Un anno meraviglioso?

20141222_c4_fb-post1

“Da guardare” in realtà, come recita la categoria in cui vado ad inserire il presente post, l’ultimo in programma per questo, a tratti sfibrante, 2014, c’è ben poco, niente di più che un’immaginetta quasi dozzinale da utilizzare come semplice appiglio a ciò che avrete di sicuro già visto, forse sino alla nausea, ampiamente condiviso, a volte con reale ed incomprensibile entusiasmo, da decine di vostri amici di Facebook sulle proprie pagine del citato social. E cioè la schermata iniziale di quella stuzzicante e utilizzatissima funzione in grado di garantire a chiunque una veloce ripassatina virtuale dell’anno ormai agli sgoccioli, una rapida e disorganica narrazione per foto, ripescate tra quelle più cliccate o commentate ogni mese sul proprio diario, dei passati 365 giorni, una sorta di best of personale, inaspettato e, a quanto pare, gradito regalo, di cui la magnanimità miliardaria di Mark Zuckerberg ci ha da poco omaggiati a sorpresa. E poco importa se dopo quell’universale scritta “è stato un anno meraviglioso”, che inaugura indifferentemente il presunto viaggio elettrizzante nel 2014 di ciascuno, compare poi uno scatto impietoso del vostro ciambellone carbonizzato che a Febbraio avevate dimenticato in forno, rischiando di mandare a fuoco l’intera cucina, o il drammatico selfie del vostro faccino ricoperto da pustole rosse perché in preda a una devastante reazione allergica che vi ha spedito al pronto soccorso soltanto lo scorso Settembre. Al generatore automatico dei recenti momenti felici di Facebook non si può certamente richiedere buongusto, più cuore o un maggior tatto nel frugare tra le nostre migliaia di pessime foto che noi stessi abbiamo avuto il fegato di condividere, per vanità, leggerezza o errore, negli ultimi 12 mesi, con risultati più o meno riprovevoli. Perché, in sostanza, quella funzione è quanto di più lontano esista dalla nostra reale quotidianità: un banale e parziale condensato di vita appena trascorsa, riesumato per freddo volere di un algoritmo, che arriva a riproporre alcune immagini già pubblicate a seconda dei loro consensi ottenuti. Fine. Non c’è più alcun nostro criterio di valutazione, non essendoci naturalmente la nostra sensibilità chiamata a scegliere questo o quello scatto, soprattutto non c’è più la minima traccia di un concreto aggancio emozionale con il nostro vissuto, svanita com’è da un pezzo la ragione che ci aveva spinti allora ad azzardare una più vasta condivisione sul web: con la prevedibile conseguenza che quei brevi ma ormai inevitabili fotoracconti illustrati del 2014 di Facebook risultino alla fine, tra la generale insulsaggine dei disegnini colorati che li incorniciano, tutti così mediocremente simili gli uni agli altri.

