Girl power

Verizon Commercial 2014 | Inspire Her Mind – Extended | Verizon Wireless – YouTube.

Succede raramente, ma a volte, proprio come in quelle scene dei film in cui la telecamera si innalza a poco a poco sul protagonista per abbracciare nell’inquadratura tutto ciò che lo circonda, ho come una sorta di alienante e più oggettiva percezione di me, un punto di vista estraneo e quasi sospeso nel tempo, che mi spinge a chiedermi cosa stia facendo lì in quel preciso istante e cosa penserebbe, casomai, un qualunque, sconosciuto, spettatore. Sono naturalmente attimi di riflessiva lucidità in cui a prendere il sopravvento è quella spiacevole ed umanissima sensazione di sentirsi a disagio, direi forse fuori luogo, nella maggior parte dei casi terribilmente stupidi e in questo, tra l’altro, in ottima compagnia. Ed è ciò che ho avvertito con chiarezza, rimanendone in parte turbato, quando proprio l’altro giorno, per lavoro, mi sono ritrovato in un chiassoso parterre ad assistere ad una sfilata di un noto brand di moda per bambini. Ebbene, all’uscita finale, con tutti i piccoli modelli che avanzavano tra gli applausi e gli schiamazzi di stampa, compratori e genitori presenti intorno alla mini-passerella, ho provato a lanciare uno sguardo più obiettivo e critico alla curiosa scena intorno a me, così riassumibile: decine di adulti sovraeccitati che osannavano e incitavano i loro pargoli, alcuni dei quali apparivano divertiti, altri disinvolti, molti altri invece intimiditi per non dire addirttura terrorizzati. Non discuto la necessità e la, spesso presente, qualità riconoscibile nelle tante collezioni di abbigliamento per l’infanzia: in numerosi casi si tratta di lavori eccellenti, frutto dell’impegno di piccole e medie imprese, anche italiane, che vantano decenni di tradizione nel settore e una cura ineccepibile nella confezione di vestiti, calzature e accessori, fiore all’occhiello di una vocazione artigianale ancora oggi, per fortuna, esistente. Si tratta piuttosto di rivedere il perché sia ritenuto comunemente accettato o accettabile il tradurre alla lettera una modalità di presentazione di un prodotto, nello specifico una sfilata o un servizio fotografico, che, se ancor oggi valutati come gli strumenti di diffusione mediatica più adeguati o funzionali al comune alafabeto del fashion – system, appaiono però una dissonante forzatura una volta calati nel mondo dei più piccoli. Me lo sono chiesto per tutto il giorno, quando ho continuato ad incrociare, nella frenesia dei backstage, graziose e vivaci bambine innaturalmente atteggiate a top – model, la freschezza tipica dei loro visi nascosta e stravolta da make – up e capelli ossigenati, talvolta trainate ed esibite come merce da esporre da genitori smaniosi di un briciolo fugace di fama o di approvazione. E continuo a chiedermelo ancora oggi, quando, di fronte al nuovo, efficace, spot della compagnia di telecomunicazioni americana Verizon (video allegato), centinaia di altre domande del tutto simili si rincorrono e si moltiplicano: è giusto pretendere da una bambina, sin dai primi anni, di adeguarsi alla rigidità di un desiderio sociale che ne enfatizzi solo la piacevolezza e la cura estetica, è giusto sottoporla alla discutibile pressione di corrispondere a un modello universale basato su un’immagine stereotipata, tutta moine e civetteria, con cui il mondo femminile viene spesso e superficialmente liquidato? Proviamo allora a fermarci solo per un minuto, quello necessario per capire il messaggio dello spot: e proviamo davvero a scoprire se esiste una profonda ragione per cui femminilità debba fare più spesso rima con quella sana curiosità in ogni settore, che occorrerebbe, al contrario, rispettare, salvaguardare e coltivare.

Suzy e gli altri

Peppa Pig – Meet the characters – YouTube.

