Just me and you…

“Vuoi che ti passi dell’insalata?” “No, grazie, non mangio cibi verdi!” “Davvero? Ma pensa, neanch’io!”. Ero incredulo, quasi sconvolto, soprattutto sollevato. Ho perfino provato forte il desiderio di tuffarmi al di là del tavolo dove era seduta anche lei, durante un pranzo fra colleghi, solo per abbracciarla, manifestarle tutta l’improvvisa e sconquassante gioia per la fine dell’attesa pluridecennale di un altro essere umano che pronunciasse quelle stesse, fatidiche parole, esultare in pubblico per il piacevole e inaspettato conforto dovuto alla speranza colmata di ritrovare nei gusti altrui la mia identica e forse un po’ bizzarra consuetudine, universalmente considerata dal 99% degli abitanti del pianeta una stramba e capricciosa rarità. “E le zucchine?” “Dipende da come sono cucinate, ma in genere non mi fanno impazzire” “Uguale! E il radicchio?” “No, ma scherzi? Non sarà verde ma ha quella consistenza lì” abbiamo proseguito nella nostra trascinante ed empatica conversazione, probabilmente suonata un tantinello surreale alle orecchie degli altri presenti, quanto così familiare e gradevolmente prevedibile per me, ipnotizzato com’ero dai suoi racconti su lattuga, spinaci o broccoli, talmente sovrapponibili ai miei stessi aneddoti sull’argomento, da darmi quella gratificante sensazione di riascoltare la melodia di una vecchia canzone imparata un tempo a memoria e mai più sentita per anni. Perché se si è speso inutilmente più dei due terzi della propria esistenza per convincere parenti e amici della fondatezza di quella tua, chiamiamola così, irragionevole repulsione, oltre a tutta la propria infanzia a buttar giù bocconi interi di bietole o cavolfiori da non sfiorare mai neppure con lingua e denti, stufo di esser sempre additato come l’ospite esigente e incontentabile, quello che puntuale, dopo ogni invito a cena, riceve la solita telefonata del tipo “ma neanche i carciofi mangi? e gli asparagi? allora cosa posso cucinarti?”, incontrare la comprensione e la solidarietà di un’altra creatura affetta dalla stessa, forse rara ma comunque esistente, abitudine, equivale a un impagabile attestato di appartenenza ad una delle tante schiere imperfette dell’umanità. E visto che abbiamo tutto da guadagnare dal condividere o dal riscontrare nel prossimo le nostre stesse vulnerabili pecche o le nostre più illogiche manie o consuetudini, anche solo per non sentirsi isolati da una muraglia di singolari usanze erroneamente ritenute fuori dal comune, vi invito, come faccio io di seguito, ad uscire allo scoperto e a raccontare qui tranquillamente tutte le vostre stranezze, con la concreta possibilità che appartengano anche all’insensato repertorio di comportamenti e di azioni bislacche di qualcun altro, fino adesso mai purtroppo incontrato. Ecco le mie:

- I barattoli della cucina (caffé, zucchero, sale, etc) devono essere, sui miei scaffali, sempre pieni fino all’orlo. Già se scendono sotto la metà del proprio contenuto vanno riempiti (meno non se ne parla proprio). E per evitare il rischio del ricambio costante della parte superficiale a discapito di un fondiccio ristagnante a lungo, svuoto con cura ciascun barattolo, lo riempio per circa metà dell’altezza direttamente dalla confezione, per poi riversare di nuovo lì sopra il contenuto tolto poco prima. Almeno un paio di volte a settimana.

- Il volume della tv, dell’autoradio, dello smartphone, di qualsiasi altro diabolico congegno atto a riprodurre suoni deve segnare sempre, e dico sempre, un numero pari, mai dispari. Stessa cosa vale per tutte le mie sveglie: mai potrei sintonizzarle, che so, alle 7.37. Più difficile semmai estendere la stessa discutibile mania agli orologi comuni: voglio dire, se quel minuto è dispari, è dispari. Allora lo fisso a lungo, finché non diventa pari. Poi sto meglio.

