Just me and you…

“Vuoi che ti passi dell’insalata?” “No, grazie, non mangio cibi verdi!” “Davvero? Ma pensa, neanch’io!”. Ero incredulo, quasi sconvolto, soprattutto sollevato. Ho perfino provato forte il desiderio di tuffarmi al di là del tavolo dove era seduta anche lei, durante un pranzo fra colleghi, solo per abbracciarla, manifestarle tutta l’improvvisa e sconquassante gioia per la fine dell’attesa pluridecennale di un altro essere umano che pronunciasse quelle stesse, fatidiche parole, esultare in pubblico per il piacevole e inaspettato conforto dovuto alla speranza colmata di ritrovare nei gusti altrui la mia identica e forse un po’ bizzarra consuetudine, universalmente considerata dal 99% degli abitanti del pianeta una stramba e capricciosa rarità. “E le zucchine?” “Dipende da come sono cucinate, ma in genere non mi fanno impazzire” “Uguale! E il radicchio?” “No, ma scherzi? Non sarà verde ma ha quella consistenza lì” abbiamo proseguito nella nostra trascinante ed empatica conversazione, probabilmente suonata un tantinello surreale alle orecchie degli altri presenti, quanto così familiare e gradevolmente prevedibile per me, ipnotizzato com’ero dai suoi racconti su lattuga, spinaci o broccoli, talmente sovrapponibili ai miei stessi aneddoti sull’argomento, da darmi quella gratificante sensazione di riascoltare la melodia di una vecchia canzone imparata un tempo a memoria e mai più sentita per anni. Perché se si è speso inutilmente più dei due terzi della propria esistenza per convincere parenti e amici della fondatezza di quella tua, chiamiamola così, irragionevole repulsione, oltre a tutta la propria infanzia a buttar giù bocconi interi di bietole o cavolfiori da non sfiorare mai neppure con lingua e denti, stufo di esser sempre additato come l’ospite esigente e incontentabile, quello che puntuale, dopo ogni invito a cena, riceve la solita telefonata del tipo “ma neanche i carciofi mangi? e gli asparagi? allora cosa posso cucinarti?”, incontrare la comprensione e la solidarietà di un’altra creatura affetta dalla stessa, forse rara ma comunque esistente, abitudine, equivale a un impagabile attestato di appartenenza ad una delle tante schiere imperfette dell’umanità. E visto che abbiamo tutto da guadagnare dal condividere o dal riscontrare nel prossimo le nostre stesse vulnerabili pecche o le nostre più illogiche manie o consuetudini, anche solo per non sentirsi isolati da una muraglia di singolari usanze erroneamente ritenute fuori dal comune, vi invito, come faccio io di seguito, ad uscire allo scoperto e a raccontare qui tranquillamente tutte le vostre stranezze, con la concreta possibilità che appartengano anche all’insensato repertorio di comportamenti e di azioni bislacche di qualcun altro, fino adesso mai purtroppo incontrato. Ecco le mie:

- I barattoli della cucina (caffé, zucchero, sale, etc) devono essere, sui miei scaffali, sempre pieni fino all’orlo. Già se scendono sotto la metà del proprio contenuto vanno riempiti (meno non se ne parla proprio). E per evitare il rischio del ricambio costante della parte superficiale a discapito di un fondiccio ristagnante a lungo, svuoto con cura ciascun barattolo, lo riempio per circa metà dell’altezza direttamente dalla confezione, per poi riversare di nuovo lì sopra il contenuto tolto poco prima. Almeno un paio di volte a settimana.

- Il volume della tv, dell’autoradio, dello smartphone, di qualsiasi altro diabolico congegno atto a riprodurre suoni deve segnare sempre, e dico sempre, un numero pari, mai dispari. Stessa cosa vale per tutte le mie sveglie: mai potrei sintonizzarle, che so, alle 7.37. Più difficile semmai estendere la stessa discutibile mania agli orologi comuni: voglio dire, se quel minuto è dispari, è dispari. Allora lo fisso a lungo, finché non diventa pari. Poi sto meglio.

