Two weeks notes

Sono trascorse soltanto due settimane dall’ultima volta che i miei pensieri bislacchi hanno trovato il loro adeguato spazio nella generale scombinatezza di questa pagina – un periodo infinfluente se messo in relazione, per esempio, con il trascorrere delle ere geologiche, ingiustificabile se confrontato invece con la rapidità con cui vengono aggiornati altri e più seguiti blog – eppure a me pare un’eternità. Non tanto per le comprensibili lamentele o tiratine d’orecchio da parte di chi, inspiegabilmente, si è così affezionato ai contenuti insensati dei miei vari post, da lamentarne in questi giorni l’evidente mancanza o arrivare a manifestarmi tramite social, e.mail o chilometrici sms di richiamo tutta la propria, apprezzatissima, preoccupazione. Quanto perché quella sfuggente e capricciosa entità che è il tempo, ultimamente è sembrata quasi provare un divertimento sadico nell’infarcire le mie giornate recenti di un’insolita concentrazione di piccole e grandi rivoluzioni, di momenti indimenticabili o al contrario drammatici, di entusiasmanti novità e trasformazioni radicali che in genere faticherei a metabolizzare anche nell’arco di un anno intero. Lasciandomi così spesso in balìa di un soffocante senso di stordimento, diviso come sono fra altalenanti attimi di euforia o di pressoché totale sconforto, ingegnandomi come posso ad inseguire la mia esistenza che attualmente necessiterebbe di un’addrizzatina o almeno di una maggiore pianficazione rispetto all’andamento anarchico che sta adesso rivendicando. Inutile aggiungere che a causa di tutto questo trambusto indesiderato sono mancate la concentrazione, la voglia e le energie occorrenti per scrivere qualcosa di vagamente appassionante o anche soltanto di logico. Ed è il motivo per cui, a quindici giorni esatti dalla mia ultima comparsa qua sopra, mi ritrovo ancor oggi privo di un qualsiasi materiale da condividere, eccezion fatta per alcune brevi annotazioni che ho buttato qui alla rinfusa nella remota speranza che potessi svilupparci, chissà quando, un post più articolato, e che vi lascio sotto forma di piccole lezioni quotidiane che ho tratto dalle numerose dis/avventure vissute.

- Credere alla forza ostinata dei propri sogni, infischiandosene di pressioni o ansietà inutili, perché non è mai troppo tardi per cominciare un nuovo percorso, per chiudere un vecchio capitolo, per concretizzare le nostre più intime aspirazioni, perché, come mi ha dimostrato il mio amore, per quanto possano essere alti gli ostacoli posti dalla vita, l’importante è continuare a voler raggiungere il proprio traguardo.

- Ascoltare con la dovuta attenzione chi ti siede, anche casualmente, a fianco, perché le parole altrui sono finestre spalancate su mondi che non pensavamo mai di esplorare, perché le storie e le passioni incarnate dagli altri, fossero anche lo studio del sanscrito o la danza acrobatica con i tessuti, anche se lontanissimi da noi, possono trasformarsi in un arricchimento improvviso ed impensabile per i nostri limitati orizzonti.

- Coccolare i propri ricordi, senza intenti nostalgici o struggenti rimpianti, perché il passato può sempre decidere di ribussare piacevolmente alle nostre porte, perché ritrovare un vecchio affetto o un rapporto d’amicizia trascurato o dimenticato è una magnifica occasione per un altro, inaspettato inizio, o perché dover dire addio a chi a suo tempo ha riempito le tue giornate con la sua risata fragorosa può diventare meno devastante.

- Ringraziare chi decide di coinvolgerti d’un tratto nella sua vita, magari travolgendoti con la disperazione di uno sfogo imprevisto o affidandoti la preziosità di una più intima confidenza, perché per alleggerire ciò che sembra insormontabile a volte è sufficiente solo un cenno col capo, un caffé o un abbraccio. E perché poi un semplice grazie ha un suono bellissimo, e non costa nulla.

(Ap)punti di lavoro!