- Gli acquisti da porre sul tapis – roulant di una cassa in qualsiasi negozio non saranno mai buttati lì in ordine sparso o, peggio ancora, messi a casaccio, sbilenchi, a formare torri pericolanti di spese da imbustare, ma posti ordinatamente in maniera perpendicolare gli uni agli altri. Come in una sorta di Tetris tridimensionale, le cui pedine sono però scatole di scarpe in saldo, pezzi di mobili impronunciabili dell’Ikea o confezioni d’acqua lievemente gassata. Indicibile è la vastità di espressioni sgomente da parte delle commesse avvistate negli anni.

- Il mio oculista di fiducia ormai se n’è fatto una ragione e mi fissa direttamente l’appuntamento annuale di controllo verso le 6 del pomeriggio, l’ultimo della giornata. Perché tanto prima delle 8 non uscirà di lì: di sicuro gli ci vorranno quelle due ore anche solo per potersi avvicinarsi alle mie pupille, pensiero che a rievocare anche adesso mi provoca sudarelle fredde e nausea. Ebbene sì, più di ogni altra cosa al mondo mi terrorizzano le visite agli occhi: in compenso non batto ciglio di fronte al dentista, sulla cui poltrona riesco spesso ad addormentarmi. Qualcun altro può vantarsi di fare altrettanto?

Al mio tre…

Rischierò di apparire più maniacale di quanto non sia in realtà (oddio, se vi fosse già capitato di leggere qualcuno dei miei vecchi post credo sia tardi per poter rimediare a questa dannosissima impressione), ma, come vado ripetendo ormai ogni Dicembre dal 2012, anche stavolta ci tenevo a ricordarvi che, ad oggi, sono trascorsi esattamente tre anni dall’avventuroso, zoppicante e incredibilmente duraturo avvio di questo blog. Per la precisione poco più di 36 mesi (cifra che fa tanto etichetta di giocattoli provvisti di minuscole parti che potrebbero essere facilmente ingerite), o se preferite 1097 giorni (considerando l’assenza di un anno bisestile e le 48 ore di ritardo sulla scadenza puntuale del terzo anniversario); eviteri però di specificare i minuti, ma vi assicuro che mi basterebbe poco per poterli contare con esattezza, visto che ricordo ogni singolo istante relativo alla nascita di questo spazio virtuale catartico, modellato con urgenza al fine di placare, per mezzo della scrittura, la maggior parte delle mie inquietudini interiori. Anche se da allora mi sembra di aver davvero vissuto, proprio come uno di quei numerosi gattini che andate condividendo con incomparabile gioia (la vostra) su Facebook, sette diverse e schizofreniche esistenze. Perché in questo lasso di tempo sono arrivato a cambiare qualcosa come cinque differenti professioni e almeno otto luoghi di lavoro, trasferendomi o spostandomi di continuo fra tre, per fortuna splendide, città, cominciando soprattutto a detestare quella in cui avevo deciso di vivere per motivi sentimentali, ma che si è poi rivelata ai miei occhi particolarmente arida e poco stimolante. Prendendo, per sopravvivere, centinaia di treni, accumulando stress e ore di ritardo, perdendo il convoglio in partenza almeno una dozzina di volte (e maledicendo di corsa mezzi e/o personale), sbagliando in due occasioni binario, per ritrovarmi così a trascorrere un intero pomeriggio nella squallida stazione di Zagarolo (meta sconsigliabilissima), o un venerdì notte su e giù per l’Italia, in una triangolazione insensata fra Milano – Roma – Firenze, ad ubriacarmi con del pessimo vino rosso offerto da Trenitalia. Oppure percorrendo in auto, io che oltretutto detesto guidare, migliaia e migliaia di chilometri, tenendo a bada la solita ansia al volante con personali e strazianti performance di canzoni di Mina o Whitney Houston scelte come sottofondo e con il mio amore spesso a fianco, che puntualmente si addormenta dopo cinque minuti esatti dalla partenza per risvegliarsi a cinque minuti dall’arrivo, annunciati da un suo candido “Già arrivati?”.