- Gli acquisti da porre sul tapis – roulant di una cassa in qualsiasi negozio non saranno mai buttati lì in ordine sparso o, peggio ancora, messi a casaccio, sbilenchi, a formare torri pericolanti di spese da imbustare, ma posti ordinatamente in maniera perpendicolare gli uni agli altri. Come in una sorta di Tetris tridimensionale, le cui pedine sono però scatole di scarpe in saldo, pezzi di mobili impronunciabili dell’Ikea o confezioni d’acqua lievemente gassata. Indicibile è la vastità di espressioni sgomente da parte delle commesse avvistate negli anni.

- Il mio oculista di fiducia ormai se n’è fatto una ragione e mi fissa direttamente l’appuntamento annuale di controllo verso le 6 del pomeriggio, l’ultimo della giornata. Perché tanto prima delle 8 non uscirà di lì: di sicuro gli ci vorranno quelle due ore anche solo per potersi avvicinarsi alle mie pupille, pensiero che a rievocare anche adesso mi provoca sudarelle fredde e nausea. Ebbene sì, più di ogni altra cosa al mondo mi terrorizzano le visite agli occhi: in compenso non batto ciglio di fronte al dentista, sulla cui poltrona riesco spesso ad addormentarmi. Qualcun altro può vantarsi di fare altrettanto?

Will you remember?

Di quella prima presentazione ufficiale ricordo tutto, o quasi. La sua stretta di mano accogliente e vigorosa, l’accento emerso in alcune parole che tradiva inconfondibili origini campane, un piccolo tatuaggio floreale poggiato sul braccio destro, la t – shirt grigia forse azzardata per la giornata pienamente primaverile solo sul calendario. E poi quel gentile ribadire l’offerta di un caffé, le confidenze preoccupate sul crescere veloce dei suoi figli, il malcelato e giustificabile orgoglio per i loro risultati scolastici, alcuni brevi aneddoti perfino troppo personali per essere condivisi con chi, come me, si conosce da soli tre minuti, ma dovuti, credo, al suo percepire il lieve disagio che mi coglie quando entro in un posto nuovo per la prima volta. Era soprattutto il suo viso quasi pittoresco a darmi da pensare, non direi esattamente familiare ma, di certo, già incontrato altrove, così come il suono della sua voce che a poco a poco cominciava a risultare meno sconosciuto alle mie orecchie: sì, l’avevo sicuramente già sentita, avevamo già parlato, forse ad una cena, forse ad una festa di compleanno, anni prima. “Ho incontrato un architetto oggi per lavoro”, racconto appena tornato a casa al mio amore, che, data la metà della sua esistenza al mio fianco e il 90% di una (moderata) vita mondana in comune, può venire incontro alla mia memoria in genere affidabile, quel giorno un tantinello zoppicante. “Sono però sicuro che l’avessi già visto, mi aiuti a ricordare dove?”, ed ecco così fioccare la sua risposta semplice, da persona pratica, che sa puntare dritto al sodo “Va bene, come si chiama?”. Boh. Il nome? Rimosso: niente, vuoto, nada de nada, completamente azzerato, in testa neanche il più banale appiglio, che so, una sola lettera o anche una vaga idea sulla sua lunghezza, che potessero far scattare d’un tratto un’associazione o un’illuminazione improvvisa in me, perso nel frattempo in quell’infinito e sconfortante ventaglio di possibilità anagrafiche esistente fra Leo e Gianmassimiliano.

