Eva contro Eva

Avevo cominciato a sospettarlo già nel lontano 1994, quando, in vacanza con tre amiche a Londra, con il pretesto di imparare un po’ di inglese, ci ritrovammo nella City interamente tappezzata dalle gigantografie di un’ammiccante Eva Herzigova, ritratta a mezzo busto e vestita solo di biancheria intima nera, che implorava di guardarla negli occhi (allego una foto per chi non lo ricorda o all’epoca era troppo giovane, o forse non ancora nato). Era appena sbarcato in Europa il miracoloso Wonderbra, il reggiseno che prometteva curve da pin-up anche a chi usciva dal trauma di un’adolescenza mortificata da soprannomi crudeli come tavola da surf o da stiro, in un decennio in cui l’ideale estetico femminile si avvicinava molto di più a Jessica Rabbit che non alle Winx. Ricordo che nonostante la generale curiosità e la mia insistenza (odio fare shopping per me, ma se devo accompagnare un’amica butto via interi pomeriggi) non riuscii a convincere nessuna delle mie compagne di viaggio a provare, anche solo per scherzo, quel capo che prometteva risultati portentosi. “Guarda, neanche se mi trasformasse in lei” “Sembrerei una del Drive – In (n.d.r. trasmissione tv degli anni ’80)” “A me lì dentro non ne entrerebbe neanche mezza” furono più o meno le loro risposte, che ci fecero ripiegare su un altro programma, cioè un’incursione al Pizza Hut, pubblicizzata proprio da un altro manifesto lì accanto, con altre due top model, Linda Evangelista e Cindy Crawford, che invitavano a provare le nuove Margherita con la crosta al sapore di formaggio. Ora, a distanza di quasi venti anni, non avendo trovato alcuno studio scientifico in grado di spiegarmi perché il 90% delle mie conoscenze femminili non mangia la crosta delle pizze e le abbandona nel piatto, alla mercé del più goloso della tavola (vi sconsiglio comunque quelle al formaggio, non so se esistono ancora ma erano disgustose), mi sono però proprio oggi imbattutto in quest’altra ricerca che fa decisamente al caso mio. Si tratta di una scoperta firmata dell’Università britannica di Warwick (http://www.wbs.ac.uk/news/do-thin-models-and-celebrities-really-help-sell-to-women/), e riportata anche da numerosi siti nazionali come quello dell’AGI (http://www.agi.it/research-e-sviluppo/notizie/201303011218-eco-rt10105-studio_immagini_modelle_possono_compromettere_shopping) che evidenzia come le donne disprezzino in realtà le campagne zeppe di immagini di corpi femminili perfetti, e quindi i prodotti ad esse associati, preferendo invece accostamenti più velati e sottili. In altre parole, croste al formaggio sì, reggiseni no. Beh, forse può dipendere dalla comprovata complessità retrostante gran parte dei ragionamenti delle donne: gli uomini, macchine in genere più semplici, quando si sbilanciano in un “si, va bene” intendono proprio “sì, va bene”. La stessa frase, pronunciata da una bocca femminile, equivale a “Ti avrò anche detto che va bene, ma sai perfettamente che non è così, dovresti conoscermi e sapere cosa mi va bene e cosa no, anche se non te lo dirò mai!”. In parte però temo ci sia anche lo zampino della famigerata e perenne competizione, in ogni campo, tra le esponenti del gentil sesso; lavoro da anni in ambienti a maggioranza femminile, e della tanto sbandierata solidarietà fra donne ne avessi mai vista, anche lontanamente, la più pallida ombra. Più facile assistere a piccole cattiverie, ripicche, sgambetti, tutti mascherati da enormi sorrisi di circostanza, tra colleghe che fingono pubblicamente affetto e a fette poi ci si farebbero volentieri l’una con l’altra. La prima domanda è: perché? La seconda: Eva Herzigova adesso pubblicizza creme antirughe. Qualcuna le ha forse provate?