Ho inoltre ripreso a insegnare, dopo una secca e credevo definitiva rinuncia, più di un ripensamento, un paio di offerte allettanti e, ad oggi, già circa duecento nuovi allievi, fra i 18 e gli 85 anni, nei cui singoli sguardi provo di continuo a scorgere il reale interesse, trovandovi talvolta anche la noia, perfino una diffidenza sottile, per fortuna anche autentica passione o, più di rado, una stima spropositata nei miei confronti. Ho ugualmente tentato di insegnare a mia nipote qualcosa di altrettanto fondamentale, riuscendoci solo in parte con le costellazioni che le mostro sul mappamondo luminoso tenuto in camera da letto, le sole e le stesse tra l’altro che ricordo sin da bambino perché imparate all’epoca da mio padre in certe piacevoli sere d’estate. Sono sceso a patti con il tempo che passa, trovando raffinata la scelta di mia madre di lasciarsi finalmente imbiancare tutti i capelli, accettando un po’ meno volentieri ogni mia nuova ruga avvistata allo specchio, sorprendendomi ad ogni “ma non sei cambiato affatto!” ripetuto da chi incontro dopo tempo, replicando “sai, una spruzzatina di botox ogni tanto” e pensando in realtà “starà fingendo o davvero non ha notato questa nuova graticola di solchi intorno agli occhi?”. Sono riuscito a ingrassare di ben 12 chili, per poi perderne a fatica 8 e sconsideratamente riprenderne altri 3, e adesso che si avvicinano le feste ho già stilato per il 2016 un nuovo programma di mantentimento/sport/rinunce che manderò di sicuro all’aria entro il 10 Gennaio. Ho aspettato decine di strabilianti tramonti sul mare pensando sempre che valesse la pena vivere solo per poter godere di uno spettacolo del genere e ugualmente invocato la morte ogni volta che mi sono trovato a risalire faticosamente da quelle lontanissime spiagge, a piedi, in mezzo al buio pesto, per aver fatto tardi a guardare il sole scendere. Ho scoperto, in una sorprendente serata lavorativa passata con dei divertenti ex colleghi, che riesco a guardare su YouTube i video sui vermi carnivori degli abissi, non trovandoli poi neppure creature così ripugnanti, almeno non come i rospi, che al contrario considero fra gli esseri più disgustosi, come ho appurato pochi mesi fa quando, fuori casa di mia sorella, ne ho scovato uno gigantesco e non sono riuscito a muovere un muscolo per alcuni minuti. Sono finalmente riuscito a liberarmi di molti oggetti inutili collezionati negli anni, attribuendo più valore al pensiero dei ricordi che non alle cianfrusaglie accumulate, assaporando con più gusto il presente senza dover ricorrere continuamente alla presenza fisica o agli indizi del passato, e ora che ci penso, ho perfino lasciato per due volte il mio indispensabile spazzolino da denti a casa degli stessi amici che spesso mi ospitano e che adesso sospettano una mia sotterranea volontà di trasferirmi da loro. Ho imparato soprattutto a convivere con il dolore per chi se n’è andato troppo presto, con la delusione per chi ha deciso di voler uscire dalla mia esistenza o comunque di ridimensionare, tralasciare, o troncare il rapporto che ci legava, perché per quanto sia penoso salutare le persone che vorresti continuassero a far parte della tua vita, non si può certo obbligarle a far coincidere il loro cammino con il tuo. Insomma, anche grazie a questo blog, mi riguardo con lucidità e mi riscopro diventato nel tempo più tollerante, maturo (oddio, più o meno) sereno (quello sì).

E già che ci sono, aggiungerei un’ultima, sincera, considerazione: ho quasi quaranta, spaventosi e bellissimi, anni. Gli ultimi tre dei quali, zeppi di scivoloni e tentennamenti, singolari disavventure e speranze concrete, mi sono ritrovato a narrare, forse con passione discontinua ma, spero, con la doverosa ironia, su questo strampalatissimo mezzo virtuale. E adesso come adesso, per nessuna ragione al mondo, vorrei tornare indietro, anche per un solo giorno, ai miei pur piacevoli, spesso allegramente dichiarati, eppure, oggi ai miei occhi così imperfetti e lontani, ventinove.