“Tu registri soprattutto i dettagli” mi fa notare, qualche sera prima, la mia amica Chiara, raggiunta per un aperitivo fra ex – colleghi che abbiamo tentato di organizzare per mesi per poi ritrovarci in quattro (simpatici) gatti, a far quattro (piacevoli) chiacchiere, davanti a quattro (buonissime) birre. “Per esempio, cosa ti ha distratto adesso?” insiste, sottolineando il mio vagare altrove con lo sguardo, ed io “Lo so, stavi parlando, ma c’è quella tizia davanti a noi che si è inerpicata su dei tacchi esagerati e non ci sa proprio camminare, non vedi come si appoggia alle sue amiche?” “Non c’avrei mai fatto caso!” conlcude lei sorridendo. E se avesse semplicemente ragione? Se il mio cervello fosse davvero strutturato per assorbire e catturare solo tonnellate di particolari superflui o di sottigliezze trascurando invece tante altre informazioni che mi tornerebbero più utili o che si potrebbero rivelare necessarie o fondamentali? E’ ciò che mi succede, ad esempio, con i miei, oltre duecento, variopinti studenti di moda, di cui mi è impossibile ricordare tutti i nomi o le singole storie (o anche solo il rendimento), ma che ho ben immagazzinato mentalmente, ripescandoli all’occorrenza nella testa come “quello con i lobi forati da tribù amazzonica”, “quella con gli occhiali dalla grande montatura nera (che, quando toglie, non riconosco mai)”, “quello che alla visita al museo indossava gli scarponcini rosso fuoco” o “quella che non ha mai i capelli dello stesso colore dell’ultima volta o di un solo colore”. Perché poi, il timore, è purtroppo quello di smarrire per sempre, negli oscuri meandri della memoria, fatti, persone, episodi, che a distanza di tempo sarebbe invece comodo o interessante poter riuscire a rievocare o a riutilzzare, proprio come le circostanze e le esperienze, oggi dannatamente fumose, a cui mi è capitato, per caso, di ripensare in questi giorni e che vado qui ad elencare:

- La storia romana, che avevo studiato a fondo per un esame di archeologia e che sono costretto in questi giorni a ripassare per un progetto di lavoro, di cui però sembro aver cancellato ogni minima traccia. Ricordo bene il professore (no, il nome no, figuriamoci), i suoi buffi occhiali con una lente incrinata e malamente rattoppata con lo scotch e il lieve terremoto che ci colpì durante una sua lezione, fra il panico generale e il suo improvviso mutismo.

- Il metodo per fare i calcoli a mano che mi aveva insegnato mia nonna Rina, che ho sognato poche sere fa, e che non metteva in colonna le singole cifre ma riusciva comunque a sbrigare i conti su un foglietto di carta su cui annotava per esteso i numeri. Io ho riprovato proprio ieri a fare una divisione a due cifre, senza calcolatrice, e non sono andato più in là di uno sbilenco incasellamento (programma di terza elementare, credo).

- La ricetta originale del sashimi cucinatomi anni fa a Dublino dal mio amico giapponese Seiichi, che oggi non riuscirei ad eseguire senza ricorrere ad un tutorial ma che avrei potuto memorizzare rubando allora con gli occhi ogni suo gesto. Mentre ricordo solo il suo lento portare al naso gli ingredienti per valutarne la freschezza e il suo singolare quaderno illustrato di ricette, fatto di foto scattate a tavola e di pochi ideogrammi appuntati lì a fianco.

- Le circostanze esatte in cui ho conosciuto le solite tre (sempre le stesse, poi) arcigne pseudocolleghe che incontro una o due volte all’anno ai soliti eventi e che continuano invece a ripresentarsi come se non ci fossimo mai visti prima. Perché è scocciante dire “Sì, ci conosciamo”, senza poter precisare l’occasione in cui il fatto è avvenuto. E anche perché mi pare inconcepibile che alcuni costanti dettagli, come la mia pelata, i miei occhialoni o il mio accento non vengano riconosciuti al volo…possibile?

