Photo food…

IKEA – Let’s Relax – YouTube.

“Guarda qui cos’ho preparato oggi!”. E’ quasi ora di pranzo, annoiato e impaziente desidero solo poter scendere dal treno, come al solito, in ritardo, il servizio gratuito di connessione wi-fi reclamizzato ogni minuto sullo stesso convoglio sembra procedere altrettanto a rilento, e per visualizzare l’immagine inviatami via Whatsapp dalla mia amica Loredana devo aspettare di ritrovarmi una mezz’ora più avanti solo, al tavolo di un bar, di fronte ad uno squallido tramezzino, divorato in quei pochi secondi che precedono il mio appuntamento di lavoro, in altre circostanze neppure sufficienti ad ordinare un velocissimo pasto. “Sembrano davvero buoni!” riesco, non so come, a replicare, mentre mi ustiono il palato buttando giù un caffé troppo bollente, e la vista di quel succulento piatto di spaghetti alle vongole, campeggiante nella foto inviatami poco prima, non fa che accrescere l’acquolina in bocca, oltre alla comprensibile voglia, mista ad invidia sottile, di barattare il mio misero pranzo con quella pietanza immortalata, in apparenza ben più gustosa. Direi che il suo messaggio ha ottenuto senza dubbio l’effetto desiderato: perché è per questo che, smartphone alla mano, fotografiamo come forsennati milioni di portate rese esteticamente impeccabili, grazie a quella dedizione spasmodica, un tempo appannaggio esclusivo di personaggi da libro di ricette come Wilma de Angelis o suor Germana. E’ per questo che curiamo allo stremo impiattamento e presentazione di qualsiasi prelibatezza, vera o presunta, uscita dalle nostre mani, sempre in preda alla criticabile ma diffusissima smania di condividerla sui social non appena poggiata quell’ultima foglia di basilico sulla sua sommità. Per cercare, nel più vasto pubblico del web, maggiore o incondizionata approvazione, consensi e commenti lusinghieri, per coccolare il nostro ego culinario con il moltiplicarsi costante di like, stelline o cuoricini, per ottenere in risposta quell’entusiasmo che mariti, mogli, fidanzate/i o figli troppo distratti a tavola non sembrano ugualmente riservare ai nostri piatti così amorevolmente preparati, spesso al contrario demoliti da critiche del tipo “però manca un po’ di sale” o “secondo me è sbagliata la cottura!”. Per metterci in mostra, e forse anche alla prova, su di un terreno più familiare, democratico, a portata di mano, come lo è poi la cucina, per regalare finalmente una vetrina degna e spaziosa alle nostre supposte abilità ai fornelli, fino ad oggi tenute nascoste fra le mura domestiche o al massimo svelate a parenti e amici utilizzati come cavie dei nostri peggiori esperimenti con il cibo. Contagiosa moda collettiva o frontiera recente della vanità 2.0, il foodspotting (questo il termine corretto per descrivere la mania di inondare la rete, Instagram in primis, con foto di piatti tutte noiosamente uguali a sé) è anche l’ultimo bersaglio della nuova e riuscitissima campagna Ikea (video allegato), l’arcinoto colosso svedese di arredamento colpevole di aver riempito le nostre case con mobili dai nomi impronunciabili e di aver trasformato in un incubo i nostri week-end di shopping forzato tra mensole da misurare e piumoni talvolta esagerati per le più miti temperature nostrane. Con la medesima ironia e l’efficacia già notate nelle precedenti pubblicità ideate dallo stesso gruppo, lo spot citato si scaglia così contro l’inutile ossessione quotidiana di fotografare e condividere sulle proprie pagine internet i piatti prima ancora di poterli assaggiare, mettendo in scena un raffinato ambiente aristocratico settecentesco e ipotizzando la ricerca di potenziali gradimenti virtuali in quell’epoca, in un tripudio di costumi sfarzosi, volti pallidamente truccati e parrucche (peccato quest’ultime non tornino di moda, ne approfitterei subito). Con un messaggio finale piuttosto esplicito “Let’s relax. It’s a meal“. Rilassiamoci, è solo cibo. Parole che terremo bene a mente quando, magari contro la nostra volontà, ci ritroveremo proprio all’Ikea a rigirare tra le mani un piccolo barattolo di SILL SOMMAR (aringhe marinate), tentando di intuirne, forse invano, il contenuto.