Birthday memories

“Se stavolta è un bastone per i selfie giuro che te lo spezzo sulla testa!” provo a minacciare, sopraffatto dalle risate, il mio amore, che fedele ad una lunga, personale quanto insana tradizione, allo scoccare puntuale della mezzanotte con cui si inaugura ogni mio sempre più detestato e inevitabile compleanno, possiede la simpatica abitudine di far sbucare dal nulla un piccolo pacchettino artigianale, pensiero apparentemente romantico, se non fosse che il regalo in questione consista in genere in un oggetto pressoché inutile, particolarmente kitsch, mirato insomma a sbeffeggiare le mie numerose manie o pecche, dall’innegabile vanità leonina (perché fa così comodo incolpare gli astri dei nostri difetti) ai milioni di miei giganteschi e inutili arrovellamenti sul tempo che passa. “No, non è per i selfie. Ma non ci sei andato lontano. Tanti auguri!”. E così, mentre nella testa cominciano a farsi spazio le solite, schiaccianti, inquietudini che mi accompagneranno di sicuro per tutta la giornata a venire (un altro anno? ancora? ma i 29 non li avevo già compiuti abbastanza?) mi ritrovo tra le mani come prima, inaspettata e non saprei dire quanto gradita sorpresa, un’asta telescopica con un minuscolo rastrello metallico fissato alla sommità, in altre parole un “grattaschiena”, attrezzo di cui ignoravo perfino l’esistenza, ma che immagino possa tornarmi utile visto che l’avanzare degli anni sottrae al corpo agilità ed elasticità muscolare. Ma sì, mi dico, forse ricorrere all’ironia rimane l’unico e più salutare metodo per fronteggiare i tormenti che tra poche ore mi assaliranno, quelli che immancabili si ripresenteranno insieme alle candeline da spegnere alla sola idea che anagraficamente starei quasi per rientrare nell’orribile definizione di “uomo di mezza età”, mentre il cervello e la maturità rimangono ahimé quelle di un teenager totalmente impermeabile allo scorrere serrato delle stagioni, e il fisico di recente alleggerito di otto chili comincia invece a mostrare sparsi qua e là piccoli cedimenti strutturali e una silhouette in qualche punto paragonabile a una borsa dell’acqua calda svuotata.

Tutti sforzi poi inutili, intendo quelli fatti per tornare un tantinello un po’ più in forma, perlomeno agli occhi crudeli di mia sorella, che non contenta di aver pubblicato quel giorno sul mio profilo Facebook un vecchio scatto risalente addirittura al mio 5° compleanno, la cui pessima qualità fotografica lo renderebbe forse databile al tardo pleistocene o giù di lì, si è presentata alla cena greca per la mia festa con in dono una raffinata t – shirt rossa (questo glielo concediamo), dall’implacabile però dicitura XL ben visibile sull’etichetta (sgrunt), taglia per di più mai indossata neppure durante i momenti di maggiore dilatazione corporea decretati dalla bilancia e solo da poco superati. Altri momenti piacevoli o memorabili non sono comunque mancati: la quasi totalità della giornata trascorsa al lavoro, leggendo nelle pause un interessantissimo libro sulla body art che tento di portare avanti coprendo come posso, per non svenire, le immagini di artisti dediti a tagliuzzarsi con lamette, interrotta dal pranzo carinamente offertomi per l’occasione da una collega con cui non ho ancora la confidenza necessaria per confessarle lo sbaglio nello scegliere un’insalata di riso con troppi ingredienti verdi, che detesto (“Ma la rucola non la mangi?” “No, è che ho i denti radi, poi mi rimane in mezzo!”), e dalla pioggia incessante di auguri giunta via sms o Whatsapp, a cui ho provato a rispondere il più in fretta possibile sbagliando puntualmente in ogni messaggio parole o icone per deleterio intervento del suggeritore automatico (mi sono partiti in ordine un “grazie bara” invece di “cara” , un equivocabile “cicciolina” invece di “ciccia” e l’emoticon di una cacca al posto di una faccina con un bacio). Preso poi dallo slancio di mostrare la dovuta gratitudine a chi si fosse ricordato della mia festa, dedicandomi qualche minuto del suo tempo, ho anche replicato con un entusiasmo esagerato al “tanti auguri” di una mendicante incrociata per caso in strada, credendo lì per lì che fosse venuta in qualche modo a conoscenza del mio compleanno. Vabbé, dicono che ogni anno che passa sia comunque una conquista: la mia lucidità mentale non sembra essere troppo d’accordo.