So che quanto sto per scrivere sembrerà illogico, campato in aria, forse perfino di cattivo gusto, ma tra poche ore mi aspetta un funerale (tra l’altro sono quasi certo che la persona che andrò a salutare per l’ultima volta avrebbe apprezzato questa frase un po’ cinica, oltre al mio personalissimo modo di dedicarle un pensiero qua sopra): circostanza che quando piomba di colpo in pieno clima di feste sembra ancor più fuori luogo, come se il dolore fosse qualcosa di facilmente relegabile in momenti più opportuni o come se esistessero davvero periodi più o meno appropriati alle lacrime. Ebbene, è da qualche giorno che non faccio altro che ripercorrere nella testa gli ultimi miei ricordi legati alla persona in questione: niente di eclatante, solo frammenti di episodi qualunque che avrei abbandonato alla memoria se adesso non assumessero ben altro valore. Il fermarsi a raccogliere insieme delle conchiglie sulla riva mentre gli altri optavano per un estenuante giro in pedalò, un piccolo album di disegni, raffigurante soprattutto mani, mostrato con timore ed orgoglio di fronte ad un aperitivo, dei consigli su come utilizzare un cedro enorme ricevuto in regalo e rimasto ad ingiallire sotto i raggi di una finestra minuscola ma luminosissima. Situazioni ordinarie, vissute allora con distratta superficialità, che non avrei mai immaginato un giorno di dover affannarmi a proteggere dallo scorrere del tempo e che solo adesso si ripresentano ai miei occhi rivestiti di una nuova e speciale luce. Non avrebbero di certo ricevuto molti “like” se le avessi condivise al momento sulla mia pagina, difficilmente sarebbero comparse in un eventuale riassunto virtuale ad opera di un social, ma non si può certo negare il loro essere entrate di diritto tra i miei ricordi più importanti di questo anno ormai al termine. Ecco allora il mio personale augurio per l’imminente arrivo del 2015: provate nei prossimi mesi a prestare la necessaria attenzione per riconoscere chi o che cosa varrebbe davvero la pena di ricordare, e non solo qui, tra 365 giorni esatti. Che sia realmente per tutti voi un anno meraviglioso.

App – erò!

Se non ci fosse da riderci su, la questione alcune volte potrebbe trasformarsi per me in un vero e proprio dramma. Il fatto è che non conosco affatto mezze misure. Diciamo pure che sono vittima di alcuni meccanismi di natura maniacale che spesso riescono a prendere del tutto il controllo della mia testa, e non facendo io dall’inizio alcun tipo di opposizione, mi lascio tranquillamente guidare ogni volta sul ciglio di circoli viziosi, dall’apparenza innocua, che in breve tempo si trasformano invece in veri e propri tunnel di dipendenza, di cui riconosco la pericolosità troppo tardi, quando ormai vi sono definitivamente annegato. Per fortuna non si tratta (quasi) mai di abitudini poi così nocive o letali: le droghe, ad esempio, non mi hanno mai neanche lontanamente incuriosito, ma non escludo che, se cominciassi, mi troverei sulla strada della più misera perdizione nel giro di dieci, al massimo venti giorni. Ecco, forse è proprio questo il punto: se sperimento una qualsiasi cosa da cui riesco a trarre anche il minimo piacere o divertimento, questa assume immediatamente le sembianze della mia nuova fonte di beatitudine, un’occupazione o una fantasia prediletta in cui mi butto a capofitto tralasciando senza pudore qualsiasi altro impegno o incombenza, un’urgenza e una priorità che non lasciano più spazio ad ulteriori attività. Ed è sempre stato così, sin da bambino: se avvertivo nascere una nuova passione per un argomento studiato a scuola, l’assecondavo fino a conoscerne tutto lo scibile, passando intere giornate sui libri, a sviscerarlo sotto ogni suo aspetto, anche secondario, per saperne di più dei miei stessi insegnanti. Stessa cosa per lo sport (che ho abbandonato anni fa, lasciando libera la natura di compiere il suo passaggio distruttivo sul mio corpo): iscritto a un semplice corso di nuoto, il mese successivo ero in vasca, ogni giorno, anche il sabato, a dimenare bracciate come un forsennato per ore e svariati chilometri. Quando poi mi sono dato alla corsa, ho sfidato quotidianamente strade sconnesse, salite e intemperie, ma non riuscivo a rinunciare neppure di fronte alla follia di un giro in pieno inverno, sotto la pioggia scrosciante, a orari adesso improponibili. Per non parlare del cibo: capacissimo, ancora oggi, di divorare in pochi minuti e senza pentimenti, intere scatole o stecche di cioccolato (meglio se fondente), quando poi decido di mettermi a dieta arrivo a perdere peso al ritmo di 5/6 kg al mese (mai più preso un simile slancio però, neanche ora che ne avrei un gran bisogno). Inutile aggiungere che simili pulsioni, di colpo, vengono poi impunemente abbandonate dal sottoscritto da un giorno all’altro, senza peraltro una vera ragione. Non si tratta ovviamente di tirar fuori un improvviso e salvifico rigore, qualità del tutto assente in questo mente bizzarra, né di forza di volontà, mai posseduta neanche a sprazzi, né tantomeno di self control, risorsa preziosa di cui avrei invece disperata necessità ogni volta che mi sfuggo. Più banalmente, a un certo punto, mi stufo. E ciò che fino a un minuto prima mi appariva così insostituibile o irrinunciabile esaurisce dunque il suo potere magnetico ai miei occhi, i quali di sicuro andranno altrove in cerca di qualcos’altro con cui rimpiazzarlo. Circostanza che al momento aspetto accada con la mia attuale passione culinaria, la marmellata di zucca, che, manco a dirlo, divoro barattolo dopo barattolo, e che mi ha reso di nuovo, come in tutti i casi precedenti, una creatura quasi del tutto monofaga.