Così lontano, così vicino…

La prima cosa che ti sorprende in Elena è il suo spiccato e un po’ cinico senso dell’umorismo, il tempismo perfetto delle sue battute taglienti, quell’ironia sottile e sferzante che solo le vere persone di spirito riescono, con leggerezza ed irresistibile efficacia, a rivolgere ugualmente a sé come agli altri. Una qualità rara ed apprezzabile che a prima vista sembra perfino cozzare con il suo aspetto discreto e sempre naturale, i capelli nerissimi ad incornicare lo sguardo vitale e liquido, la voce inaspettatamente acuta e melodiosa, un simpatico rossore ad invaderle il viso quando, suo malgrado, si trova all’improvviso al centro dell’attenzione. Evitando quei lunghi e complicati giri di parole necessari per descrivere la nostra semi-parentela (è la sorella del compagno di mia sorella), io ed Elena ci chiamiamo fra noi, più semplicemente, Brother e Sister, anzi, da cinque anni a questa parte, da quando condividiamo cioè la gioia (e talvolta il faticoso babysitteraggio) di una splendida nipote, Giulia, peperina e attaccabottoni con chicchessia, Elena è diventata per tutti (nostra nipote compresa) l’adorata e insostituibile “zia Sister”. Quella che, puntuale, ad ogni cena o compleanno in famiglia, prepara torte così golose ed esteticamente impeccabili che paiono appena uscite dal manuale di Nonna Papera, quella che mostra energia e pazienza smisurate di fronte ai giochi fantasiosi proposti da Giulia (come il suo preferito “la principessa e il popotamo”…indovinate il mio ruolo? Purtroppo no, non la principessa), quella che riesce a non perdere mai le staffe persino di fronte ai suoi inevitabili capricci a tavola o alla normalissima, infantile ed infinita ciclicità delle sue richieste di cinquenne (“giochiamo? perché? e adesso giochiamo?”). In Elena ho trovato una delle compagnie migliori per assistere ai concerti, perché entrambi detestiamo immersioni soffocanti nella folla, preferendo di gran lunga gustare lo spettacolo arretrati o in disparte (spesso vicino ai bagni) dove c’è tutto lo spazio per ballare, saltellare, azzardare coreografie tra le più improbabili, da eseguire al contrario con il necessario condimento di espressioni serie e impegnatissime. Di Elena apprezzo l’immediata sincerità di parere, il lessico ricco e minuzioso che emerge in discorsi talvolta venati di malinconia, la cultura sterminata in fatto di cinema, l’apertura e la curiosità in campo artistico, che le è costata più di una visita nel museo di moda con cui collaboro (e dove l’ultima volta l’ho sfinita con una digressione di mezz’ora sulla differenza tra jeans e denim) e un’originalissima serata in un’installazione all’aperto, un labirinto realizzato con sole balle di fieno, da cui siamo usciti dopo lungo tempo, con residui di paglia tra i capelli (i suoi) e sugli abiti (di entrambi), tra le risate, la stanchezza, la tentazione assecondata di scattarci un selfie (che non allego per motivi di decenza).

Con Elena condivido anche la passione sconfinata per l’azzurro del mare ed i continui tentativi di incursione lavorativa nel campo del giornalismo, ma rispetto alla superficialità dei miei settori di competenza, abbigliamento e poco più, lei si è specializzata in un ramo ai miei occhi tra i più tosti e seri esistenti, quello delle relazioni internazionali, motivo del suo saluto, qualche mese fa, per andare a seguire un’interessante e indubbiamente gratificante opportunità di crescita professionale fuori dall’Italia: a Bruxelles. Venire a conoscenza dell’orrore e dell’insensata atrocità dei recenti attentati al riparo delle tue mura domestiche, in un altro paese, a contatto con le sole immagini e notizie terrificanti che a poco a poco arrivano a riempire lo schermo televisivo, provoca un senso di indicibile sgomento misto all’egoistico sollievo per la fortuna di trovarsi al momento altrove. Contemplare invece la possibilità che la furia assassina possa coinvolgere anche i tuoi affetti, insinuarsi così in qualche modo nella tua ben più tranquilla quotidianità per arrivare a stravolgerla, infilitrarsi tra le pieghe della tua stessa esistenza, ti costringe a fare i conti con una paura ancor più vera e paralizzante, con un dolore cieco, con un’angoscia implacabile e impotente che non credevi di poter mai provare per quelle stesse ragioni. La mattina degli attentati, tra la frammentarietà di notizie che giungevano dal Belgio, tra l’eco crescente dei nomi drammaticamente citati di posti che Elena ormai frequenta da qualche tempo (la stazione della metro di Maelbeek a due passi dal suo luogo di lavoro, il suo volo di ritorno fissato solo per il giorno seguente), è stato un continuo e sfibrante tam tam di messaggi, di aggiornamenti costanti sulle sue condizioni, un coro di rassicurazioni, a volte date sdrammatizzando, nascondendo, per quanto possibile, preoccupazione e nervosismo. Elena ieri è riuscita a tornare finalmente in Italia, dopo che un improvvisato e notturno viaggio in navetta di dieci ore giù per l’Europa ha rimpiazzato il suo volo cancellato, e abbiamo così potuto tutti alleggerire l’improvvisa e sgradita tensione di questi giorni riabbracciandola, compresa nostra nipote, che pur non sapendo niente dell’accaduto, non l’ha mollata, al solito, per un solo secondo. Elena soprattutto, in barba ad ogni più logica previsione e forse contro il comune buonsenso, ha deciso comunque di ripartire, fra pochi giorni, per il suo ultimo mese di impegni a Bruxelles: perché non piegarsi all’insensatezza di simili atrocità, rifiutarsi di cambiare una sola virgola delle nostre più semplici abitudini o decidere di godersi, nonostante tutto, quell’opportunità che ci siamo meritati è la risposta più giusta e coraggiosa che dobbiamo a noi stessi, tra la barbarie e la follia incomprensibile di questi, così tragici, momenti.

