Corde autunnali…

Michele ha poco più di quarant’anni, una buona percentuale di sangue partenopeo nelle vene, un’invidiabile cultura da autodidatta in filosofia e discipline orientali, quattro splendidi figli maschi dalla medesima corporatura sottile e longilinea e una compagna simpaticamente brontolona, da lui stesso talvolta ribattezzata Santippe, come la più nota moglie di Socrate. Per lavoro guida i mezzi pubblici, compreso il 28 che è un lungo mostro a due vetture snodabile nel centro, impossibile da manovrare con quella calma poi che a lui invece non sembra mai venir meno al volante neppure in mezzo al traffico più infernale, e quando capita che mi incroci per strada con il bus ecco che attacca a suonare il clacson in maniera insistente, affacciandosi contemporaneamente dal finestrino per urlarmi sempre qualcosa di cui negli istanti seguenti mi vergognerò tantissimo, una volta lì da solo sul marciapiede. Oppure, se riesco a beccarlo sulla linea che dal sovraffollato centro cittadino mi riaccompagna nella località piatta e semisperduta in cui vivo, rimango per tutto il viaggio in piedi accanto a lui, riempiendolo di chiacchiere in barba al divieto di non disturbare il conducente e agli sbuffi delle tante vecchiette timorose di saltare la propria fermata, stessa cosa che accade anche quando le nostre due dolci metà, colleghi di lavoro, nel passeggiare ci lasciano sempre una decina di metri indietro per aggiornarsi reciprocamente su vari gossip di persone a noi ignote, che loro riescono, non si sa come, ad individuare con semplici frasi del tipo “Hai saputo più niente di cosa, quella? Sì, brava, proprio lei!”. Proprio come l’altra sera quando, su di un Ponte Vecchio reso quasi impraticabile dalle decine di turisti che accerchiavano tutti esultanti un musicista di strada, Michele mi fa d’un tratto “Ah, mi sono iscritto in palestra ad un corso di grappling, hai presente?” “Certo che no!” “Conosci forse il jiu jitsu brasiliano, le MMA?” “Benissimo, guarda…ma no, di cosa diamine stiamo parlando?” “Vabbè, te la faccio semplice, è un tipo di lotta in cui devi costringere a terra l’avversario. La cosa interessante è che fa proprio per me, peccato averla scoperta un po’ tardi!”. Adesso, al di là della mia plateale ignoranza in materia sportiva, fermo restando che non esista un limite temporale per seguire o assecondare una nuova passione o lo sbocciare di nuovo interesse, è pur vero che nessuno è eterno e tra le infinite possibilità quotidianamente alla nostra portata qualcosa tocca pur scegliere, escludendo magari in questo modo altre centinaia di attività o ambiti in cui potremmo comunque riuscire o che forse sarebbero addirittura i più vicini alle nostre reali corde. Motivo per cui, complice l’incalzare dell’autunno e della necessità di un minimo di riordino esistenziale, ho stilato un breve elenco delle strade da me nel tempo in qualche modo sfiorate e poi ignorate o abbandonate del tutto per pigrizia, distrazione, vigliaccheria, e che sarebbe invece il caso di ripercorrere prima o poi, se non altro per aver avuto allora la lieve percezione di poterle tranquillamente intraprendere, anche con un certo grado di soddisfazione:

- imparare il portoghese, non dico alla perfezione, ma quel tanto che basterebbe a sostenere delle conversazioni comprensibili, perché potersi esprimere in altre lingue così come individuare punti di contatto con l’etimologia di tante parole l’ho sempre trovato esaltante e perché con Viviane, la mia amica brasiliana trasferitasi in Portogallo e conosciuta soltanto la scorsa estate ho intavolato, con il mio spagnolo scarso e qualche vago ricordo di latino, lunghe, pittoresche e talvolta improbabili chiacchierate.

- fare di nuovo un viaggio con mia sorella, circostanza che non accade da venti anni esatti, all’epoca cioè della foto ancora oggi ben visibile in casa dei miei e che ci ritrae abbracciati sotto l’Eretteo sull’acropoli di Atene, lei allora bionda (in realtà castana), io con ridicola capigliatura scolpita dal gel (e ho detto tutto), perché, tranne il mio amore che quando si trova con me in vacanza non si ferma un secondo neanche se inchiodato al suolo, è l’unica persona che riesca a rispettare e a sostenere le mie sfiancanti tabelle di marcia.

