Felice? Mi piace!

In fin dei conti è una banalissima domanda, ma in genere il doverle rispondere mi mette in seria difficoltà. Quando qualcuno, con fare diretto o con disarmante schiettezza, mi chiede “tu sei felice?” ecco che replico perdendomi in migliaia di labirintiche e articolate premesse, un po’ come faccio qua sopra con l’inizio di tutti i miei post. Il motivo di tanta esitazione risiede a dire il vero nella mia incapacità di trovare pienamente adeguato un semplice monosillabo (sì, no, boh), perché convinto che la parola “felicità” non si applichi poi con altrettanta facilità, nella vita di tutti i giorni, a così tante situazioni ed emozioni. Non credo infatti che tale, appagante sensazione, il fine ultimo, in teoria, di ciascuna umana esistenza, corrisponda poi ad uno stato d’animo duraturo o prolungato nel tempo, una sensazione cioè di vivificante e pieno benessere mentale in grado di estendersi poi per chissà quanto: quella, semmai, sarebbe più opportuno definirla serenità, ed è una condizione della psiche altrettanto auspicabile, forse perfino più importante, senza dubbio ugualmente difficile da mantenere. Personalmente ritengo che la felicità vera e propria si manifesti all’improvviso, frammentata in pochi, intensi, attimi, di valore peraltro soggettivo, e il riconoscerla in quel preciso istante, nella sua fugace e sconquassante epifania, sia il segreto più profondo per poterne godere appieno. E’ di preciso ciò che mi succede quando il mio amore, che si alza per lavoro al mattino sempre prima di me, mi lascia la tavola apparecchiata per la colazione, con il caffè ancora fumante, e un bigliettino romantico del tipo “Buongiorno. Ricordati di avviare la lavastoviglie”. E’ mia nipote di due anni che prova a ripetere il mio nome, e lo riduce a una sequenza di sillabe impronunciabili, arricciando il naso e aggiungendo il suo sorrisone sgangherato e soddisfatto, come a dire “Visto brava?”. Sono i miei genitori, che raggiungo nel loro curatissimo orticello, a due passi dal mare, con mia madre che gongola nel mostrarmi le rose rosse rampicanti che le ho regalato da poco e che adesso occupano rigogliose un intero pergolato. E’ il riuscire finalmente a vedere con i miei occhi un’opera o un luogo che ho sempre sognato di visitare, come mi è successo la prima volta al cospetto degli affreschi michelangioleschi della Sistina o con i marmi del Partenone al British Museum, con il Partenone stesso o con capo d’Orso a Palau, in Sardegna, o con il profilo massiccio del monte Saint Victoire, lo stesso immortalato in decine di tele da Paul Cézanne; e la loro dimensione sempre fuori scala, troppo imponente o troppo smisurata per ciò che alla fine è la mia limitata immaginazione, mi lascia senza fiato, a bocca aperta, in uno stato di inebriante e indescrivibile vertigine.