P.s. Il grattaschiena giace adesso sul mio comodino, in compagnia di un poggia-occhiali a forma di profilo umano, regalatomi il giorno seguente dalla mia collega Stella, che ha detto di averlo visto e pensato subito a me. In effetti, se si esclude il verde tiffany del materiale con cui è realizzato, dimensione e andatura discendente sono proprio identiche a quelle del mio naso. Comincio anche a pensare che abbia soffiato l’idea al mio amore per il suo pensiero del prossimo anno.

7 chili in…

…meno, innanzitutto, se proprio vogliamo cominciare puntualizzando il primo, vero, significativo traguardo faticosamente raggiunto in questo mio traballante e a tratti gratificante 2015. Ottenuto in tempi ovviamente più rilassati rispetto all’impossibile meta di 7 giorni, come prometteva il celebre film degli anni ’80 richiamato nel titolo di questo post, che mi è di certo arduo ricordare nei dettagli perché usciva nelle sale quasi in contemporanea alla mia venuta al mondo (avevo già confessato i miei 29 anni, giusto?). Dunque, dicevamo: fuori i primi 7 tenaci e odiosissimi chili di quei 10, poi divenuti 12, rapidamente accumulati nell’ultimo lustro e presto archiviati attorno al girovita come un antiestetico salvagente di ciccia, con la malvagia complicità di un indesiderato e persistente stress, di continui e gravosi scombussolamenti professionali e privati, della sottile e mai celata antipatia per il piccolo e scostante paesino in cui mi trovo a vivere, tutti fattori che hanno nel tempo contribuito a farmi preferire l’immediata gioia consolatoria del frigo a un po’ di necessario e salvifico autocontrollo a tavola. Cambiato registro, almeno per il momento: riprese in mano le redini di questo corpo sconsideratamente lasciato in uno stato di abbandono abbastanza prolungato, ho impiegato buona parte di questi ultimi mesi per tentare di rientrare nei miei vecchi panni, metaforici e non, seguendo pochi, semplicissimi passi che vado qui di seguito ad elencare, senza la presunzione di poterli indicare come precetti universali per riuscire a perdere peso (mettersi a dieta è affare molto più serio) ma utilizzandoli come invece come improbabile pretesto narrativo della mia recente (e non ancora ultimata) vittoria sui chili di troppo.

1) Individuare una qualche, anche assurda, motivazione: c’è sempre una causa scatenante, un punto estremo di rottura, un episodio che risuona come un improvviso risveglio di coscienza o uno schiaffo sonoro dato al tuo amor proprio sopito e che ti fa domandare d’un tratto “quand’è che sono diventato così?”. Il mio è, a dire il vero, piuttosto banale: tra le numerose foto che mia madre ogni tanto ripesca a casaccio dagli album di famiglia e che da decenni ritaglia e pieghetta a mo’ di origami, per riuscire ad incastrarle, chissà poi come, in microscopiche cornici di silver plate, riducendo di fatto l’infanzia mia e di mia sorella a una serie di ricordi penosamente sforbiciati in minuscole sagome, ha fatto la sua comparsa uno scatto che avevo, ahimè, dimenticato. Sono io, o meglio, una versione assai più giovane e snella di me, gli anni circa la metà, il doppio i capelli, mentre riemergo in costume da bagno, abbronzato e fluttuante, da uno scivolo in un non meglio identificato parco acquatico. Il riflesso della mia linea appesantita restituito al momento dallo specchio distava ormai troppo da quell’immagine da sirenetto, seppur datata, che non posso neanche sognare di replicare in questa vita, ma trattandosi comunque dello stesso soggetto, un qualche margine di miglioramento potevo, anzi dovevo, provare a prenderlo in considerazione.

