gagarin

Gaga Tests Flying Dress – YouTube.

Probabilmente sarò l’unico, ma io me la immagino da sempre sgusciare frettolosamente a casa, dopo ogni impegno, per abbandonarsi al lusso – tipico di molte donne che per lavoro/desiderio/masochismo mantengono però in pubblico, sin dalle 6 del mattino, un aspetto a dir poco impeccabile – di lasciarsi finalmente andare al piacere di un orrendo pigiamone di pile o di peluche rosa confetto, di quelli un po’ usurati dal tempo, tutto interamente ricamato con teneri orsetti, cuoricini, sdolcinate scritte di strass del tipo “Good night sweetie” e robaccia simile. Mi sembra quasi di vederla rannicchiata sul suo divano, ai piedi due enormi babbucce pelose a forma di gatto o di Hello Kitty, il viso del tutto struccato, gli occhialoni spessi da vista (di quelli che ogni miope custodisce gelosamente nel proprio cassetto e con cui non si mostrerebbe mai ad anima viva), i cappelli raccolti da una matita masticata in uno chignon sbilenco, e lì lentamente gustarsi, tra relax e sciatteria, il meritato momento di insulsa normalità. Perché pensateci bene: essere Lady Gaga, alla fine, deve essere una grande, immane, mostruosa, fatica. Non di quelle reali, per carità – tipo gestire gli orari di lavoro, le follie dei familiari, l’assottigliarsi dello stipendio – a cui siamo invece abituati soprattutto noialtri comuni mortali, che possiamo però permetterci ancora di uscire in giro con qualche brufolo, occhiaia, pelo superfluo in più, tanto chi se ne accorgerebbe mai, neppure il salumiere sotto casa, per dire. Il lato difficile, diciamo così, dell’esistenza di Miss Germanotta (vero cognome e forse tormento della nostra cantante) potrebbe essere però davvero il rischio di trasformare in una nevrosi logorante, in un pensiero ossessivo, in un’estenuante, e non sempre fruttuosa, ricerca, quella che da qualche anno è la sua più riconoscibile cifra stilistica: la volontà di arrivare a stupire continuamente il suo pubblico, ad ogni apparizione, con la scelta di un look eccessivo, esasperato, travolgente come uno tsunami.

“E stavolta che m’invento?” potrebbe verosimilmente chiedere la popstar, con tutta la comprensibilissima ansia del caso, ogni mattina al proprio laborioso staff, già responsabile (o meglio colpevole) di averla ricoperta, solo per citare i casi più recenti, di pizzo avviluppato sul suo corpo come edera, di parrucche architettoniche, di macabri tatuaggi, di protesi occipitali e dentarie, di enormi bistecche simili a quelle di brontosauro che abbiamo visto solo nei cartoni dei Flinstones. Di averla poi rinchiusa in inquietanti bozzoli e disgustose armature da alieno, di averla fatta travestire da ragazzaccio di quartiere, da suora punk, da galeotta borchiata, da serigrafia di Warhol (i colori almeno erano quelli), arrivando in pratica a sondare tutto un immaginario estetico impossibile da raggiungere anche sommando tutti i nostri passati carnevali fatti di maschere altrettanto surreali. Ed ecco allora il colpo di genio: sto esaurendo in una sola carriera tutte le possibilità espressive offerte da questo mondo? E io mi rivolgo all’intero universo: risale infatti soltanto alla settimana scorsa la notizia, confermata dalla stessa Gaga in uno suo seguitissimo tweet, che l’artista parteciperà nel 2015 allo Zero G Colony (http://www.zerogcolony.com/) il primo festival musicale ideato in totale assenza di gravità, in programma appunto allo Spacesport America, costruzione futuribile sorta nel deserto del New Mexico. Secondo indiscrezioni alla cantante verrà affidato l’evento conclusivo dei tre giorni di kermesse, forse un’esibizione “fluttuante”, da tenere a bordo di una navicella spaziale o in qualche altra immaginifica struttura, allestita per l’occasione nell’avveniristico spazioporto finanziato dal magnate della Virgin Richard Branson. E per non farsi cogliere impreparata all’evento Lady Gaga, solo ieri a New York, durante il lancio mondiale del suo nuovo album, Artpop, sembra aver affrontato le prove generali della tanto attesa performance: testando il prototipo di un “abito volante” (ribattezzato appunto, con un evidente sforzo di fantasia, Volantis) (video allegato), una sorta di elicottero indossabile in cui ha goffamente e coraggiosamente galleggiato in aria per alcuni metri. Certo, rispetto all’intelaiatura possente del mezzo,  l’effetto finale di balzello a singhiozzo è stato un po’ deludente: confidiamo allora nei futuri due anni di duro allenamento che attendono l’artista, o, perché no, nella progettazione di una nuova e più efficiente macchina volante. O meglio ancora, nell’arrivo di un altro cantante che giunga a conquistarci, semplicemente, senza tanti sforzi rocamboleschi, con la sua sola voce.