L’ultima volta che ho pensato ”adesso sono felice”, risale, per fortuna, solo a pochi giorni fa. Riuscito nell’ardua impresa di incastrare qualche meritato pomeriggio di riposo, secondo un programma difficilissimo da stilare, in base ai diversi impegni di lavoro e alla vita frenetica della suddetta dolce metà, ci concediamo, sfiniti, un po’ di tregua al mare. Approdati su una spiaggia appartata in una giornata particolarmente afosa, ci rendiamo conto che su un chilometro scarso di litorale, dall’acqua incredibilmente cristallina, siamo i soli. A coronare l’idillio da Laguna Blu, ecco guizzare dalle onde una coppia di delfini che si rincorrono sulla superficie azzurra per qualche minuto, offrendo lo spettacolo della loro sagoma sinuosa ai riflessi dorati del sole e ai nostri sguardi increduli. Un momento magico e perfetto: neppure la sceneggiatura più melensa di una romantica commedia rosa o di una stucchevole telenovela sudamericana avrebbe potuto fare di meglio. Certo, ho pensato subito dopo, se mi fossi azzardato a condividere seduta stante su Facebook o su qualsiasi altro social ciò che mi stava accadendo in quel preciso attimo, non solo avrei sciupato la poesia di una situazione da godere preferibilmente nel privato, ma, conoscendo lo spirito sarcastico dei miei contatti, avrei ottenuto commenti del tipo “Sì, certo, chissà che ti sarai fumato”, oppure “Io invece sto con Moira, le colombe e gli elefanti!”. Ci riflettevo quello stesso pomeriggio, quando, intento nella mia nullafacenza da spiaggia e immerso nelle mie solite letture da sotto l’ombrellone, venivo a conoscenza, dalle pagine di un noto quotidiano, dell’esistenza di un nuovo social network interamente dedicato alla condivisione esclusiva dei momenti di felicità, dal nome assai poco equivocabile, Happier (https://www.happier.com/). Certo, una valida alternativa a chi non ne può proprio più degli sfoghi infiniti, spesso esagerati e talvolta inopportuni che regnano incontrastati su Facebook o delle liti animose, delle cattiverie gratuite o delle polemiche dagli strascichi settimanali che fanno invece la fortuna di Twitter. L’intuzione, senza dubbio originale, è di una cittadina statunitense, di origine sovietica, che risponde al nome di Nataly Kogan e che forse, raccoglierà numerosi proseliti tra chi è più propenso (e sicuramente ce ne sono tanti) a dipingere, anche solo virtualmente, la propria esistenza come tutta rose e fiori, o almeno a coglierne, sempre e in ogni occasione, il lato positivo. La domanda però è: seguireste davvero un siffatto contenitore online di sole amenità? Per quanto mi riguarda, la risposta, lampante, è arrivata stavolta in meno tre secondi: no. No perché provo infinitamente più empatia con chi si adira, si lagna, si espone senza riserve con le proprie debolezze, i propri difetti, i propri immancabili lati vulnerabili. No perché reputo di gran lunga più divertenti, fantasiosi, degni di attenzione i moti di rabbia, di sconforto, di smarrimento, conditi dalla giusta dose di ironia e di sarcasmo. No perché la vita sarà pure una folle corsa per inseguire la felicità; senza dimenticare che, soprattutto, è ciò che invece accade tra un vano tentativo e l’altro.

Stiamo freschi!

A causa di uno strampalato, e per questo inconsueto, spirito d’osservazione, motivato dalla mia singolare inclinazione a memorizzare, perché affascinato, certi dettagli superficiali, ho maturato nel tempo la seguente convinzione: le donne che ostentano i tagli di capelli e le acconciature più bizzarre o coraggiose, talvolta al limite di un comune e accettabile buon gusto, appartengono, nella maggior parte dei casi, a due sole categorie professionali, le infermiere e le giornaliste di moda. Per quanto riguarda le prime credo che ciò derivi dall’inevitabile monotonia dovuta all’indossare tutti i giorni un necessario quanto mortificante camice, ragion per cui, se vuoi azzardare un minimo tocco d’estro, puoi solamente intervenire mutando le “estremità” della tua figura, cioè la testa (e quindi i capelli) e i piedi (già penalizzati da quegli zoccoli, orrendi e comodi, guarda caso, diventati negli anni sempre più coloratissimi). Per le seconde si tratta invece di ribadire, attraverso la personalizzazione del proprio look, un ruolo preciso e un determinato status quo: in un ambiente in cui la parola d’ordine è cambiamento e tutto si trasforma, di continuo, a ritmi vorticosi, l’immutabilità di un’acconciatura, posta al di là delle mode passeggere (quindi d’ispirazione rétro o al contrario volutamente kitsch) può diventare sinonimo di immediata riconoscibilità, etichettando all’impronta una professionista “super partes”, immune al variare delle tendenze, e per questo in grado di giudicarle. Basti pensare al solito, imperituro e comunque inadatto all’irregolarità del suo viso, caschetto geometrico di Anna Wintour, dispotico e strapagato direttore di Vogue Usa, o alla languida pettinatura, tutta onde anni ’40, un po’ Milly Carlucci vecchia maniera, di Franca Sozzani (che la leggenda vuole frutto di un lavoro certosino di un hair – stylist quotidianamente incaricato di stirarle i ricci), per non parlare del fiammante taglio di sapore punk, da porcospino psichedelico, esibito dall’onnipresente-in-tv-e-su-qualsiasi-altro-magazine Giusi Ferré. Ma la palma per l’originalità e, perché no, per la tenuta di taglio, spetta senza dubbio al ciuffo rockabilly, (cioè a banana, per intenderci), di quelli che avrebbero fatto impallidire perfino James Dean, da decenni campeggiante sulla testa dell’autorevole firma dell’International Herald Tribune, Suzy Menkes (foto allegata).