Non è il dettagliatissimo mansionario, pochi ma densi fogli contenenti la spiegazione scrupolosa di tutti i miei numerosi compiti da svolgere, che mi ritrovo a rileggere ogni sera con la necessaria calma prima di addormentarmi e con cui ho inevitabilmente finito per rimpiazzare il libro che tentavo invece di concludere da settimane, abbandonato per il momento senza riserve al capitolo sette. E neppure l’improvvisa e magnetica bellezza che si spalanca di fronte ai miei occhi increduli ad ogni angolo o passaggio segreto, in genere vietato al pubblico, esistente nello straordinario e secolare edificio in cui sono capitato, che il mio ultimo quanto inaspettato incarico mi permette al contrario di poter ammirare. La prima cosa su cui sono rimasto a riflettere per pochi minuti, in silenzio, nel mio nuovissimo ambiente di lavoro, l’ennesimo in cui a 29 anni suonati (da tempo) inauguro un’ulteriore tappa della mia incomprensibile e variegata carriera, è, al solito, il cartello ben visibile e un po’ singolare che trovo appeso nel bagno, e che recita “si prega di usare poca carta igienica” (come poca? cioè, uno ne usa quanto crede di averne bisogno, no?), insolito ma sicuramente migliore di quello che ricordo di aver visto una volta nella toilette di in una redazione e che esortava invece ad usare “esclusivamente” la carta igienica (come “esclusivamente”? cioè, non è che uno preferisca altre tipologie di carta per certi scopi, no?): dettagli in teoria insignificanti che però la dicono lunga su cosa catturi in realtà la mia bizzarra attenzione e rimanga poi impresso a lungo nella mia memoria, occupando il posto di tante altre informazioni sicuramente più utili. Ma tant’è: accantonata per il momento la pur gratificante esperienza milanese che avrei dovuto replicare proprio in questi giorni e optato al contrario, con serenità, per un ritorno nel più familiare ambiente museale fiorentino, ecco che mi trovo ancora una volta fare i conti con tutte le incognite, le perplessità e le speranze che un nuovo inizio professionale necessariamente comporta, cercando come sempre di tenere bene a mente i soliti buoni propositi che, conoscendomi, disattenderò in tempi brevi e che vado subito ad elencare:

- provare a placare quell’ansia insostenibile che mi tiene compagnia sin dal risveglio e che mi avrà pur impedito, in questa vita quasi trentennale, di essere giunto in ritardo una sola volta in tanti anni di lavoro, ma che attualmente mi obbliga a rimanere per alcuni interminabili minuti fermo come un baccalà a fissare la macchinetta dove strisciare il mio badge finché non scatta l’ora esatta prevista per l’inizio del mio turno.

- evitare a casa di radermi il viso mentre ascolto e canticchio la mia playlist di vecchi successi dance anni ’70, tipo Diana Ross o Donna Summer, perché poi la tentazione di ballarci sopra è sempre tanta e puntualmente va a finire che mi procuro piccole ma profonde ferite alla gola e al mento, che destano sempre un’insana curiosità sul lavoro e che non posso stare a spiegare senza risultare nell’opinione altrui un po’ picchiatello.

- riuscire a mentire anche con il volto, o almeno, ad accordare quel “no, figurati, nessun problema” che la mia voce riesce, non so come, a pronunciare alla perfezione, con un’espressione facciale che sia un tantinello più adeguata, perché è al momento prematuro mostrare in certi casi tutto il mio disappunto, che al contrario sembra sempre affiorare con chiarezza come se l’avessi tatuato a caratteri cubitali sulla fronte.

- vincere la mia personale resistenza all’uso delle chiavi minuscole che ho sempre detestato, tipo quella della cassetta della posta relegata da anni chissà poi dove, perché le bollette e le lettere le ho sempre recuperate infilando audacemente le dita con manovre serpentine e perché al lavoro invece devo riordinare e riconsegnare qualcosa come una dozzina di odiosissimi mazzi diversi.

- ripassare mentalmente tutti i nomi dei numerosi nuovi colleghi, che carinamente si sono presentati sin dal primo giorno mentre io ero troppo assorto a scrutarne i visi con tutti quegli interessanti particolari su cui in genere mi soffermo (la forma delle sopracciglia, il taglio di capelli, ecc.), e così mentre loro mi salutano già da un po’ con un affettuoso “Ciao Alessandro” io riesco solo a replicare più banalmente “Ciao…ehmm, mmmh..(come accidenti si chiama?)!”

- evitare soprattutto di affezionarmi, come spesso mi succede, proprio agli stessi colleghi appena menzionati, anche se mi ci vorrà ancora qualche settimana per impararne i nomi ma non per dar loro maggiore confidenza, perché in alcuni già riconosco persone a cui posso voler bene all’istante e perché tanto tra sei mesi, con tutta probabilità, dovrò ricominciare, in un altro posto, con altri, personalissimi e strampalati, buoni propositi da non rispettare.