Sul podio delle mie recenti ossessioni di questi anni, che almeno non incidono sull’ordine degli acquisti al supermercato o sulle mie drastiche oscillazioni di peso, è salita con sorpresa un’irrefrenabile quanto al momento totalizzante dipendenza da social network e app. Eppure non mi ritengo un essere particolarmente predisposto o dedito in generale al mondo della tecnologia: ho imparato a fatica a far funzionare un pc, a suon di imprecazioni e “fatal error”, e compro un nuovo telefonino solo in caso di necessità, dopo uno smarrimento, un furto o quando di sua iniziativa decide di tuffarsi nella pozzanghera più profonda di tutta la provincia (il tutto ovviamente già accaduto). Ma dal giorno della mia sciagurata iscrizione a Facebook, ad esempio, da cui non sono riuscito a staccarmi più di dieci minuti, anche la notte, per le prime tre settimane, continuo imperterrito a condividere con i miei amici frasi sceme, link musicali e foto di dubbio gusto con un ritmo spasmodico, che ha del preoccupante. Poi è arrivato il momento di Twitter: che mi aveva stimolato con l’illusione di poter conversare o interagire con personaggi noti o che ammiro profondamente, i quali, in tutta risposta, nel migliore dei casi invece mi ignorano, nel peggiore riescono perfino a mortificarmi o massacrarmi in soli 140 caratteri. Capitolo a parte merita la mia ultima mania, lo scambio di messaggini tramite Whatsapp: piattaforma con cui divulgo informazioni basilari (come la lista della spesa o i milioni di inutili emoticon che inoltro al mio amore), oppure tengo monitorata, tramite assillanti richieste di foto, la crescita dei figli dei miei amici, soprattutto vengo sommerso da quel disgraziato di mio cognato da una quantità impressionante di video, spesso hard, che cancello all’istante prima che mi partano a tutto volume in bus o in treno. Con il risultato che ad ogni vibrazione vera o presunta che pare giungermi dalla borsa, arrivo a controllare compulsivamente, ogni sei secondi, il telefono, in attesa di quel simpatico dischetto verde foriero di un qualche nuovo messaggio in arrivo. E adesso che l’app è stata acquistata qualche giorno fa dall’onnipresente Marc Zuckerberg, artefice dello stesso Facebook, per la modica cifra di 19 miliardi di dollari (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2014/02/19/Facebook-compra-WhatsApp-19-miliardi-dollari_10109224.html) operazione che l’ha reso, di fatto, il proprietario di tutto ciò che possiedo sul mio cellulare, ad eccezione di agenda, calcolatrice e sveglia, ho come l’impressione che dovrei moderare o  troncare del tutto la mia dipendenza, per evitare di dare in pasto ulteriori dettagli sulla mia vita privata a qualche squalo della comunicazione. Sarà ormai troppo tardi? Anche per iscrivermi di nuovo in piscina?