Chi mi ama…

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“Non hai Instagram? E quindi dove posso seguirti?” esplode in tutto il suo stupore, a mio avviso ingiustificato, un’esuberante pr conosciuta tra un assaggio di crostini di pane nero e un ottimo bicchiere di Merlot durante uno dei tanti eventi enogastronomici a cui talvolta presenziamo, fingendo perfino un briciolo d’interesse per il menu fra il bizzarro e l’indecifrabile che ci verrà propinato (“davvero servono del sushi di mortadella? ma è pesce o suino?”), e tralasciando le reali motivazioni che ci hanno spinto ad accettare l’invito (in ordine sparso l’organizzazione della serata ad opera di amici di amici che si ricordano di te come quello “così carino e simpatico”, la tua vita mondana oramai semiassente che reclama un minimo di attenzioni in più e soprattutto la vuota desolazione del frigo ad attenderti a casa). Il punto è che ad un qualsiasi interlocutore occasionale, magari colpito dal tuo patinatissimo biglietto da visita al punto da immaginare quella dicitura professionale di fashion contributor/writer/expert come un turbinio di occasioni sfavillanti da immortalare ogni secondo e condividere seduta stante sul maggior numero possibile di social network, di questi tempi pare realmente incomprensibile che tu non abbia mai avvertito l’esigenza di deliziare eventuali follower con valanghe di scatti giornalieri della tua, ben più ordinaria, quotidianità. Che occorre naturalmente rendere assai figa nelle foto per mezzo di un’apposita profusione di espedienti quali filtri (come i numerosi effetti illumina-volto, da conduttrice tv stagionata) inquadrature finto – casuali, milioni di hashtag introduttivi stuzzicanti (del tipo #style, #cool, #loveisintheair #everywhereIlookaround). In altre parole sembrerebbe inconcepibile oggigiorno valutare adeguatamente popolarità e credibilità in rete e perché no, nutrire allo stesso tempo la necessaria vanità 2.0, senza possedere un numero quantomeno decente di fedelissimi e non sempre conosciuti seguaci, pronti ad elargire pollici su o faccine sorridenti di apprezzamento, cuoricini rossi lampeggianti, like od ogni altra rapida reazione da tastiera, tutti simboli di momentanea stima che la genialità miliardaria degli ideatori di social ci mette ogni giorno a disposizione come strumento di valutazione delle idee, delle battute o dei lavori altrui, condivisi sul web attraverso i propri account Facebook, Twitter e compagnia bella. E se quel “pedinamento” virtuale sconfinasse per un giorno nelle nostre vite reali? E’ la riflessione, singolare e forse un tantinello inquietante, a cui giunge il lavoro di Lauren McCarthy, artista digitale e programmatrice newyorkese, ideatrice del progetto Follower (http://follower.today/#welcome), un sito corredato di app che su richiesta permetterebbe appunto di essere effettivamente tallonati per qualche ora, ovviamente a debita distanza, da un misterioso follower in carne ed ossa, incaricato dunque di seguire i nostri, anche banali, spostamenti giornalieri. A chi trova l’idea di avere un pedinatore in incognito stuzzicante più che da brivido, basterà così una semplice iscrizione al sito, compilare la relativa domanda, e se la procedura andrà a buon fine, scaricare l’app che tramite segnale Gps fornirà la sua esatta posizione all’enigmatico follower; “l’inseguimento” si concluderà poi nelle ore successive con messaggio di notifica della sua avvenuta fine, accompagnato da una foto che testimonierebbe l’attuazione dello “spionaggio” richiesto in un momento qualunque della giornata (da evitare dunque quei comportamenti che si soliti avere quando si è certi di non essere osservati, tipo scarpe tolte sotto ai tavoli o dita nel naso). Che aggiungere? Al di là dell’apparente insensatezza della questione e del momentaneo limite geografico del progetto (per ora solo realizzabile a New York e San Francisco) impossibile non coglierne l’intuizione davvero audace, da valida performance artistica più che da applicazione forse discutibile: tentare di abbattere il limite esistente fra universo virtuale e reale, traghettando l’ordinarietà delle regole dell’uno nella complessità di attuazione nell’altro. Ricordando infine che l’arte, per essere tale, deve essere specchio ed amplificatore della società contemporanea, che occorre rivelare in tutte le sue più assurde contraddizioni: compresa quella smania di voler condividere con sconosciuti ogni singolo momento della nostra, semplicissima, vita (dita nel naso eslcuse).