- tornare ad insegnare, anche se è un impegno foriero di incognite e di gigantesche e schiaccianti responsabilità, e anche se, probabilmente, in questa vita non vincerò mai il profondo disagio che mi suscita il sentirmi chiamare “profe”, perché un’ex-allieva incontrata per caso passeggiando per le vie di Trastevere nel venirmi incontro mi ha salutato amorevolmente come “quello a cui devo tutto”, esperienza senza dubbio tra le più gratificanti di tutta la mia intera esistenza.

- riprendere a scrivere con più assiduità, qui sopra o anche altrove, perché per quanto il lavoro e gli appuntamenti quotidiani mi prendano gran parte delle energie e degli spazi vitali, alla fine la scrittura è forse la sola realtà in cui riesca a sentirmi comodo, e perché il buio delle serate autunnali tornerà ad ingolfarmi di pensieri la testa che devo poi necessariamente alleggerire per iscritto. Con l’approvazione, spero, di chi ancora vorrà seguirmi.

(Ap)punti di lavoro!

Non è il dettagliatissimo mansionario, pochi ma densi fogli contenenti la spiegazione scrupolosa di tutti i miei numerosi compiti da svolgere, che mi ritrovo a rileggere ogni sera con la necessaria calma prima di addormentarmi e con cui ho inevitabilmente finito per rimpiazzare il libro che tentavo invece di concludere da settimane, abbandonato per il momento senza riserve al capitolo sette. E neppure l’improvvisa e magnetica bellezza che si spalanca di fronte ai miei occhi increduli ad ogni angolo o passaggio segreto, in genere vietato al pubblico, esistente nello straordinario e secolare edificio in cui sono capitato, che il mio ultimo quanto inaspettato incarico mi permette al contrario di poter ammirare. La prima cosa su cui sono rimasto a riflettere per pochi minuti, in silenzio, nel mio nuovissimo ambiente di lavoro, l’ennesimo in cui a 29 anni suonati (da tempo) inauguro un’ulteriore tappa della mia incomprensibile e variegata carriera, è, al solito, il cartello ben visibile e un po’ singolare che trovo appeso nel bagno, e che recita “si prega di usare poca carta igienica” (come poca? cioè, uno ne usa quanto crede di averne bisogno, no?), insolito ma sicuramente migliore di quello che ricordo di aver visto una volta nella toilette di in una redazione e che esortava invece ad usare “esclusivamente” la carta igienica (come “esclusivamente”? cioè, non è che uno preferisca altre tipologie di carta per certi scopi, no?): dettagli in teoria insignificanti che però la dicono lunga su cosa catturi in realtà la mia bizzarra attenzione e rimanga poi impresso a lungo nella mia memoria, occupando il posto di tante altre informazioni sicuramente più utili. Ma tant’è: accantonata per il momento la pur gratificante esperienza milanese che avrei dovuto replicare proprio in questi giorni e optato al contrario, con serenità, per un ritorno nel più familiare ambiente museale fiorentino, ecco che mi trovo ancora una volta fare i conti con tutte le incognite, le perplessità e le speranze che un nuovo inizio professionale necessariamente comporta, cercando come sempre di tenere bene a mente i soliti buoni propositi che, conoscendomi, disattenderò in tempi brevi e che vado subito ad elencare:

- provare a placare quell’ansia insostenibile che mi tiene compagnia sin dal risveglio e che mi avrà pur impedito, in questa vita quasi trentennale, di essere giunto in ritardo una sola volta in tanti anni di lavoro, ma che attualmente mi obbliga a rimanere per alcuni interminabili minuti fermo come un baccalà a fissare la macchinetta dove strisciare il mio badge finché non scatta l’ora esatta prevista per l’inizio del mio turno.

- evitare a casa di radermi il viso mentre ascolto e canticchio la mia playlist di vecchi successi dance anni ’70, tipo Diana Ross o Donna Summer, perché poi la tentazione di ballarci sopra è sempre tanta e puntualmente va a finire che mi procuro piccole ma profonde ferite alla gola e al mento, che destano sempre un’insana curiosità sul lavoro e che non posso stare a spiegare senza risultare nell’opinione altrui un po’ picchiatello.

- riuscire a mentire anche con il volto, o almeno, ad accordare quel “no, figurati, nessun problema” che la mia voce riesce, non so come, a pronunciare alla perfezione, con un’espressione facciale che sia un tantinello più adeguata, perché è al momento prematuro mostrare in certi casi tutto il mio disappunto, che al contrario sembra sempre affiorare con chiarezza come se l’avessi tatuato a caratteri cubitali sulla fronte.

