Questioni di (lato) B

barbara-durso

Bene. Sono appena le 9.44 del mattino. E questa che mi accingo a fare è già la terza, estenuante, fila. Deve esserci un qualche crudele piano divino, penso ogni volta, in questa situazione. Perchè ho scelto, a suo tempo, di vivere qui con il mirato scopo di recuperare tranquillità, energie, una placida e flemmatica dimensione quotidiana. Piuttosto alla larga dalla schizofrenica routine cittadina. Tutti vantaggi, credevo, che solo un microscopico e sconosciutissimo centro urbano, difficilmente rintracciabile anche sulla cartina, potesse davvero regalarmi. Poco meno di tremila abitanti, si dice, anche se dubito che il numero effettivo delle persone realmente residenti in questo rustico paesino, al confine tra ultima periferia e piena campagna, abbia mai superato i tre zeri. Che poi sono le stesse, tutte, (si metteranno d’accordo sull’orario?) che riesco a beccare ogni volta in una qualsiasi coda interminabile in cui mi trovo ad attendere il mio agognato turno. C’è la simpatica ultraottantenne con i suoi perenni occhiali da sole alla Keanu Reeves in Matrix, che si sbraccia di saluti, bastone alla mano, con chiunque inchiodi con l’auto per evitare i suoi attraversamenti selvaggi di strada. C’è l’irrudicibile signore di mezza età, ciuffo brizzolato e coraggioso abbigliamento da teenager, convinto, nonostante le mie dettagliate spiegazioni in proposito, delle mie origini romane, al cui ennesimo “A Roma che si dice, tutto bene?” mi limito ormai a rispondere “B – bene, grazie!”. C’è la matura e scoppiettante primadonna della piazza, un vago accento spagnolo che scappa fuori qua e là nella sue rumorose conversazioni, sempre vestita di azzurro, in ogni stagione, come una sorta di fata turchina in salsa tosco – iberica. Bene. E poi ci sono io, che mi aggiro silenzioso, con cordiale distacco, in questa località divenuta adesso familiare, in cui faccio ancora fatica a sentirmi a casa. E che, per ingannare il tempo da spendere nei miei soliti giri, mai così brevi come desidererei, passo in rassegna, osservo, ascolto la solita gente che, al solito, mi farà fare tardi. Proprio come oggi. Prima alle Poste, dove sono tornato con rassegnazione dopo che un improvviso black-out ai terminali mi ha fatto buttare via l’intero pomeriggio di ieri. Poi al supermercato, dove anche dirigersi alla cassa automatica per sbrigarsi è del tutto inutile perche la signora davanti a me l’ha inceppata con un numero elevato e sospetto di tavolette di cioccolato. Adesso anche in edicola, dove in genere ritiro con una rapidità da guinness tutte le riviste e gli allegati che lo zelante giornalaio mi mette da parte, fingendo un po’ che interessino a qualcun altro, oltre a me. In genere. Non oggi. Bene.

Ed è qui, tra lo sconforto di una nuova attesa che si fa sempre più evidente e i capricci indomabili della bambina che al supermercato, pochi minuti prima, ha fatto il diavolo a quattro con la mamma per delle patatine e che adesso replica la stessa pietosa scena per l’album di Peppa Pig (signora, sono con lei, non ceda) che mi accorgo di una novità significativa. Bene. B la nuova avventura editoriale di Barbara d’Urso, un magazine fiammante tutto ideato da una delle signore più influenti e presenti della nostra tv, colei che, a scanso di equivoci, campeggia in copertina con un sorriso stratosferico (già visto, a dire il vero, qualche anno fa, in una pubblicità per uno studio dentistico di cui era testimonial) e una pelle luminosa e levigatissima, paragonabile solo a quella di mia nipote di tre anni. Colei che su uno smisurato repertorio di faccine, bacetti-smack-smack ed espressioni crucciate, che elargisce con abbondanza ad ogni sua intervista, sia l’interlocutore un ex premier o una ragazza madre rapita dagli alieni (perché l’ospite in studio deve raccontare storie al limite del credibile) ha costruito una delle più felici e criticate carriere catodiche. E che adesso prova ad allargare il proprio impero di consensi e di oppositori sbarcando in pompa magna in edicola, con una rivista che si preannuncia come l’ideale proseguimento cartaceo della sua, già consolidata, fama di sguazzatrice nel torbido delle notizie. I titoli non deludono le aspettative: l’incredibile e paradossale avventura della signora che ha partorito sul divano (scioccante, vero?), tutta la verità di Manuela Villa (che però ha cambiato taglio e colore di capelli) su suo padre (ancora?), e poi milioni di imperdibili consigli per evitare i disastri della prova costume, su cucina, bellezza e make-up, in un crescendo di argomenti e soggetti in bilico tra prevedibilità e trash. Avrà successo? Temo proprio di sì. E per una ragione molto semplice. C’è un po’ di B in ognuno di noi. Noi che per distrarci dalla piattezza della nostre giornate rovistiamo nell’apparenza delle esistenze altrui, pronti a sparare a zero su tutto. Noi che ci definiamo con orgoglio creativi per poi riuscire solo a fabbricare obbrobri inguardabili e dozzinali (come, ad esempio, la lampada coi cucchiai di plastica spiegata proprio nella rivista). Noi che attribuiamo a ipotetici talenti o sacrifici la nostra posizione, i nostri successi, la nostra carriera, quando sappiamo benissimo essere stata spesso una mera questione di scelte casuali, compromessi, mezzucci o spintarelle. O, in numerosissimi casi, di sfacciata fortuna. E’ per tutti noi c’è da oggi proprio B. E quel B starebbe per Barbara. Nel caso vi fosse venuto il dubbio che c’entrasse qualcosa una botta di lato B.