Per chi mastica un po’ di moda Suzy Menkes non è semplicemente una brava giornalista esperta in materia. E’ “la” giornalista di moda per antonomasia; colei che tutti gli stilisti temono, che tutte le altre giornaliste stimano (o forse invidiano), colei che chiunque voglia fare questo mestiere ha sognato almeno una volta di poter incontrare, intervistare, perché no, scalzare od offuscare. Io ho avuto il privilegio di parlarle soltanto due sole volte nell’arco della mia esistenza e dei miei infiniti 15 anni di gavetta (ah, già, quanti anni vi avevo detto di avere? Vabbè, ho cominciato molto presto!). La prima volta successe per una casualità inaspettata, essendoci ritrovati fianco a fianco, in un’affollatissima stazione, sotto un implacabile tabellone luminoso che annunciava il nostro treno in arrivo con quasi due ore di ritardo. “Anche lei va per caso a Milano?” mi chiese in un timido ma corretto italiano, ed io, reagendo proprio come farebbe un teenager qualsiasi di fronte al proprio idolo, cominciai a balbettare “Ma lei…mio Dio…Suzy Menkes…non ci credo…ma davvero? Naaaa…cioè…”, al che la signora, senza scomporsi, si allontanò a poco a poco sfoggiando un sorrisino tirato e uno sguardo stralunato che significava “ecco, ho beccato pure l’imbecille di turno” (un’altra figura meschina del genere l’ho fatta a suo tempo con la top model Christy Turlington, prima o poi vi racconterò anche quella!). La seconda volta, per fortuna, andò meglio: invitata qualche anno fa a Firenze all’anteprima della selezione espositiva della Galleria del Costume di Palazzo Pitti, a cui avevo collaborato, presi la palla al balzo e la fermai, da sola, intenta ad osservare una vetrina del museo con un magnifico abito anni ’50, per avere una sua sincera opinione sul lavoro che mi era costato tanto tempo e sudore. “Oh, it’s so refreshing” si limitò a dirmi, sorridendo (almeno questa volta non devo essergli sembrato troppo cretino, pensai) ma lo sguardo stralunato venne a me, perché spiazzato da un aggettivo che in genere si addice a una granita o a una limonata, più che ad una mostra. Riflettendoci bene in seguito, solo chi davvero possiede un gusto ricercato e tutt’altro che banale nella scelta delle parole poteva rispondermi in quel modo: “è bella, interessante, piacevole” sono concetti che avrebbe potuto tirare fuori anche il primo cane di passaggio. “E’ rinfrescante” solo Suzy Menkes; un’assoluta autorità in fatto di moda e costume, amante del massimalismo, della teatralità dell’haute couture, dell’esagerazione di forme e colori. Come ha dimostrato di recente nella sua collezione personale di abiti ed accessori raccolti in quasi cinquant’anni di carriera, solo qualche giorno fa messa all’asta da Christie’s sul web (http://www.christies.com/sales/in-my-fashion-july-2013/) e che ha registrato in poco tempo un numero record di presenze e offerte. Un saggio magistrale e un superbo condensato della storia recente dell’alta moda e del prêt – à portér internazionali, filtrata dall’occhio critico di una delle maggiori protagoniste di sempre della stampa del settore; una galleria di capi (virtuale e non) magnifica, imperdibile,  sensazionale. Come altro potrei definirla? Ah, si: rinfrescante.

Scuse da blogger

Imany – You will never know | SK* Session – YouTube.