Good vibrations

Rock’R² – Official Video – YouTube.

Da creatura totalmente disinteressata al mondo della tecnologia, e di conseguenza assolutamente negata a gestire anche il più elementare congegno elettronico, posso per fortuna contare su un discreto numero di amici che per lavoro, passione, capacità (paragonate alle mie, direi quasi miracolose) al contrario così efficienti nel comprendere al volo il funzionamento di qualsiasi apparecchio, a mio avviso sempre troppo sofisticato, destinato ad apparire ai miei occhi soltanto come l’ennesima e astrusa diavoleria con cui di sicuro mi scontrerò. Persone pazienti e disponibili, a cui ricorro spesso, in drammatiche telefonate o e.mail dal tono supplichevole, ogni volta che il mio pc pare simulare un tragico abbandono (la maggior parte delle volte mai definitivo), ogni volta che il mio smartphone (ebbene sì, ne possiedo uno, ignaro di esser capitato in mani inadeguate) si esibisce in capricci che giudico incomprensibili, ogni volta che alzo arrendevolmente le braccia, tra rabbia e frustrazione, quando un qualsiasi attrezzo di ultima generazione decide, in completa autonomia, di non rispondere più alle mie, seppur banalissime, richieste. Amici preziosi e sensibili, che pur di non farmi sentire un completo idiota di fronte alla rapidità con cui risolvono il problema da me reputato insormontabile, si prodigano in lunghe e dettagliate spiegazioni, così infarcite di parole comprensibili quanto una lingua ugro-finnica, da causare il più delle volte sulla mia faccia una persistente espressione del tipo “se vuoi posso anche annuire, ma non ho davvero idea di ciò che stai dicendo!”. Gente premurosa che poi, annichilita e scoraggiata dal mio prolungato mutismo e dal mio visibile smarrimento, tenta la tattica del “proverò allora a semplificartelo come farei con mio figlio di 7 anni”, un po’ come succede quelle rare volte che decido di presentarmi dal mio dentista (che poi, sarebbe anche mio cognato) e lui carinamente mi chiarisce ogni sua minima azione, mentre io preferirei limitarmi a spalancare la bocca, senza dover per forza compiere lo sforzo di capire cosa vada combinando lì dentro. E succede anche che a causa di questi esseri magnifici e indispensabili al blogger, o meglio, per saldare il debito di riconoscenza che nutro nei loro confronti e per dare corpo a tutta la mia ammirazione nel sapersi destreggiare su un terreno in cui mi muoverò sempre con enorme difficoltà, decida di vincere le mie titubanze di incorreggibile tecnosauro andando alla ricerca, in rete, di un pensiero carino che possano di certo apprezzare. Ragione per cui, proprio oggi, faccio la gradita conoscenza di Rock’R 2 (video allegato) un curioso gadget in vendita esclusiva sul sito dell’azienda di telefonia francese Orange (http://www.orange.fr/), la cui simpatica forma, a prima vista, ricorda quella di un deodorante stick, o l’ipotetica supposta di Jeeg Robot, perfino un applicatore per assorbenti interni (strumento misterioso e interessante già incontrato a suo tempo nei miei anni di prolungate convivenze con graziose fanciulle. E direi di chiuderla qui con i paragoni, prima che il mio umorismo da quattro soldi sconfini nel mondo dei sex toys). Un piccolo prodigio, disponibile in tre colori ed acquistabile all’accessibilissima cifra di circa 35 euro, che promette di far riprodurre musica a qualsiasi altro oggetto, di diversa natura, abbiate già in casa, dal frigorifero al microonde, perché no, anche allo stesso scaldabagno, passando per bottiglie, tubi, scatole di diversa forma e dimensione (ma sono sicuro di poter contare sulla vostra fantasia nello sperimentare anche altro). Sfruttando un semplicissimo principio di acustica, quello della capacità di un corpo cavo di ritrasmettere suoni tramite vibrazioni se collegato con un micro-amplificatore (in questo caso la testina del nostro gadget, da svitare e appiccicare tramite una membrana adesiva, dove volete). Chiaro, no? Bah, vi dirò. Non è che c’è qualche volontario che voglia sperimentarlo di persona, così poi me lo rispiega, punto per punto, per benino? Saprò esservi riconoscente, giuro: magari regalandovi un buon libro.