Gentilezza a casaccio

▶ “Unsung Hero” (Official HD) : TVC Thai Life Insurance 2014 : โฆษณาไทยประกันชีวิต 2557 – YouTube.

Se la cattiveria avesse un regno, questo sarebbe senza dubbio il sovraffollato e crudele impero di internet. E’ in rete infatti che, a dispetto di una educazione basilare (più o meno) ricevuta da tutti e del necessario rispetto per le principali norme di una civile convivenza, materiale in teoria da maneggiare quotidianamente, ci trasformiamo al contrario in esseri sgarbati, rozzi, dediti a una violenza e ad un’aggressività verbale a cui di rado ricorriamo invece nella vita reale. Trincerati dietro i nostri pc, armati solo di sarcasmo e tastiera, sicuri soprattutto che una discussione o un diverbio online non possano (almeno sul momento) degenerare in uno scontro fisico, in cui forse avremmo la peggio, ci lanciamo in commenti perfidi, affermazioni offensive e inopportune, frasi ciniche e di dubbio gusto, come se il loro concretizzarsi solo su uno schermo potesse in qualche modo attutirne la gravità dei contenuti. L’esempio più calzante sono ovviamente i social network: sempre più stressati, frustrati, inaspriti da un tran tran che non offre le medesime e quasi catartiche occasioni di sfogo, ecco che riempiamo i nostri spazi sul web di tutto ciò che vorremmo dire ma che forse, non saremmo mai davvero in grado di pronunciare in pubblico, in fondo anche perché unicamente la rete riesce darci l’illusione di possedere un nostro, fedele e ammirato, pubblico da deliziare, per quanto solo virtuale. Scommetto che anche voi infatti vi ritroverete spesso con la home di Facebook letteralmente sommersa dai post di quell’amico/a che non fa che lagnarsi di continuo e soprattutto minacciare botte a chicchessia, quando poi, nella vita di tutti i giorni, è la persona più mansueta o innocua che conosciate, incapace perfino di una qualsiasi risposta maleducata. Oppure vi sarà successo, come a me, di seguire questa o quella “twistar” perché in grado di condensare delle originali perle di perfidia in soli 140 caratteri, e poi sentirla intervistata in tv riuscire a balbettare solo delle banalissime e insulse risposte, con il sospetto crescente che il proprio account Twitter sia stato dato in affidamento a qualcun altro forse più in gamba. Fatto sta che la maggior parte degli interventi sul web si contraddistinguono, riscuotendo dovunque il proprio successo, per una maggiore scorrettezza di contenuti, per i toni fortemente polemici o battaglieri, per un piglio rabbioso che talvolta poi non possiede neppure la più pallida ombra di equivalenza nella vita reale. Succede anche che, paradossalmente, il curioso popolo di internet, lo stesso che si esprime nella maggior parte dei casi con un humour tagliente e feroce, si trasformi invece d’un tratto nella quintessenza della sensibilità, rivelando al contrario un cuore tenero, una dolcezza inimmaginabile e quasi stucchevole. Ecco dunque fioccare e moltiplicarsi gli appelli di stampo animalista (solo in questi giorni qualche migliaio quelli per la salvaguardia degli agnelli di Pasqua), le onnipresenti clip e immagini di cagnolini e gattini dal musetto simpatico che spingerebbero anche un eremita convinto alla compagnia di un animale domestico, e ancora accorati appelli alla solidarietà per bambini sofferenti (di cui si diffondono le storie personali sin nei dettagli), per reparti ospedalieri, associazioni umanitarie, in un guazzabuglio di foto, video e commenti in cui poter ogni volta trovare di sicuro parole del tipo “toccante”, “commovente” “ho pianto per settimane”. Di recente è stato lo spot Unsung Hero (video allegato), prodotto e realizzato dalla compagnia di assicurazioni thailandese Thai Life Insurance ad aver catalizzato l’attenzione dei navigatori sul web, superando le 10 milioni di visualizzazioni e diventando così piccolo caso internazionale, grazie a un messaggio diretto ed inequivocabile: si può essere generosi, altruisti, disponibili senza necessariamente aspettarsi qualcosa in cambio. La gentilezza fine a se stessa, senza la certezza di future lodi o ricompense, può essere ugualmente appagante. La condivisione in rete dello spot è stata, naturalmente, altissima. La sua messa in pratica, come prevedibile, al momento, molto, molto meno.