Va bene, ne avete tutto il diritto. Di sentirvi trascurati, forse un po’ abbandonati, per non dire addirittura traditi da quel vagabondo di blogger, che dopo avervi inseguito e pregato in ogni modo e con ogni mezzo per ottenere la vostra attenzione e approvazione, sparisce per quasi una settimana dalle pagine virtuali del suo stesso blog. No, non sono ancora in ferie (magari); sarebbe stata una piacevole spiegazione per la mia breve latitanza. Eppure di notizie che avrebbero solleticato la mia immaginazione e ottenuto (presumo) il vostro consenso ce ne sono e ce ne sarebbero state in abbondanza. Il fatto è che si è sempre trattato di avvenimenti per un motivo o l’altro protrattisi per le lunghe, ben oltre le energie e la pazienza di cui sono in possesso al momento. Insomma, di stare a vedere come sarebbe finita questa o quella volta, francamente, non ne ho avuto la minima voglia. Prendiamo ad esempio il caso del “royal baby”, il bambino più atteso e già più famoso del mondo, come solo stamani ripeteva l’ennesima conduttrice del tg dalla vocina stridula. Perfino la bisnonna, sua altezza Elisabetta II d’Inghilterra, è sbottata davanti ai microfoni ammettendo la sua comprensibile voglia di andare in vacanza (perché poi, a 87 anni, non sai mica quante altre estati rimangono da goderti) alla faccia del nipotino in arrivo. Figuriamoci chi come noi non possiede la benché minima goccia di sangue blu; l’infinita vicenda della nascita dell’erede di casa Windsor, a parte una blanda curiosità per il nome (ma solo perché la famiglia di lei vanta delle scelte raffinate come Pippa, non dimentichiamolo) non rientra esattamente tra le nostre priorità. Certo, tutto il chiasso intorno a quello definito come il “travaglio reale” mi ha divertito, lo ammetto; ma solo per l’accostamento, o meglio, l’accozzaglia linguistica di due elementi così dissonanti. Voglio dire: l’aggettivo “reale” non è che si presti sempre alla perfezione ad affiancare qualsiasi termine, sennò i prossimi mesi toccherebbe fare i conti con articoli mirati ad aggiornarci sui progressi del suddetto neonato come le ”puzzette reali” o i “ruttini reali”. La scelta poi di abbinarlo alla parola “travaglio” la trovo particolarmente infelice; un momento che in genere evoca urla e sudore, donne in preda a dolori lancinanti, intente a scagliare su mariti e compagni insulti degni della bambina dell’Esorcista, di reale, ditemi voi, cosa potrebbe mai avere.

L’altra storia che in questi giorni avevo provato sinceramente a seguire al fine di commentarne qui sopra l’evoluzione, per poi invece stancarmi al primo botta e risposta di troppo, è la nota bagarre scoppiata tra il Comune di Milano e gli stilisti Dolce & Gabbana. Per chi non la conosca, tento di riassumerla velocemente, senza riportare la noia che di fatto ha colto il blogger intento a documentarsi leggendosi tutti i pezzi al riguardo. I due fashion designer, che una volta, al pari di Brooke e Ridge, rappresentavano l’ideale di amore duraturo e smisurato (e doveva essere di certo amore, si diceva, perché uno così alto e belloccio non può stare con uno più basso, bruttino e calvo senza amarlo) subiscono un’ulteriore incrinatura della loro immagine, dopo la loro separazione sentimentale del 2005, per alcuni guai con il fisco, vicenda che si conclude lo scorso Giugno con la condanna a un anno e otto mesi per evasione e l’assoluzione per altre due ipotesi di reato. L’assessore al Commercio del Comune, Franco d’Alfonso, si lascia sfuggire pochi giorni dopo una frase infelice, del tipo “non si dovrebbero concedere spazi pubblici a marchi che si macchiano di crimini particolarmente odiosi” e da qui parte la reazione (spropositata?) degli stilisti prima su Twitter (“Fate schifo” scrive lapidario dal suo account Stefano Gabbana rivolgendosi al Comune di Milano, risparmiando, di fatto, 129 caratteri su 140) poi nelle loro boutique di Milano, rimaste chiuse al pubblico (“per indignazione” come spiega un cartello sulla saracinesca abbassata) per oltre 72 ore. A rincarare la dose ci si metteranno poi gli animalisti (“l’unica indignazione è per le bestie che avete ucciso” scriveranno fuori agli stessi negozi) il sindaco Pisapia in persona (“stanno esagerando”) la stampa e i colleghi scesi spesso e volentieri in appoggio dei due. Un fatto divenuto interminabile. Ogni giorno si aggiungeva un tassello. Avrò riscritto il post a riguardo una ventina di volte. Alla fine, mi sono stufato, del tutto. Perché poi, non sarò questo incomparabile esempio di virilità, ma in un aspetto sono maschio fino al midollo: riesco a fare una cosa sola alla volta. E neanche così bene. Sicché tra il lavoro, il caldo, la stanchezza, di aggiornarmi continuamente sulle tumultuose vicissitudini del marchio (che, come prodotto ed estetica non ho mai amato troppo) ne ho avuto le scatole piene. E ho mollato. Mi sono rilassato al ritmo della canzone che al momento preferisco (video allegato), e ho dormito. Tanto. Lasciandovi orfani del vostro abituale post. Adesso però sono pronto a ripartire. Almeno credo.

(Nelle ore in cui scrivevo queste righe è venuto finalmente al mondo il primogenito di William e Kate. Che Dio c’aiuti per la scelta del nome. E che salvi le vacanze della Regina).