- vincere la mia personale resistenza all’uso delle chiavi minuscole che ho sempre detestato, tipo quella della cassetta della posta relegata da anni chissà poi dove, perché le bollette e le lettere le ho sempre recuperate infilando audacemente le dita con manovre serpentine e perché al lavoro invece devo riordinare e riconsegnare qualcosa come una dozzina di odiosissimi mazzi diversi.

- ripassare mentalmente tutti i nomi dei numerosi nuovi colleghi, che carinamente si sono presentati sin dal primo giorno mentre io ero troppo assorto a scrutarne i visi con tutti quegli interessanti particolari su cui in genere mi soffermo (la forma delle sopracciglia, il taglio di capelli, ecc.), e così mentre loro mi salutano già da un po’ con un affettuoso “Ciao Alessandro” io riesco solo a replicare più banalmente “Ciao…ehmm, mmmh..(come accidenti si chiama?)!”

- evitare soprattutto di affezionarmi, come spesso mi succede, proprio agli stessi colleghi appena menzionati, anche se mi ci vorrà ancora qualche settimana per impararne i nomi ma non per dar loro maggiore confidenza, perché in alcuni già riconosco persone a cui posso voler bene all’istante e perché tanto tra sei mesi, con tutta probabilità, dovrò ricominciare, in un altro posto, con altri, personalissimi e strampalati, buoni propositi da non rispettare.

Vita (quasi) nuova!

Intravisto e poi di nuovo sparito, come un treno di passaggio che sfreccia troppo veloce davanti agli occhi fissi sul binario, quel briciolo di relax strappato con caparbia ostinazione alla maratona delle vacanze natalizie, rimasti in balìa di quegli odiosi chili da smaltire, dell’albero con qualche pallina ammaccata da smontare, dei primi, pessimi acquisti in saldo da rinchiudere nell’oscurità dell’armadio insieme ad altri simili sbagli conservati “perché, non si sa mai, potrei sempre indossarli”, rieccoci qui a fare un’altra volta i conti con tutti i nostri, puntuali quanto campati in aria, progetti e le nostre richieste più balzane che abbiamo già affidato speranzosi all’ignaro 2015. Il mio, a dire il vero, è cominciato con qualche stranezza di troppo che non dovrebbe peraltro più stupirmi, dato il generale andamento oscillante di questa mia testa liscissima fuori e intrigatissima dentro che, volenti o nolenti, si trova a gestire corpo (in espansione) e anima (da dannazione). Placata da qualche tempo, grazie a una piacevole e intima chiacchierata a tavola con il mio omonimo amico Alessandro, quell’ansia mista a panico che spesso si manifesta nella notte accompagnata dal placido pensiero “oddio, stavolta muoio”, riscontrati nelle sue parole gli stessi identici sintomi e le stesse, preoccupanti e infondate, paure, le mie nevrosi, persa forse quell’aura di esclusività che pensavano di possedere, hanno visto bene di migrare altrove, ricomparendo sottoforma di improvvisi attacchi claustrofobici che mi colgono in un qualunque spazio, a mio avviso sempre troppo denso di mura o di persone. Circostanza poco piacevole che di fatto mi costringe ultimamente a sgattaiolare fuori dalla metro tipo tre/quattro fermate in anticipo rispetto a quella più vicina alla mia meta, che tento poi di raggiungere con una non programmata (e talvolta lunghissima) passeggiata all’aperto, oppure ad uscire di corsa, sudaticcio, dal posto in cui sto mangiando, e senza neanche consumare il caffè (già pagato), perfino a dileguarmi dall’ufficio per rinchiudermi rapido in bagno ad affacciarmi snervato alla finestra, dove immancabilmente vengo intercettato dagli operai al lavoro sui ponteggi che ormai saluto con un gesto della mano, come fossero vecchi amici. Ma perché tormentarsi, in fondo anche quest’ultima manifestazione di scarso equilibrio psichico, ne sono certo, sparirà proprio come tutte le altre, magari stavolta senza essere neanche rimpiazzata da nuovi e più paralizzanti timori: in fondo l’anno con le sue stimolanti incognite è appena cominciato, l’oroscopo pare sorridere al mio segno e non sono neanche riuscito ad introdurre degnamente la mia scrupolosissima lista di buoni propositi per il 2015 che avevo intenzione di propinarvi in questo post e che vado di seguito ad aggiungere:

- Studiare un po’ di norme pratiche e legali di navigazione, perché pur discendendo da una famiglia di marittimi da generazioni non ho mai provato a cimentarmi nell’ambito, perché nonostante quel mare dove sono cresciuto, che tentavo da bambino di disegnare consumando tutti i pennarelli blu, sia l’unico posto in cui mi senta veramente a casa, so a malapena tenere in mano due remi, e perché un domani vorrei anche acquistare una barchetta con cui scendere a pescare nelle sere d’estate.