Ed io tra di voi…

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“Ancora non hai scritto niente? Ma è finita quasi una settimana fa!” esordisce con tono severo il mio amore, durante la prima delle nostre innumerevoli e spesso improbabili conversazioni telefoniche quotidiane, rinunciando anche stavolta alla prevedibilità di un frasario minimo che la natura del nostro rapporto invece richiederebbe (tipo “Ciao, come stai? Dove sei? “Quando torni?”, cose così). “Lo so, ma vedi, il lavoro, i viaggi, il tempo, la stanchezza…” tento di farfugliare io a mia discolpa, acciuffando le prime parole transitate in mente ad un orario che d’altronde ancora non mi permette di articolare frasi di maggior senso compiuto, “Niente scuse. Un vero fashion blogger non avrebbe tardato così tanto!”. Già, un “vero” fashion blogger, eccolo il punto. Una figura mediatica stuzzicante, forse, all’importanza odierna del cui ruolo, però, diciamocelo francamente, in fin dei conti non ho mai aspirato, perché ritenuta così lontana da me per indole, necessità di presenzialismo, vocazione alla stravaganza. Un’etichetta invece, di cui mi ritrovo, mio malgrado, rivestito, ad ogni appuntamento a cui accorro oltretutto volentieri data la natura delle mie competenze e delle mie collaborazioni (moda, costume e dintorni), ma che, in quanto autore di questo modesto spazio online finisce appunto con il relegarmi nel più vasto, variopinto e per me disagevole “calderone” dei fashion blogger. Come è successo di nuovo per l’ultima edizione di Altaroma, la tradizionale vetrina di haute couture nostrana, un concentrato di sfilate, eventi, presentazioni di moda che hanno animato per tre giorni, dal 29 al 31 Gennaio scorsi, soprattutto il volto post – industriale dell’Ex dogana ferroviaria di San Lorenzo: un palcoscenico coraggioso e azzeccato in cui ambientare gran parte della kermesse fino ad ampliarne il senso stesso, per porlo, anche visivamente, ben oltre la Roma sfarzosa e barocca dei palazzi nobiliari, facendone a sorpresa una capitale che può e deve nutrirsi, anche nella moda, di sperimentazione e contemporaneità. Una scelta quella della location, inutile nasconderlo, che ha sollevato in corso più di un dubbio o malumore (“Sai dove siamo qui?” mi fa un collega di fronte a un caffè “Nel quartiere storico dei centri sociali, capisci? Hai provato a farti un giro intorno?”. Beh sì, l’ho fatto subito dopo, grazie del consiglio. Ma non mi sono imbattuto in nessun “pericolo comunista”, solo in viuzze ed edifici dal fascino decadente), ma che è apparsa quantomeno necessaria ad una manifestazione come Altaroma intenzionata a cambiar pelle e quindi sempre più focalizzata nella promozione di giovani talenti, forse altrove facilmente azzerati dall’ingombro di un’opulenza estetica poco in linea con le loro stesse ricerche nel campo.