Troppa Grazia!

Premetto che non me l’aspettavo affatto. E prometto solennemente che non tornerò più sull’argomento. Anche perché questo blog (spero lo abbiate già notato) avrebbe una sua suddivisone tematica che da mesi, cioè dalla sua apertura, tento di rispettare a rotazione. Ma non posso fare a meno di commentare l’andamento più che soddisfacente del concorso a cui ho iscritto questo attrezzo, nato come mia valvola di sfogo sul web, mia croce e delizia, singolare passatempo e immane impegno, che grazie ai vostri voti, continuamente in ascesa, mi sta dando una delle più grandi soddisfazioni mai avute in tutta la mia esistenza. Il fatto è che da circa una settimana non riesco a pensare ad altro: ed anche quando sono in situazioni in cui la mia testa è assorbita dalla gravità di diversi pensieri (i grattacapi di un lavoro semisoffocante con le sue improrogabili scadenze, le ferie che quest’anno si annunciano risicatissime, la necessità di comprare un nuovo costume da bagno perché non entro più in nessuno di quelli vecchi…vi sembra poco?) ecco che puntualmente mi giunge una vostra chiamata, sms, e.mail, notifica di Facebook che mi aggiorna in tempo reale sull’andamento positivo delle votazioni, notizia che ogni volta fa gongolare e coccola il mio (già straripante) ego. Perciò sarebbe più che doveroso ringraziarvi uno ad uno. Chi al lavoro gira come una trottola tra i computer dei colleghi, in loro assenza, per cliccare il cuoricino accanto al mio nickname, così da assicurarmi i suoi 5/6 voti giornalieri (tranquilli, non farò nomi). Chi sottrae il telefonino a mariti, compagni, figli, o li obbliga (attendo delucidazioni sui vostri metodi di persuasione) a collegarsi al link dove compaio affiancato da centinaia di altri blogger. Chi mi messaggia ogni giorno, perché per professione si sposta tra più sedi, scrivendomi “oggi anche da qui hai ricevuto il tuo voto!”. Chi telefona a parenti e amici sparsi in tutta Italia promuovendo la mia candidatura in cambio di allettanti e impossibili ricompense. Chi si è rifatto vivo, dopo anni, perché imbattutosi per caso nella foto della mia calvizie online e ci tiene a farmi avere il suo appoggio e quello delle sue attuali conoscenze. Insomma, potrei continuare per altri tre o quattro differenti post; perché in meno di una settimana, da quando cioè, sotto affettuoso consiglio, come già vi spiegavo, mi sono buttato in questa singolare avventura, me ne avete raccontate di ogni. Se solo sapeste per quanto tempo ho rimuginato sopra l’idea di lanciarmi in un blog tutto mio, spronato dai consigli di amici e colleghi e rallentato dai milioni di dubbi che mi assalgono ogni volta che intraprendo una strada nuova (ci riuscirò? e sei poi fallisco? ma chi me lo fa fare?) vi fareste delle belle risate alle mie spalle. Perché qui sopra, al riparo dietro questo schermo e da solo con la mia consumatissima tastiera, mi sbilancio in opinioni decise, elargisco commenti acidi e pessime battute, dico la mia su ogni possibile, frivolo e criticabile avvenimento. Nella vita in realtà faccio i conti con ogni sorta di insicurezza e ripensamento, mi chiedo di continuo se abbia fatto la scelta giusta, se abbia commesso l’ennesimo passo falso, se la strada che intendo ad ogni costo percorrere sia davvero poi adatta a me. Ecco perché voglio ringraziarvi: perché non ho mai posseduto la completa certezza di essere riuscito, da solo con le mie forze, a combinare concretamente qualcosa di buono. I vostri numerosi e inaspettati voti invece, piovuti come per miracolo su questo blog, equivalgono, nella mia opinione, a un grande, inestimabile, sì.

(Adesso guai a voi se, dopo tutto questo sdilinquimento, non continuate a votarmi. Potete farlo cliccando il badge di Grazia.it che compare qui, appena sotto l’intestazione. Aggiungo che non so neppure in cosa consista o se esista un premio finale per la competizione. Per quanto mi riguarda, la mia personale vittoria l’ho già ottenuta).