- Sperimentare dei piatti che mi richiedano un maggior tempo di preparazione e che mi facciano finalmente scoprire il piacere della cucina, io che mi spazientisco sempre troppo di fronte ai fornelli, che reputo ore sprecate quelle in attesa dell’acqua che non sembra mai bollire o del dolce infinitamente lento nel cuocere, e che mi rassegno a guardare i miliardi di programmi tv sull’argomento con lo stesso vivace interesse che di solito mi suscitano i necrologi sui quotidiani.

- Accettare serenamente il fatto che 29 anni (giorno più, giorno meno) non sono mica più 19, che le energie soprattutto non sono le stesse, che se nella medesima giornata mi ostino a volerne far troppe poi non è un delitto rincasare e rimanere almeno un’ora a guardare il soffitto, stremato, senza sensi di colpa perché non sono più riuscito ad andare a correre, ora che sto esaurendo tutte le possibili scuse al riguardo (il freddo, quel dolorino fastidioso al ginocchio, le scarpe troppo basse, etc).

- Smetterla di irritarmi se in un posto in cui entro per la prima volta mi si rivolgono subito con il tu, perché forse siamo rimasti in pochi ad apprezzare quella desueta e distante educazione del lei, che fa un po’ secolo scorso in certi locali pubblici. Cercare anche di non arrabbiarmi se dopo mezza parola pronunciata, fosse anche “salve” o “ciao”, mi puntano subito tutti sorridenti l’indice, aggiungendo “toscano, eh?”, e poi attaccano soddisfatti quella noiosissima solfa della “Coha – hola con la hannuccia horta horta”. Ah, e imparare a chiedere da bere una Pepsi, che almeno non ha le C.

- Trovare una nuova definizione, meglio se inglese, per il mio settore professionale e per le mie competenze, perché alla domanda “tu cosa faresti/saresti?” la risposta, per quanto corretta, “lo storico del costume” suscita sempre sguardi compassionevoli, perfetti se rivolti a un animale in estinzione, che so, un cucciolo di panda. Evitare però le formule Fashion expert o peggio Fashion blogger che nell’opinione comune equivalgono sempre al “vagabondo/mantenuto/nullafacente”, “bravo sì, facile occuparsi di moda, sì, con tutti i veri problemi che ci sono in questo Paese!”

- Trovare un nuovo lavoro, meglio se in linea con il mio settore professionale e le mie competenze, ora che, giunto quasi alla conclusione di questa ultima, imprevista e soddisfacente esperienza milanese, mi sento pronto come non mai a rimettermi in gioco, grazie all’energia ottenuta dal misurarmi con una città e con un ambiente in cui credevo di non riuscire a sopravvivere per più di un giorno o due. E soprattutto spostare questo proposito in cima alla lista, che la tanto sognata barchetta per pescare, in qualche modo, un domani, la dovrò pur riuscire a pagare.

Cambio (di) stagione

A volte basta davvero poco, il leggero entusiasmo dell’autostima in rimonta su mille inutili tormenti, minuscole vittorie strappate ad una pigrizia fin troppo radicata, un risultato modesto ma piuttosto gratificante perché ottenuto con quella testardaggine che non ricordavi più fosse inscritta nel tuo dna. Episodi intimi e trascurabili, di nessuna importanza o quasi, eppure talvolta sufficienti a regalarti quel briciolo di soddisfazione di cui avevi però esattamente bisogno per sentirti di nuovo in grado di poter ambire a mete dapprima ritenute al di fuori della tua portata. Basta poco, dicevo, per scoprirsi rivitalizzati e apprezzati, capaci di euforici slanci di energia e a tratti quasi onnipotenti: l’aver intaccato con le tue sole forze quella situazione che sembrava ristagnare da un’eternità, una commovente e affettuosa dimostrazione di fiducia siglata da un abbraccio travolgente e inaspettato, perfino il riuscire a perdere con precisione quel tot di chili di cui volevi sbarazzarti in un mese, senza sforzi colossali e senza soprattutto il costante timore di dover salire sulla bilancia con una gamba sola, a mo’ di fenicottero. E siccome il raggiungere un qualsiasi traguardo, seppur esiguo, innesca la voglia di mettersi ancora una volta in discussione tentando di alzare sempre un po’ di più l’asticella, e dato che le lunghe e grigie giornate di autunno sono lastricate di buone intenzioni molto più delle innumerevoli strade per l’inferno, ne ho approfittato per stilare la lista dei prossimi miei obiettivi avvertiti come quasi realizzabili, senza troppe esagerazioni ma con tutta la presunzione, esistente al momento, di poterli sul serio concretizzare in questa stagione (o in questa vita, mi andrebbe bene comunque):