Peccati da social

Stavolta temo proprio di non capire. Eppure sull’argomento dovrei essere piuttosto ferrato. Le dinamiche dei social network, Facebook in primis, principale colpevole nel dimezzare la produttività delle mie giornate lavorative, le trovo così appassionanti e divertenti che siamo di fronte all’unico caso in cui sia riuscito a vincere le mie note resistenze di fronte al mondo della tecnologia in generale.  Di “invidia” invece non ne so nulla: si dice, a tal proposito, che sia l’unico dei sette vizi capitali che non si riesce mai a confessare. Ammettiamo molto più facilmente di essere creature irascibili, di sfoderare tutta l’avarizia degna di un personaggio di Molière e talvolta, perfino con una punta di orgoglio, ci vantiamo della nostra natura lasciva, incline alla lussuria. Ah, no, non stavo parlando di me. Io non rientro neanche nelle categorie appena citate.  Diciamo che sul mio personale podio peccaminoso svetta incontrastata la superbia (ebbene sì), seguita, ex aequo, da gola e accidia. Non che di tale primato vada orgoglioso, intendiamoci. Ma, di fatto, l’immotivata sopravvalutazione delle mie qualità esclude automaticamente il “rosicare” per il benessere altrui. Non invidio, e non ho mai invidiato qualcun altro, perchè non ho mai desiderato essere qualcun altro. Ma torniamo all’argomento principale, perchè se ricomincio a scrivere di me poi divago e non concludo (vedete, la superbia…o è egocentrismo? Vabbè, tanto li possiedo di sicuro entrambi). Dicevamo, l’invidia: stando alle conclusioni non ancora ufficiali di uno studio condotto da due Università tedesche, in pubblicazione il prossimo mese, ma già anticipato proprio ieri dalle pagine di numerosi quotidiani internazionali e dai principali siti (http://www.repubblica.it/tecnologia/2013/01/22/news/facebook_provoca_infelicit-51060718/?ref=HREC2-18 ) Facebook causerebbe ai suoi utenti, oltre alla deprecabile nullafacenza da ufficio, al continuo cazzeggio clandestino e alla preoccupante dipendenza compulsiva da gioco (che vi impedisce, al momento, di staccarvi da Ruzzle), anche un costante senso di infelicità e frustrazione. Motivo? L’invidia che scaturisce nel vedere sulle pagine dei vostri amici, la loro, vera o presunta (lo sappiamo, su Facebook, si finge benissimo) ma comunque strombazzatissima, felicità. Permettetemi, a questo punto, di dissentire: dopo 4 anni, quasi 5, di permanenza del mio profilo, 3 o 4 diverse reiscrizioni, centinaia di contatti, innumerevoli commenti e pollici su di apprezzamento, il mio è un parere che possiamo presuntuosamente definire da esperto. Perciò, tentiamo di fare chiarezza: ma chi si azzarderebbe mai, non solo a definirsi felice, ma anche soltanto ad accennare un qualsivoglia moto di allegria e contentezza su Facebook? Siamo tutti uomini di mondo, suvvia, chi si dichiara pienamente appagato e soddisfatto di se’ o della proprio vita rimane sempre un po’ sulle balle. I social sono ormai un’efficace vetrina aperta sulla nostra esistenza, dove allestiamo ciò che più attrae: cerchiamo complicità, comprensione, solidarietà. Perciò sulle nostre pagine ci sfoghiamo e ci lamentiamo, di continuo: del lavoro, della politica, dell’amicizia, dell’amore, della nostra quotidianità in generale. Che, di sicuro, è molto più ricca di apprezzamenti e di momenti piacevoli di quanto vogliamo far credere, ma perchè ammetterlo? Risultiamo di gran lunga più simpatici nella creazione di un nostro alter ego ironicamente sfigato che  nel sottolineare continuamente ciò che invece funziona. Provate voi stessi, anche adesso, a dare un’occhiata alla vostra home di Facebook e a contare i post da includere in un’eventuale categoria “felicità”: ne avete molti? Dubito. Perchè forse sarà anche meglio suscitare invidia che compassione: ma di quella virtuale, al momento, ne facciamo volentieri a meno.