Votate, di Grazia

“Ma dove sei, non ti trovo!” mi chiede Daniela, la mia amica battagliera, vegetariana e animalista, artefice di quei magnifici e voluminosi anelli d’argento che indosso tentando di nascondere il mio complesso delle mani piccole, da dodicenne. “Ci dovrebbe essere il nome del mio sito, cerca meglio” rispondo io, pensando “oh, finalmente qualcuno più imbranato di me col pc”. “Ma io vedo solo la scritta STI…ti sei iscritto come STI?” “STI  che? Daniela ma che dici? Aspetta, vado a controllare!”. Ha ragione. E’ la prima volta che mi azzardo a iscrivere il mio blog a un concorso nazionale, sul sito di una prestigiosa rivista del settore, ed ecco che l’immagine qui campeggiante per intero in cima alla pagina iniziale, con tanto di nome volutamente ironico e la mia riconoscibile pelata di fianco, viene ridotta, per evidenti esigenze di spazio, a quelle poco comprensibili ed equivocabili tre lettere. E non è tutto. Compaio come “guastino76″. Lo so, il nome utente l’ho scelto io. Ma credevo dovessi utilizzarlo solo per effettuare il login nella pagina di iscrizione; d’altronde, come ogni volta accade quando devo trovare un username per il web, “alessandro, ale, aleg” non sono mai disponibili. Perciò stavolta ho optato per il mio soprannome da adolescente, a cui sono affezionato (e con cui, purtroppo, tanti amici continuano ancora a chiamarmi). Ma se avessi saputo che sarebbe poi comparso a caratteri cubitali, ben più marcato del nome del blog stesso, tra l’altro seguito dal mio anno di nascita, quello vero (un dramma, capite?) e che non sarebbe stato assolutamente possibile modificarlo in un secondo momento, avrei digitato, che so, “bellissimo exmoro” o “figo85″. Uff.

L’idea, ovviamente, è venuta al mio amore. Io, che sono ultrapigro di natura e che già spreco, dal mio punto di vista, troppe energie per aggiornare semipuntualmente questo divertente giocattolone online, non avevo neppure notato l’esistenza del concorso. “Dovresti partecipare” mi ha detto una sera a cena, sopravvalutando al solito le mie doti di scrittore, mosso dai sentimenti che nutre per me, e stuzzicando così la mia nota vanità ”potresti ampliare il tuo pubblico”. “Dici? E’ che detesto le competizioni, lo sai. A parte quando ti batto, cioè sempre, a freccette!” “L’ultima volta ho vinto io!” ha puntualizzato, aggiungendo, “almeno fai un tentativo, cos’hai da perdere?” “La faccia?”  “Non sarebbe la prima volta”. Vabbuò, mi lascio quasi convincere, senza aver dato neanche un’occhiata ai numerosissimi iscritti. Troppo tardi: poco dopo mi ritrovo in una galleria, o meglio, in un vero e proprio girone, di ritratti ammiccanti e photoshoppati, di blogger o aspiranti tali, che gestiscono siti dai nomi eterei e suggestivi come “Soffio di dea” “Nymphea Rose” “Erotic Pink”, che hanno già migliaia (anche centinaia di migliaia) di voti e che sfoggiano profili del tipo “Sono modella/imprenditrice/mamma, fashion expert/shopping addicted/globetrotter, vivo tra New York/Londra/Barletta, mi occupo di moda/lifestyle/teatro kabuki e talvolta, quando giro forte su me stessa, mi trasformo in Wonder Woman, ma con le mie Jimmy Choo ai piedi”. “E adesso, che ci scrivo?” chiedo sgomento al mio amore dopo aver osservato la singolare carrellata di personaggi presenti. “Beh, dici sempre di avere senso dell’umorismo. Dimostralo!” mi risponde. “Quello l’ho già dimostrato quando mi sono fidanzato con te!” replico io piccato. Non importa, ormai è andata. Butto giù due scemenze al volo, condivido ovunque il link con la mia partecipazione, scrivo un messaggio collettivo ai miei amici di Facebook, impallando il loro account e ricevendo risposte del tipo “Ma che è ‘sta caxxata?” “Fanxxlo te e il blog” e via dicendo. Però sono in ballo, e quindi tocca ballare. Verbo che adoro: molto più di partecipare, figuriamoci di vincere.

P.S. Colgo l’occasione (e come non potrei?) per ricordarvi che potete votarmi tutti i giorni, fino alla fine del concorso (data ancora da stabilire) cliccando sul cuoricino (il simbolo non l’ho scelto io, non cominciamo) che trovate sotto il nome utente o sopra quello del blog in questo link: http://blogger.grazia.it/blogger?id=1231. Eternamente grato. Guastino76.