Internet vs nonni

Da uomo d’intelligenza acuta e dalla battuta sempre pungente mio nonno Guerrino sapeva benissimo di possedere un nome che a noi nipoti non piaceva, così come forse non era mai piaciuto neanche a lui, e ci permetteva di chiamarlo più semplicemente nonno Guasti. Per la sua carnagione bruna e olivastra, che ho ereditato insieme alla precoce calvizie, nonno Marsilio invece era conosciuto in paese con il soprannome di Turchetto, e difficilmente, da bambino, ovunque andassi, sfuggivo a chi con una sola occhiata riusciva a risalire velocemente alla parentela. A nonna Rina piaceva spesso fermarsi a scambiare quattro chiacchiere con le mie amiche, che riempiva di complimenti, a volte esagerando un po’, forse nella mai abbandonata speranza che trovassi finalmente una fidanzata. L’ultima a salutarci, due anni fa, è stata nonna Giulia, per la quale ero stato sempre Alesandro, con una “s” sola: aveva mani d’oro in cucina e lavorava la maglia ai ferri con un’abilità e una velocità mai più viste altrove, tanto da corredare per decenni tutta la famiglia (1 marito, 4 figlie, 7 nipoti, ben 12 persone), ogni inverno, di calzette di lana per la notte che ancora oggi conservo. Parlare di nonni è una di quella operazioni che si tingono di immediata e inevitabile nostalgia, perché ti costringe a viaggiare a ritroso nel tempo, a ripescare nelle pieghe della memoria i luoghi e gli odori dell’infanzia che, smarriti quasi del tutto nel percorso della vita, rimangono solo a popolare i nostri ricordi e i nostri sogni di adulti. Li ho visti tutti, i miei nonni, cambiare a poco a poco sotto il mio sguardo, trasformarsi così da creature gigantesche che mi tenevano in braccio a esseri piccoli piccoli, sempre più affaticati dal peso degli anni ma con il sorriso inalterato, loro che nella mia fantasia consideravo invincibili, perché sopravvissuti a un mondo inimmaginabile, fatto di racconti e parole che suonavano terribili, come guerra, povertà, lutti. Ecco perchè non mi sorprende ma in parte mi rattrista il risultato a cui è giunta una recente indagine, citata dal magazine britannico Telegraph (http://www.telegraph.co.uk/technology/google/9899171/How-grandparents-are-being-replaced-by-Google.html) che sottolinea come, nell’era digitale e di internet, tre nonni su quattro siano stati praticamente “sostituiti” dalla rete. In sostanza, invece di ricorrere alla saggezza del familiare più anziano, le nuove generazioni, per qualsiasi consiglio, domanda, anche per un banale aiuto con i compiti di scuola, preferiscono affidarsi a Google o a Wikipedia; che, di sicuro, troveranno la risposta corretta più velocemente e senza bisogno di ripetere la domanda troppe volte per problemi di udito, ma che forse, tolgono alla ricerca quel valore umano chiamato esperienza di cui i nonni sono senza dubbio i detentori. Non so quale sia il vostro parere, se, come sempre, di tutta la vicenda, il sentimentale che talvolta prevale in me non riesce a cogliere il lato positivo. Fatto sta che i miei genitori, adesso nonni, hanno visto bene di munirsi di un tablet con cui al momento intrattengono mia nipote, forse per la paura di essere rimpiazzati, in futuro, da un insulso motore di ricerca.