- tenere finalmente a bada quei disatrosi effetti dovuti a un’eccessiva emotività che mi scombina spesso la voce e la mente quando mi ritrovo a parlare in pubblico o con perfetti sconosciuti, causa di fiumi inarrestabili di frasi senza senso o di ben più gravi e spiazzanti vuoti di parole, che durano solo pochi secondi ma a che a me sembrano comunque un tempo infinto, in cui mi ritrovo a grattarmi freneticamente la testa in panne e a fissare il pavimento come se i termini che vado cercando potessero miracolosamente sbucare lì proprio davanti ai miei occhi, nell’angolo scalfito di quella piastrella dove si è arenato il mio sguardo.

- sforzarmi di apprezzare le attenzioni di un qualsiasi animale domestico, senza nascondermi dietro la scusa delle mie reali e devastanti allergie, perché studi scientifici dimostrano che chi si relaziona più spesso con cani e gatti vive più a lungo e più felicemente, perché da sempre mi scontro col pregiudizio mai superato di considerare chi si circonda di animali meno capace o desideroso di volerlo fare con i propri simili, perché Ravel, il cane della mia amica Claudia, quando mi accoglie scondizolante e smanioso di salirmi in braccio pare chiedermi ogni volta con i suoi occhioni imploranti “Mbeh? Tutto qui il tuo affetto per me?”

- riuscire finalmente ad accompagnare o anche solo convincere mia madre ad entrare tutta trionfante in quel famoso e raffinato negozio di abiti che ha da sempre amato alla follia, come è evidente dai lunghi sospiri sognanti che le sfuggono di bocca ogni volta che passiamo di fronte alle sue vetrine, per farle così provare ed acquistare un nuovo vestito rosso, perché è un colore magnifico che di sicuro le starebbe d’incanto, e perché non avrebbe mai tanto coraggio da chiedere esplicitamente un regalo del genere, che invece si meriterebbe eccome.

- insegnare qualcosa di memorabile a mia nipote Giulia, che non siano soltanto quei giochi pericolosi e sguaiati con cui di solito la intrattengo, tipo lanciarci il passeggino delle bambole o fare la lotta con i cuscini, con cui ho cercato di conquistarmi furbamente la fama dello zio più permissivo. Dovrei invece spiegarle una qualche attività utile o anche solo una parola davvero indispensabile in futuro, in modo che quando si troverà ad usarla possa pensare subito “è quella di zio Ale!”, ora soprattutto che fra le nuove insegnanti di scuola, la baby – sitter, i suoi coetanei più fantasiosi e stimolanti, il timore di essere rimpiazzato è forte.

- riuscire ad organizzare con il mio amore quel benedetto viaggio, rimandato purtroppo ormai da anni, per andare ad osservare la rotta delle balene che migrano verso Sud, perché è fra i suoi desideri più grandi, anche se io, al contrario, mi sento venir meno al solo pensiero di dovermi avvicinare ad un animale di quella stazza, e nonostante la soddisfazione della sua faccia esaltata e i racconti che andremo narrando per anni sull’episodio, già so che non potrò fare a meno di pensare in quel momento che con un colpo improvviso di coda potrebbero ucciderci entrambi. Però in autunno dicono sia la stagione migliore. Per le balene, intendo. Non per avere dei pensieri così negativi.