2) Evitare i consigli disastrosi di amici e conoscenti: la mia gelataia di fiducia, furbi occhi orientali e marcato accento toscano, vista calare drammaticamente la mia presenza nei pressi del suo bancone, ha da subito compreso le mie intenzioni. “Sei a dieta, eh?” mi dice porgendomi il solito (piccolissimo) cono all’amarena che mi concedo almeno un paio di volte a settimana “questo dunque è il tuo pranzo?” “Il mio pranzo, vuoi scherzare?” “No, no, io l’ho fatto per un periodo, funziona, provaci” “Se provassi sul serio tra 5 minuti mi vedresti prendere a morsi i passanti!”. Christine, la studentessa americana di Denver che incrementa il suo curriculum scolastico con viste guidate gratuite nel posto dove lavoro e che quotidianamente sfinisco di domande assurde sul suo paese (“ma li avete i piccioni in Colorado?” “e un cucciolo di bisonte l’hai mai preso in braccio?”) mi suggerisce invece di andare, come lei, in palestra dall’1 alle 3 di pomeriggio “Sudi tantissimo e poi non c’è mai nessun altro!” “Ecco, e ti sei mai chiesta il perché?”. Niente rinunce drastiche o eccessi sportivi per me: solo un po’ di necessaria moderazione con il cibo (consigliabile i primi tempi una museruola) e un tragicomico corso virtuale di zumba, per ora fermo alla prima lezione, che in genere concludo maledicendo e insultando la mia troppo frenetica insegnante, Robbberta (non è un errore di battitura, lo pronuncia proprio così il suo nome).

3) Instaurare un rapporto amichevole con la bilancia: alla fine è un oggetto come un altro, inutile acquistare un apparecchio ipersofisticato, di quelli che rilevano anche se indossate o meno le lenti a contatto, altrettanto dannoso (soprattutto per la psiche) sfidarla ogni giorno imponendole la vostra stazza, nella remota speranza di aver perso anche solo quel paio d’etti dalla sera alla mattina. La mia ad esempio è un quadrato sottile in simil vetro verdastro, rigorosamente made in Taiwan, che esordisce facendo lampeggiare sul display un saluto sgrammaticato tipo HELO, introvabile in alcuna lingua conosciuta, e che alla seconda riprova consecutiva mi regala sempre quel mezzo chilo in meno rispetto a quanto annunciato nei trenta secondi precedenti. Forse poco attendibile ma di sicuro più confortante. Poi scegliete una farmacia di fiducia, posta al riparo da occhi indiscreti, che si trovi anche a tre, quattro quartieri più in là rispetto a dove vivete, in cui poter entrare con una scusa (comprare le Zigulì funziona sempre) per andarvi invece a pesare ogni 15 – 20 giorni. E ricordatevi di regalare le Zigulì al primo bambino che incontrerete uscendo.

4) Prendersi qualche silenziosa rivincita: studi approfonditi (condotti dal sottoscritto in un libro nero appositamente stilato) dimostrano che solo un terzo delle persone che nel tempo avevano malignamente sottolineato la vostra evidente fase espansiva con frasi carine del tipo “abbiamo messo su qualche chiletto, eh?”, troveranno poi il coraggio di notare in maniera altrettanto esplicita la vostra buona forma ritrovata. Il che non vuol dire che non ne se ne siano rese conto, anzi: anche perché poi, nel più dei casi, sono proprio gli stessi individui che ben più di voi necessiterebbero di una qualche mirata ristrutturazione fisica. Limitatevi a salutarli con il migliore dei vostri sorrisi, facendo scivolare lentamente il vostro sguardo sulle loro pancette o sui loro fianchi rotondetti ancora ben saldi al loro posto e ad aggiungere poi con tono innocente un “Tutto bene?”. E godetevi il momento.