A parte una breve e infelice parentesi come insegnante di italiano in una scuola per stranieri, conclusasi con la fallimentare constatazione di non essere riuscito neanche a far pronunciare correttamente la parola “grazie” ai miei studenti, che ripetevano priva della “e” finale, mandandomi su tutte le furie, pochi mesi dopo la laurea ottenni il mio primo lavoro, o qualcosa del genere: operatore didattico nei musei. Il che significava avere a che fare, più che con quadri e sculture, con il disinteresse o la curiosità di intere classi scolastiche, con le domande ingenue o volutamente ingannevoli di ragazzi, ma soprattutto di bambini, spesso piccoli, più spesso piccolissimi. E’ stata dura: perché se sei poco abituato, come lo ero io, all’immediatezza, all’imprevedibilità e alla disarmante confidenza di comportamenti e di reazioni di cui sono capaci quegli esserini alti mezzo metro, è finita. Hanno la meglio su di te in quattro minuti scarsi. Il tempo di capire che per conquistarti basta il minimo gesto tenero, come prenderti d’un tratto la mano, quando non addirittura tentare di salirti in braccio o sulle spalle, anche se non ti hanno mai visto prima in vita loro, ed è subito disfatta. Non sei più il tizio del museo da ascoltare con interesse e forse rispetto, ma un altro compagno da coinvolgere in un nuovo gioco, meglio se molto vivace. Una lezione che avevo imparato bene, insieme a quella di non farmi cogliere impreparato dalle riflessioni suscitate dalla mia calvizie (“mio papà ha più capelli di te, perchè lui sopra le orecchie ce li ha”) o dai miei gioielli (“perché hai tanti orecchini e tanti anelli? e la tua fidanzata/moglie/mamma che dice?”), e di riuscire a dribblare la loro continua e frivola richiesta di attenzioni (io c’ho le scarpe nuove/le figurine dell’Uomo Ragno/lo smalto coi brillantini).

Lezione dimenticata: con Giulia, la mia nipotina di due anni dal visino angelico che cozza invece con un carattere peperino e ostinato, vesto i più classici panni dello zio – zerbino. Quello che nelle ore di babysitteraggio, motivate da un eccesso di fiducia, incoscienza o impegni di mia sorella, si annichilisce recitando trenta volte di seguito la fiaba della principessa Sofia e il rospo, giocando all’aereoplanino col cibo che non riuscirò mai a farle mangiare o alla transumanza di peluche da un divano all’altro, oppure ballando insieme a perdifiato i pezzi di Beyoncé che le ho insegnato con orgoglio. Ciò che avevo ugualmente dimenticato, e che Giulia mi ha rinfrescato, è quella magnifica assenza di pregiudizi e quella vocazione alla tolleranza, tipica dell’infanzia, oggigiorno perfettamente compresa dai programmi tv per bambini. Infatti, anche se molti studi recenti sottolineano, forse a ragione,  i potenziali danni che il trascorrere troppo tempo davanti allo schermo potrebbe causare loro negli anni (http://www.ansa.it/web/notizie/specializzati/saluteebenessere/2013/03/25/Troppa-tv-5-anni-Rischio-piu-aggressivita-7_8456231.html  http://adc.bmj.com/), sono portato a pensare che i personaggi dei cartoni per bambini siano però diventati l’incarnazione della loro piena, disinvolta e naturalissima apertura mentale. Giulia ad esempio, ho scoperto l’altro giorno, impazzisce per Suzy, che poi è una pecora, che è la migliore amica di Peppa, che poi è un maiale (video allegato) e chissenefrega se i due animali tra loro sono così diversi e nella realtà forse non s’incontreranno mai, se non a fette nel bancone della macelleria. Sono e rimarranno amiche per la pelle. Così come non desta loro sorpresa o scandalo se Barbapapà è un fagiolone rosa e Barbamamma un maxi-birillo nero, se spesso nei loro programmi gatti, tartarughe, gabbiani, vanno a scuola, giocano, vivono insieme. Non esistono differenze di forme, specie, razze: tutti possono stringere relazioni, amicizie, formare famiglie, con tutti, senza, distinzioni di alcun tipo. Questo succede nella tv per i bambini: e se avesse infine qualcosa da insegnarci?