Ansiautunno

Se siete già da tempo lettori di questo blog, andate avanti. Ve lo consiglio, seriamente, saltate a piè pari questa breve introduzione e cominciate dal capitoletto seguente (sempre che riesca a scriverne uno). Il motivo è dei più semplici: qui non troverete nulla che suoni alle vostre orecchie come del tutto nuovo, originale, mai letto prima in qualcuno dei miei post più vecchi. Non solo perché siamo già giunti, prima di quanto pensassi, a superare la bellezza di 100 miei interventi (questa che sta scorrendo sotto i vostri occhi è precisamente la creatura n. 101, proprio come l’arcinota carica disneyana, con la sola differenza che l’unico cane qui potrebbe essere l’autore); cifra che mi costringe, per non trovarmi a ripetere con troppa frequenza le stesse parole, a dover leggere un po’ di tutto, dalle ricette stampate sulle buste dei cibi alle etichette dei prodotti per il bagno (anche se dubito che termini come “liofilizzato”, “emolliente” o “dermatologicamente testato” possano mai tornarmi utili in un eventuale post). Quanto soprattutto perché il sovracitato autore/quadrupede si sta, come immaginerete, già fasciando paranoicamente la testa in attesa della (per lui) più temuta stagione, che solo tra qualche giorno scalzerà le ultimi propaggini estive: l’autunno (no no no, suonerebbe un’azzeccatissima eco). Lo detesto. In ogni suo dettaglio. Non ne sopporto il lento scemare pomeridiano della luce che prelude a sere sempre più lunghe, il progressivo e impietoso affievolirsi della temperatura, il cupo ingiallirsi del mio giardinetto (foto allegata) che a poco a poco si trasforma in un disordinato pavimento di foglie croccanti (e come tale poi rimane per lunghi mesi). Mi irrita l’arrivo inevitabile delle piogge, le gocce che si inseguono formando malinconici rivoli sulle finestre, gli alberi e la frutta rivestiti di toni smorzati. Ma ciò che maggiormente mi inquieta, mi atterisce e mi turba è il suo equivalere al dover trovare (chissà poi dove) nuove energie necessarie per pianificare, organizzare, riprendere in mano tutto l’incompiuto lasciato volutamente alle spalle durante l’estate. Un severo richiamo all’urgenza dei propri doveri, alla disciplina necessaria per gestire tutti gli impegni, alle regole che dovrebbero scandire la vita di un serio ed equilibrato 29enne: insomma, per me che sono pigro, indisciplinato, immaturo (e men che mai 29enne) una vera e propria tortura.

Se avete davvero seguito il mio consiglio iniziale e state cominciando a leggere questo post da qui, vi riassumo cosa vi siete persi: niente. C’è un blogger, brontolone e metereopatico, che si rifuta di dare il benvenuto alla prossima stagione autunnale, perché nel suo immaginario coincide con il dover mettere in ordine e riallestire una vita in cui di ordine ce n’è sempre stato ben poco. A dire il vero anche la mia casa rispecchia il caos e la mia stessa inquietudine settembrina, soprattutto perché, al momento, sto lavorando a dei testi che avrei dovuto consegnare da giorni e che non riesco ancora a concludere. Vivacchio perciò perennemente inchiodato davanti al pc, che raggiungo facendo il dribbling tra pile di libri e riviste da consultare, accampate ovunque nei corridoi, su tavoli, sedie e divani, dei totem cartacei che obbligano gli ospiti a sedersi sul pavimento o li invitano a scattare foto da condividere, con mia somma vergogna, sulle proprie pagine dei social. Ed è proprio mentre posavo lo sguardo su una di queste instabili torrette di volumi, in cerca di nuova ispirazione per i miei scritti, che oggi mi ritrovo gradevolmente spiazzato dall’arrivo, a sorpresa, di un’e.mail da parte di una mia vecchia conoscenza. Una persona che ha condiviso con me momenti importanti, dalla trepidazione dei primi esami all’Università all’incertezza, anche economica, dei primi lavori, e che è stata persino partecipe della mia ultima iscrizione in palestra (esattamente quindici anni fa). Una persona un tempo familiare, e che poi, come spesso succede senza alcuna vera ragione, ho lasciato uscire dalla mia esistenza per superficialità, noncuranza, perché le nostre strade hanno preso direzioni opposte e noi abbiamo permesso che la distanza, la quotidianità, la diversità dei nostri obblighi diventassero una scusa e un muro per non vederci né sentirci per lungo tempo. Fino ad oggi appunto. Quando la sua gradita e.mail ha interrotto il silenzio in cerca di un mio consiglio: che fosse appropriato ad un suo nuovo inizio, al chiudere un capitolo della sua vita per aprirne un altro, al ricominciare, con le sue forze, ad affrontare questo come i prossimi autunni. Ed è stato oggi, che ho capito: per risollevarci, per ripartire, per rimetterci in moto non abbiamo bisogno di progetti dettagliati e di bellicosi piani d’attacco. Abbiamo bisogno di qualcuno pronto a dirci che possiamo farcela.