Two weeks notes

Sono trascorse soltanto due settimane dall’ultima volta che i miei pensieri bislacchi hanno trovato il loro adeguato spazio nella generale scombinatezza di questa pagina – un periodo infinfluente se messo in relazione, per esempio, con il trascorrere delle ere geologiche, ingiustificabile se confrontato invece con la rapidità con cui vengono aggiornati altri e più seguiti blog – eppure a me pare un’eternità. Non tanto per le comprensibili lamentele o tiratine d’orecchio da parte di chi, inspiegabilmente, si è così affezionato ai contenuti insensati dei miei vari post, da lamentarne in questi giorni l’evidente mancanza o arrivare a manifestarmi tramite social, e.mail o chilometrici sms di richiamo tutta la propria, apprezzatissima, preoccupazione. Quanto perché quella sfuggente e capricciosa entità che è il tempo, ultimamente è sembrata quasi provare un divertimento sadico nell’infarcire le mie giornate recenti di un’insolita concentrazione di piccole e grandi rivoluzioni, di momenti indimenticabili o al contrario drammatici, di entusiasmanti novità e trasformazioni radicali che in genere faticherei a metabolizzare anche nell’arco di un anno intero. Lasciandomi così spesso in balìa di un soffocante senso di stordimento, diviso come sono fra altalenanti attimi di euforia o di pressoché totale sconforto, ingegnandomi come posso ad inseguire la mia esistenza che attualmente necessiterebbe di un’addrizzatina o almeno di una maggiore pianficazione rispetto all’andamento anarchico che sta adesso rivendicando. Inutile aggiungere che a causa di tutto questo trambusto indesiderato sono mancate la concentrazione, la voglia e le energie occorrenti per scrivere qualcosa di vagamente appassionante o anche soltanto di logico. Ed è il motivo per cui, a quindici giorni esatti dalla mia ultima comparsa qua sopra, mi ritrovo ancor oggi privo di un qualsiasi materiale da condividere, eccezion fatta per alcune brevi annotazioni che ho buttato qui alla rinfusa nella remota speranza che potessi svilupparci, chissà quando, un post più articolato, e che vi lascio sotto forma di piccole lezioni quotidiane che ho tratto dalle numerose dis/avventure vissute.

- Credere alla forza ostinata dei propri sogni, infischiandosene di pressioni o ansietà inutili, perché non è mai troppo tardi per cominciare un nuovo percorso, per chiudere un vecchio capitolo, per concretizzare le nostre più intime aspirazioni, perché, come mi ha dimostrato il mio amore, per quanto possano essere alti gli ostacoli posti dalla vita, l’importante è continuare a voler raggiungere il proprio traguardo.

- Ascoltare con la dovuta attenzione chi ti siede, anche casualmente, a fianco, perché le parole altrui sono finestre spalancate su mondi che non pensavamo mai di esplorare, perché le storie e le passioni incarnate dagli altri, fossero anche lo studio del sanscrito o la danza acrobatica con i tessuti, anche se lontanissimi da noi, possono trasformarsi in un arricchimento improvviso ed impensabile per i nostri limitati orizzonti.

- Coccolare i propri ricordi, senza intenti nostalgici o struggenti rimpianti, perché il passato può sempre decidere di ribussare piacevolmente alle nostre porte, perché ritrovare un vecchio affetto o un rapporto d’amicizia trascurato o dimenticato è una magnifica occasione per un altro, inaspettato inizio, o perché dover dire addio a chi a suo tempo ha riempito le tue giornate con la sua risata fragorosa può diventare meno devastante.

- Ringraziare chi decide di coinvolgerti d’un tratto nella sua vita, magari travolgendoti con la disperazione di uno sfogo imprevisto o affidandoti la preziosità di una più intima confidenza, perché per alleggerire ciò che sembra insormontabile a volte è sufficiente solo un cenno col capo, un caffé o un abbraccio. E perché poi un semplice grazie ha un suono bellissimo, e non costa nulla.