Will you remember?

Di quella prima presentazione ufficiale ricordo tutto, o quasi. La sua stretta di mano accogliente e vigorosa, l’accento emerso in alcune parole che tradiva inconfondibili origini campane, un piccolo tatuaggio floreale poggiato sul braccio destro, la t – shirt grigia forse azzardata per la giornata pienamente primaverile solo sul calendario. E poi quel gentile ribadire l’offerta di un caffé, le confidenze preoccupate sul crescere veloce dei suoi figli, il malcelato e giustificabile orgoglio per i loro risultati scolastici, alcuni brevi aneddoti perfino troppo personali per essere condivisi con chi, come me, si conosce da soli tre minuti, ma dovuti, credo, al suo percepire il lieve disagio che mi coglie quando entro in un posto nuovo per la prima volta. Era soprattutto il suo viso quasi pittoresco a darmi da pensare, non direi esattamente familiare ma, di certo, già incontrato altrove, così come il suono della sua voce che a poco a poco cominciava a risultare meno sconosciuto alle mie orecchie: sì, l’avevo sicuramente già sentita, avevamo già parlato, forse ad una cena, forse ad una festa di compleanno, anni prima. “Ho incontrato un architetto oggi per lavoro”, racconto appena tornato a casa al mio amore, che, data la metà della sua esistenza al mio fianco e il 90% di una (moderata) vita mondana in comune, può venire incontro alla mia memoria in genere affidabile, quel giorno un tantinello zoppicante. “Sono però sicuro che l’avessi già visto, mi aiuti a ricordare dove?”, ed ecco così fioccare la sua risposta semplice, da persona pratica, che sa puntare dritto al sodo “Va bene, come si chiama?”. Boh. Il nome? Rimosso: niente, vuoto, nada de nada, completamente azzerato, in testa neanche il più banale appiglio, che so, una sola lettera o anche una vaga idea sulla sua lunghezza, che potessero far scattare d’un tratto un’associazione o un’illuminazione improvvisa in me, perso nel frattempo in quell’infinito e sconfortante ventaglio di possibilità anagrafiche esistente fra Leo e Gianmassimiliano.

“Tu registri soprattutto i dettagli” mi fa notare, qualche sera prima, la mia amica Chiara, raggiunta per un aperitivo fra ex – colleghi che abbiamo tentato di organizzare per mesi per poi ritrovarci in quattro (simpatici) gatti, a far quattro (piacevoli) chiacchiere, davanti a quattro (buonissime) birre. “Per esempio, cosa ti ha distratto adesso?” insiste, sottolineando il mio vagare altrove con lo sguardo, ed io “Lo so, stavi parlando, ma c’è quella tizia davanti a noi che si è inerpicata su dei tacchi esagerati e non ci sa proprio camminare, non vedi come si appoggia alle sue amiche?” “Non c’avrei mai fatto caso!” conlcude lei sorridendo. E se avesse semplicemente ragione? Se il mio cervello fosse davvero strutturato per assorbire e catturare solo tonnellate di particolari superflui o di sottigliezze trascurando invece tante altre informazioni che mi tornerebbero più utili o che si potrebbero rivelare necessarie o fondamentali? E’ ciò che mi succede, ad esempio, con i miei, oltre duecento, variopinti studenti di moda, di cui mi è impossibile ricordare tutti i nomi o le singole storie (o anche solo il rendimento), ma che ho ben immagazzinato mentalmente, ripescandoli all’occorrenza nella testa come “quello con i lobi forati da tribù amazzonica”, “quella con gli occhiali dalla grande montatura nera (che, quando toglie, non riconosco mai)”, “quello che alla visita al museo indossava gli scarponcini rosso fuoco” o “quella che non ha mai i capelli dello stesso colore dell’ultima volta o di un solo colore”. Perché poi, il timore, è purtroppo quello di smarrire per sempre, negli oscuri meandri della memoria, fatti, persone, episodi, che a distanza di tempo sarebbe invece comodo o interessante poter riuscire a rievocare o a riutilzzare, proprio come le circostanze e le esperienze, oggi dannatamente fumose, a cui mi è capitato, per caso, di ripensare in questi giorni e che vado qui ad elencare:

- La storia romana, che avevo studiato a fondo per un esame di archeologia e che sono costretto in questi giorni a ripassare per un progetto di lavoro, di cui però sembro aver cancellato ogni minima traccia. Ricordo bene il professore (no, il nome no, figuriamoci), i suoi buffi occhiali con una lente incrinata e malamente rattoppata con lo scotch e il lieve terremoto che ci colpì durante una sua lezione, fra il panico generale e il suo improvviso mutismo.

- Il metodo per fare i calcoli a mano che mi aveva insegnato mia nonna Rina, che ho sognato poche sere fa, e che non metteva in colonna le singole cifre ma riusciva comunque a sbrigare i conti su un foglietto di carta su cui annotava per esteso i numeri. Io ho riprovato proprio ieri a fare una divisione a due cifre, senza calcolatrice, e non sono andato più in là di uno sbilenco incasellamento (programma di terza elementare, credo).

- La ricetta originale del sashimi cucinatomi anni fa a Dublino dal mio amico giapponese Seiichi, che oggi non riuscirei ad eseguire senza ricorrere ad un tutorial ma che avrei potuto memorizzare rubando allora con gli occhi ogni suo gesto. Mentre ricordo solo il suo lento portare al naso gli ingredienti per valutarne la freschezza e il suo singolare quaderno illustrato di ricette, fatto di foto scattate a tavola e di pochi ideogrammi appuntati lì a fianco.