Di sicuro, di poco adatto all’intera situazione, c’era come al solito l’eccessivo rigore del mio look, (un paio di maglioncini del medesimo tono “ceruleo” da protagonista sfigata de Il Diavolo veste Prada, l’immancabile coppola di un brand low – cost da non sbandierare nell’etichetta per non turbare tutti gli altri presenti): pensiero condiviso perfino dai diversi addetti alla security o dalle solerti assistenti lì al lavoro che non perdevano occasione di intercettarmi ogni cinque metri per chiedermi di mostrar loro il pass nominativo con il regolare accredito, trattamento di rado visto riservato ai vari altri tizi che si aggiravano nei medesimi luoghi con gilet di paillettes, stivaletti tempestati di strass o cappellini svettanti di piume (l’esuberanza decorativa, si sa, viene sempre interpretata come la miglior garanzia di appartenenza al settore). A risollevarmi il morale ci hanno pensato, per fortuna, le interessanti intuizioni viste nelle varie collezioni, dalla raffinata disinvoltura di accostamenti cromatici e materici ad opera del duo creativo Greta Boldini, alla purezza scultorea delle borse di Avanblanc (degno di menzione anche il labirintico allestimento in legno studiato per l’intera sezione espositiva degli accessori), dai colletti e dai ricami di sapore surrealista audacemente poggiati sulle creazioni di Luca Sciascia, alla sfilata più sorprendente e innovativa, quella firmata dal giovanissimo Giuseppe di Morabito (nella foto), nuovo portavoce di una visione di stile senza dubbio coerente e quasi pittorica. Da segnalare, tra i nomi più accreditati, anche quello di Sabrina Persechino, per l’originale ispirazione alla figura mitologica di Aracne esplicitamente dichiarata nei suoi capi, tanto più effervescenti per il giorno, quanto più tradizionalmente austeri per la sera, nonostante gli studiati squarci di nudo ad infiammare la collezione e nonostante che dal posto assegnatomi, in linea del resto con la natura poco autorevole di questo blog, riuscissi a vedere per lo più l’acconciatura delle modelle e qualche schiena vip in prima fila (tra cui Tosca d’Aquino, la più elegante dell’intera kermesse, a mio modestissimo parere). Motivo per cui, nella mia prossima necessaria e stravagante tenuta da fashion blogger, prenderò forse di più in considerazione l’ipotesi di indossare un salvifico binocolo da opera che un qualche accessorio bizzarro, luccicante o ben identificabile da lontano.