Stiamo freschi!

A causa di uno strampalato, e per questo inconsueto, spirito d’osservazione, motivato dalla mia singolare inclinazione a memorizzare, perché affascinato, certi dettagli superficiali, ho maturato nel tempo la seguente convinzione: le donne che ostentano i tagli di capelli e le acconciature più bizzarre o coraggiose, talvolta al limite di un comune e accettabile buon gusto, appartengono, nella maggior parte dei casi, a due sole categorie professionali, le infermiere e le giornaliste di moda. Per quanto riguarda le prime credo che ciò derivi dall’inevitabile monotonia dovuta all’indossare tutti i giorni un necessario quanto mortificante camice, ragion per cui, se vuoi azzardare un minimo tocco d’estro, puoi solamente intervenire mutando le “estremità” della tua figura, cioè la testa (e quindi i capelli) e i piedi (già penalizzati da quegli zoccoli, orrendi e comodi, guarda caso, diventati negli anni sempre più coloratissimi). Per le seconde si tratta invece di ribadire, attraverso la personalizzazione del proprio look, un ruolo preciso e un determinato status quo: in un ambiente in cui la parola d’ordine è cambiamento e tutto si trasforma, di continuo, a ritmi vorticosi, l’immutabilità di un’acconciatura, posta al di là delle mode passeggere (quindi d’ispirazione rétro o al contrario volutamente kitsch) può diventare sinonimo di immediata riconoscibilità, etichettando all’impronta una professionista “super partes”, immune al variare delle tendenze, e per questo in grado di giudicarle. Basti pensare al solito, imperituro e comunque inadatto all’irregolarità del suo viso, caschetto geometrico di Anna Wintour, dispotico e strapagato direttore di Vogue Usa, o alla languida pettinatura, tutta onde anni ’40, un po’ Milly Carlucci vecchia maniera, di Franca Sozzani (che la leggenda vuole frutto di un lavoro certosino di un hair – stylist quotidianamente incaricato di stirarle i ricci), per non parlare del fiammante taglio di sapore punk, da porcospino psichedelico, esibito dall’onnipresente-in-tv-e-su-qualsiasi-altro-magazine Giusi Ferré. Ma la palma per l’originalità e, perché no, per la tenuta di taglio, spetta senza dubbio al ciuffo rockabilly, (cioè a banana, per intenderci), di quelli che avrebbero fatto impallidire perfino James Dean, da decenni campeggiante sulla testa dell’autorevole firma dell’International Herald Tribune, Suzy Menkes (foto allegata).