- Le circostanze esatte in cui ho conosciuto le solite tre (sempre le stesse, poi) arcigne pseudocolleghe che incontro una o due volte all’anno ai soliti eventi e che continuano invece a ripresentarsi come se non ci fossimo mai visti prima. Perché è scocciante dire “Sì, ci conosciamo”, senza poter precisare l’occasione in cui il fatto è avvenuto. E anche perché mi pare inconcepibile che alcuni costanti dettagli, come la mia pelata, i miei occhialoni o il mio accento non vengano riconosciuti al volo…possibile?

Non dimenticar…

Sento una terribile botta in testa. Sto per perdere l’equilibrio, mi volto, riconosco un manico di scopa, un muretto di sassi irregolari e giallognoli, forse quello che c’è tuttora di fronte casa di mia nonna. Ecco arrivare mia madre, di sicuro mi ha sentito piangere, ha i capelli nascosti da un foulard bianco, coi fiori, trattiene a stento una risata mentre mi ripete “Non ti sei fatto niente”. Poi affondo nel suo abbraccio, con le guance ancora solcate dalle lacrime. E’ il mio primo ricordo, le prime immagini registrate dalla mia testa dopo il nulla più totale. Lo so, non sembra un granché come inizio. Voglio dire, ho sentito milioni di altri racconti più avvincenti o poetici: ho amici e conoscenti che vanno narrando episodi scanditi da sassi lanciati in riva al mare, da soavi ninne nanne sussurrate nei lettini, da canzoncine buffe e allegri girotondi imparati ai tempi dell’asilo. La mia vita comincia invece con l’entusiasmante vicenda di un bernoccolo. Che poi, vallo a sapere, non sarà stato neanche il primo in senso stretto. A dire il vero non ho mai neppure capito contro cosa di preciso sia andato a sbattere. Di certo c’è solo che a ripercorrere il tutto con gli occhi di oggi, potrebbe quasi sembrare una chiara anticipazione di quello che sarei stato in futuro: un imbranato, sin dai primi passi. Pazienza, mi rifarò certamente nella prossima esistenza, quella da disinvolto/supersicurodise’/strafigo (posso aggiungere anche capellone?) in cui mi reincarnerò, vendicandomi di questa prima vita condita da qualche timore, mania, fobia (e calvizie) di troppo. Per fortuna, nonostante l’innumerevole sequenza di altri drammatici capitomboli e tonfi sonori, veri e metaforici, che hanno costellato i miei primi 29 (o giù di lì) anni, devo ammettere di conservare, come tutti, anche una discreta quantità di ricordi altrettanto piacevoli. Fotogrammi non sempre così nitidi, volti che a ritroso nel tempo si fanno a poco a poco più indefiniti, che però compongono quel prezioso e intricato puzzle della memoria, e che troverei a dir poco spaventoso se andasse in parte perduto o se venisse intaccato, anche in un solo singolo tassello.

Eppure, incredibile a dirsi, sono diversi gli studi internazionali che sembrano muoversi in questo senso. Ricerche, di sicuro motivate da nobilissime finalità, ci mancherebbe, che tuttavia, condotte per il momento (e fortunatamente) soltanto sui topi, puntano a manipolare il bagaglio di esperienze immagazzinate nel cervello, a modificare qua e là la memoria, a tagliuzzare o resettare vita passata e background. Insomma, senza girarci troppo intorno, il futuro visionario immaginato da Michel Gondry nel suo celeberrimo Se mi lasci ti cancello non pare più così assurdo né tantomeno lontano: rendere alla portata di tutti la possibilità di rimuovere artificialmente i ricordi. Perché, a voler essere più precisi, il tentativo è proprio quello di mettere a punto farmaci capaci di spazzar via la rievocazione di eventi causa di stress o di forti traumi, in maniera mirata, senza alcun danno collaterale ( http://www.journals.elsevier.com/biological-psychiatry/ http://www.huffingtonpost.it/2013/09/13/cancellare-ricordi_n_3920170.html ). Partendo proprio dalla certezza acquisita che siano i momenti più tragici a imprimersi per sempre nella testa. Tanto per fare un esempio scemo, proprio come quel luogo comune che vorrebbe tutti memori di dove ci si trovasse esattamente l’11 Settembre nel momento degli attentati alle Torri Gemelle. Il mio amore, sempre controcorrente, difatti non lo ricorda. No, non era con me, io ero in fila in segreteria all’Università a consegnare la domanda di tesi (circostanza che, se avvenuta in un altro giorno, avrei rievocato con molto più piacere). Mentre spero che la sua amnesia non sia dovuta all’essersi trovato allora in compagnia di uno dei tanti amanti che le mie fantasie di essere geloso gli hanno nel tempo attribuito. Ma senza divagare sulle tormentate paranoie del blogger e per ritornare all’argomento principale di questo post, trovo sinceramente sconcertante un simile studio. Non tanto per la banale constatazione che il dolore alla fine faccia parte della vita stessa, e il volerlo escludere, anche solo in parte, conduca forse a un’esistenza a metà, falsata, da noioso fotoromanzo. Quanto perché è proprio di fronte all’oscurità improvvisa di certi drammi e alla paura delle tragedie che facciamo i conti soprattutto con noi stessi, che misuriamo le nostre debolezze o più spesso, ci scopriamo inaspettatamente forti, coraggiosi, combattivi. Che ammettiamo, nonostante tutto, di essere più tenaci di quanto avremmo mai potuto pensare. Perfino più tenaci di tutti i nostri ricordi.