Corde autunnali…

Michele ha poco più di quarant’anni, una buona percentuale di sangue partenopeo nelle vene, un’invidiabile cultura da autodidatta in filosofia e discipline orientali, quattro splendidi figli maschi dalla medesima corporatura sottile e longilinea e una compagna simpaticamente brontolona, da lui stesso talvolta ribattezzata Santippe, come la più nota moglie di Socrate. Per lavoro guida i mezzi pubblici, compreso il 28 che è un lungo mostro a due vetture snodabile nel centro, impossibile da manovrare con quella calma poi che a lui invece non sembra mai venir meno al volante neppure in mezzo al traffico più infernale, e quando capita che mi incroci per strada con il bus ecco che attacca a suonare il clacson in maniera insistente, affacciandosi contemporaneamente dal finestrino per urlarmi sempre qualcosa di cui negli istanti seguenti mi vergognerò tantissimo, una volta lì da solo sul marciapiede. Oppure, se riesco a beccarlo sulla linea che dal sovraffollato centro cittadino mi riaccompagna nella località piatta e semisperduta in cui vivo, rimango per tutto il viaggio in piedi accanto a lui, riempiendolo di chiacchiere in barba al divieto di non disturbare il conducente e agli sbuffi delle tante vecchiette timorose di saltare la propria fermata, stessa cosa che accade anche quando le nostre due dolci metà, colleghi di lavoro, nel passeggiare ci lasciano sempre una decina di metri indietro per aggiornarsi reciprocamente su vari gossip di persone a noi ignote, che loro riescono, non si sa come, ad individuare con semplici frasi del tipo “Hai saputo più niente di cosa, quella? Sì, brava, proprio lei!”. Proprio come l’altra sera quando, su di un Ponte Vecchio reso quasi impraticabile dalle decine di turisti che accerchiavano tutti esultanti un musicista di strada, Michele mi fa d’un tratto “Ah, mi sono iscritto in palestra ad un corso di grappling, hai presente?” “Certo che no!” “Conosci forse il jiu jitsu brasiliano, le MMA?” “Benissimo, guarda…ma no, di cosa diamine stiamo parlando?” “Vabbè, te la faccio semplice, è un tipo di lotta in cui devi costringere a terra l’avversario. La cosa interessante è che fa proprio per me, peccato averla scoperta un po’ tardi!”. Adesso, al di là della mia plateale ignoranza in materia sportiva, fermo restando che non esista un limite temporale per seguire o assecondare una nuova passione o lo sbocciare di nuovo interesse, è pur vero che nessuno è eterno e tra le infinite possibilità quotidianamente alla nostra portata qualcosa tocca pur scegliere, escludendo magari in questo modo altre centinaia di attività o ambiti in cui potremmo comunque riuscire o che forse sarebbero addirittura i più vicini alle nostre reali corde. Motivo per cui, complice l’incalzare dell’autunno e della necessità di un minimo di riordino esistenziale, ho stilato un breve elenco delle strade da me nel tempo in qualche modo sfiorate e poi ignorate o abbandonate del tutto per pigrizia, distrazione, vigliaccheria, e che sarebbe invece il caso di ripercorrere prima o poi, se non altro per aver avuto allora la lieve percezione di poterle tranquillamente intraprendere, anche con un certo grado di soddisfazione:

- imparare il portoghese, non dico alla perfezione, ma quel tanto che basterebbe a sostenere delle conversazioni comprensibili, perché potersi esprimere in altre lingue così come individuare punti di contatto con l’etimologia di tante parole l’ho sempre trovato esaltante e perché con Viviane, la mia amica brasiliana trasferitasi in Portogallo e conosciuta soltanto la scorsa estate ho intavolato, con il mio spagnolo scarso e qualche vago ricordo di latino, lunghe, pittoresche e talvolta improbabili chiacchierate.

- fare di nuovo un viaggio con mia sorella, circostanza che non accade da venti anni esatti, all’epoca cioè della foto ancora oggi ben visibile in casa dei miei e che ci ritrae abbracciati sotto l’Eretteo sull’acropoli di Atene, lei allora bionda (in realtà castana), io con ridicola capigliatura scolpita dal gel (e ho detto tutto), perché, tranne il mio amore che quando si trova con me in vacanza non si ferma un secondo neanche se inchiodato al suolo, è l’unica persona che riesca a rispettare e a sostenere le mie sfiancanti tabelle di marcia.

- tornare ad insegnare, anche se è un impegno foriero di incognite e di gigantesche e schiaccianti responsabilità, e anche se, probabilmente, in questa vita non vincerò mai il profondo disagio che mi suscita il sentirmi chiamare “profe”, perché un’ex-allieva incontrata per caso passeggiando per le vie di Trastevere nel venirmi incontro mi ha salutato amorevolmente come “quello a cui devo tutto”, esperienza senza dubbio tra le più gratificanti di tutta la mia intera esistenza.

- riprendere a scrivere con più assiduità, qui sopra o anche altrove, perché per quanto il lavoro e gli appuntamenti quotidiani mi prendano gran parte delle energie e degli spazi vitali, alla fine la scrittura è forse la sola realtà in cui riesca a sentirmi comodo, e perché il buio delle serate autunnali tornerà ad ingolfarmi di pensieri la testa che devo poi necessariamente alleggerire per iscritto. Con l’approvazione, spero, di chi ancora vorrà seguirmi.