Per chi mastica un po’ di moda Suzy Menkes non è semplicemente una brava giornalista esperta in materia. E’ “la” giornalista di moda per antonomasia; colei che tutti gli stilisti temono, che tutte le altre giornaliste stimano (o forse invidiano), colei che chiunque voglia fare questo mestiere ha sognato almeno una volta di poter incontrare, intervistare, perché no, scalzare od offuscare. Io ho avuto il privilegio di parlarle soltanto due sole volte nell’arco della mia esistenza e dei miei infiniti 15 anni di gavetta (ah, già, quanti anni vi avevo detto di avere? Vabbè, ho cominciato molto presto!). La prima volta successe per una casualità inaspettata, essendoci ritrovati fianco a fianco, in un’affollatissima stazione, sotto un implacabile tabellone luminoso che annunciava il nostro treno in arrivo con quasi due ore di ritardo. “Anche lei va per caso a Milano?” mi chiese in un timido ma corretto italiano, ed io, reagendo proprio come farebbe un teenager qualsiasi di fronte al proprio idolo, cominciai a balbettare “Ma lei…mio Dio…Suzy Menkes…non ci credo…ma davvero? Naaaa…cioè…”, al che la signora, senza scomporsi, si allontanò a poco a poco sfoggiando un sorrisino tirato e uno sguardo stralunato che significava “ecco, ho beccato pure l’imbecille di turno” (un’altra figura meschina del genere l’ho fatta a suo tempo con la top model Christy Turlington, prima o poi vi racconterò anche quella!). La seconda volta, per fortuna, andò meglio: invitata qualche anno fa a Firenze all’anteprima della selezione espositiva della Galleria del Costume di Palazzo Pitti, a cui avevo collaborato, presi la palla al balzo e la fermai, da sola, intenta ad osservare una vetrina del museo con un magnifico abito anni ’50, per avere una sua sincera opinione sul lavoro che mi era costato tanto tempo e sudore. “Oh, it’s so refreshing” si limitò a dirmi, sorridendo (almeno questa volta non devo essergli sembrato troppo cretino, pensai) ma lo sguardo stralunato venne a me, perché spiazzato da un aggettivo che in genere si addice a una granita o a una limonata, più che ad una mostra. Riflettendoci bene in seguito, solo chi davvero possiede un gusto ricercato e tutt’altro che banale nella scelta delle parole poteva rispondermi in quel modo: “è bella, interessante, piacevole” sono concetti che avrebbe potuto tirare fuori anche il primo cane di passaggio. “E’ rinfrescante” solo Suzy Menkes; un’assoluta autorità in fatto di moda e costume, amante del massimalismo, della teatralità dell’haute couture, dell’esagerazione di forme e colori. Come ha dimostrato di recente nella sua collezione personale di abiti ed accessori raccolti in quasi cinquant’anni di carriera, solo qualche giorno fa messa all’asta da Christie’s sul web (http://www.christies.com/sales/in-my-fashion-july-2013/) e che ha registrato in poco tempo un numero record di presenze e offerte. Un saggio magistrale e un superbo condensato della storia recente dell’alta moda e del prêt – à portér internazionali, filtrata dall’occhio critico di una delle maggiori protagoniste di sempre della stampa del settore; una galleria di capi (virtuale e non) magnifica, imperdibile,  sensazionale. Come altro potrei definirla? Ah, si: rinfrescante.

Diavolo d’un ambasciatore

Premessa: visto che ci siamo svegliati ancora una volta in questo mondo, stiamo tutti bene, (oddio, tranne per qualche acciacco dovuto all’età o alla stagione, ma via, non ci lamentiamo), in fin dei conti poi non c’avevamo creduto più di tanto (anche se Roberto Giacobbo in qualche puntata di Voyager era sembrato così convincente), direi che posso tranquillamente evitare un post sulla mancata e tanto strombazzata fine del mondo, sui Maya, le cavallette o altri eventi apocalittici (come per esempio il Natale, ma non è detto che non scriva qualcosa al riguardo).

Barack Obama, il 44esimo presidente degli Stati Uniti da poco riconfermato in carica, quello che il più grande comico italiano degli ultimi 20 anni (chi altri?) aveva definito “carino e abbronzato”, pare stia pensando proprio a lei. Lei è la temibile Anna Wintour, potente e spigoloso direttore di Vogue America, modi dispotici e capelli irrigiditi in un eterno caschetto geometrico – da far invidia alla Carrà - su un volto più bruttino che banale. Secondo rumors da settimane sempre più insistenti la signora Wintour, che tanto si è prodigata nell’organizzare raccolte fondi ed eventi in perfetto american – style per la rielezione dello stesso Obama, sarebbe in lizza per il prestigioso ruolo di ambasciatrice Usa in Francia o forse nel Regno Unito (destinazione più probabile, data la sua originaria nazionalità inglese). Lei smentisce con freddezza, la stampa la incalza, le indiscrezioni serpeggiano (solo qualche giorno fa le più recenti http://www.theatlanticwire.com/politics/2012/12/ambassador-anna-wintour-rumor-refuses-go-away/60159/) e la pubblicità, soprattutto a vantaggio di sua altezza della moda, aumenta. Che sia solo una studiatissima e ben riuscita operazione di marketing? Può darsi. Fatto sta che il mio augurio è che ambasciatrice lo diventi sul serio, liberandoci così dalla sua ingombrante presenza nel fashion system. Anna Wintour è difatti colei per cui si riscrivono interi calendari di settimane di sfilate (soprattutto in Italia), fissati da tempo immemore, solo per assicurarsi la sua occhialuta e arcigna presenza in prima fila ad ogni show. Colei che ha notoriamente ispirato la perfida figura di Miranda de Il diavolo veste Prada, ma che se provate ad osservare al lavoro nel documentario The September Issue del 2009 (vivamente consigliato) noterete affaccendata ad offuscare altre e ben più talentuose presenze al suo fianco. Colei che decine di emule – in confronto alle quali anche la protoclonata pecora Dolly spiccava per originalità – convinte che basti un atteggiamento platealmente spietato e un culo secco per essere considerata un’autorità in materia, scimmiottano in ogni redazione del settore, anche la più sfigata.  Colei che se finalmente decidesse di farsi da parte, forse, anzi di sicuro, non cambierebbe proprio nulla, ma almeno potremmo cominciare a sperare, nel giornalismo di moda, nel gradito ritorno di un po’ di autenticità.