Distrazioni e decisioni

Ci aspetta una settimana impegnativa. Oddio, non che quella che si è da poco conclusa sia stata una passeggiata di salute. Voglio dire: abbiamo scoperto che perfino un Papa, quando si sente sovrastato dagli acciacchi e dalla gravità dei suoi compiti, può tranquillamente indietreggiare e decidere, come un qualsiasi concorrente a un quiz televisivo “No, grazie, non me la sento di andare avanti, mollo qui”. E non mi venite a fare gli esperti di diritto canonico, perché a parte quella categoria disgraziata di giornalisti chiamati “vaticanisti” che trascorrono le giornate in Piazza S. Pietro ad intervistare suore velate di ogni colore (ma quanti ordini esistono?), pochi erano a conoscenza che il pontefice potesse a un tratto alzare bandiera, rigorosamente bianca. Ad essere proprio sinceri, nessun’altra sua scelta aveva così giovato alla sua immagine: perché negli anni del suo breve pontificato, vuoi per l’intransigenza di certe sue frasi (dette poi con la durezza dell’accento tedesco, che non aiuta), vuoi per quei cappellini demodé e per le scarpine griffate Prada, vuoi per l’assenza di un sorriso bonario che invece possedeva Wojtyla, Benedetto XVI non si è mai particolarmente distinto per simpatia, come il recente (e spesso divertente) massacro mediatico su Twitter ha dimostrato. Adesso che va via, tutti a sottolineare l’umanità, il coraggio e l’umiltà di una una simile decisione: tranne quella minoranza di soliti maligni, fautori delle dietrologie, avvezzi a vomitare cattiverie sui propri blog (e quindi già condannati all’inferno) che continuano a intravedere, tra le parole della sua rinuncia, una mossa abilmente furba. Che altro? Ah, sì, niente di grave. Il nostro pianeta è stato solo sfiorato dal passaggio di un asteroide dal nome che ricorda un colorante per sciroppi (2012 DA14)  e colpito da una pioggia di cristalli di meteorite, in una zona sperduta della Russia (alzi la mano chi sognava una destinazione diversa, diciamo a sfondo politico). Una di quelle notizie che rasserenano insomma, che al minimo rumore proveniente dal cielo, magari un aquilone o un gabbiano, ti fa individuare subito, nel raggio di un km, il muro più vicino sotto cui ripararti perché, francamente, ritrovarti folgorato da un corpo celeste non è proprio la fine che ti auguri. Tralasciando infine l’altra notizia sorprendente, la recente vittoria a Sanremo di un cantante non uscito dalla scuderia della De Filippi (posso confessare che la canzone di Annalisa però mi piace più di quella di Mengoni?), torniamo a noi, a quello cioè che più ci terrà occupata la mente nei prossimi giorni: le elezioni. Lungi da me il voler ribadire le mie simpatie (o antipatie) politiche, tanto, basta dare uno sguardo veloce ai miei post passati per capire chi vorrei ci liberasse definitivamente dalla vacuità di certe promesse tarocche come il suo aspetto. La mia intenzione era invece quella di riflettere insieme su uno studio made in Usa che mi era parso particolarmente appropriato al clima nazionale, pubblicato soltanto il mese scorso sull’autorevole rivista scientifica Social Cognitive and Affective Neuroscience (http://scan.oxfordjournals.org/content/early/2013/01/11/scan.nst004.abstract?sid=aa92a16d-28a2-47b3-82f9-d74c3de7be84). Ve lo riassumo: in prossimità di una decisione importante, se siamo ancora afflitti da dubbi (e chi più di noi italiani in questo momento pre elettorale?) e non siamo minimamente in grado di stabilire quale sia il piano migliore, conviene pensare ad altro. Semplicemente distrarsi: sono sufficienti due minuti, 120 brevi secondi in cui tener occupato il cervello in altre attività, anche banali, ed ecco che, quasi magicamente, torniamo lucidi e pienamente preparati alla scelta che stiamo per compiere. Possibile? Non saprei. Ma tanto vale provare: specialmente se, come me, ormai siete asseufatti dal controllare compulsivamente ogni due minuti e.mail, Facebook, WhatsApp e quant’altro, conviene continuare a farlo anche negli istanti che precedono la sospirata entrata in cabina con schede e matita copiativa. Anche se siete tentati di rinunciare, un po’ come il Papa. O speranzosi nella mira del prossimo meteorite.

Coccole e cervello

La maggior parte dei miei amici ormai si è rassegnata. L’altra, quella cioè che prova ancora ad oppore un’inutile resistenza alle mie smancerie, prima o poi sarà costretta a capitolare. Perché non esiste alternativa: posso trattenermi dal parlare al telefonino con la voce sparata a troppi decibel come se chi mi ascoltasse dall’altra parte fosse in realtà in vetta all’Himalaya e non nella stessa nazione. Posso moderare (ma non troppo) in pubblico la mia risata sguaiata, grazie alla quale, negli anni scolastici, ho saltato quasi la metà delle lezioni perché buttato fuori dall’aula senza troppi riguardi (continuando però a ridere). Posso perfino evitare di attaccare bottone con tutto e tutti: la mia dolce metà, che, a ragione, ironizza sulla mia proverbiale capacità di parlare anche ai muri (e che ormai non si stupisce più di quando tutti i venditori ambulanti o gli zingari della città mi salutano per nome o con un “Ciao, grande!”) proprio l’altra sera ha assistito inerme all’ennesima chiacchierata di un’ora con una coppia di sconosciuti in attesa come noi di un tavolo al ristorante, partita dalla loro innocente confessione di essere clienti abituali del posto. “Simpatici, non trovi?” ho provato ad aggiungere al momento dei saluti, “Li hai sfiniti” mi ha replicato “credo siano fuggiti per paura di dover cenare con noi!”. Dicevo, ho un’infinità di difetti trascurabili (o quasi), che con l’impegno e la sopraggiunta maturità (risate) riesco però a stemperare o mitigare quando mi rendo conto che no, non è proprio il caso di esternare fino in fondo la mia natura incontenibile. Ma se per caso, come avviene in numerosissime occasioni, capita mi affezioni o che nasca una sincera amicizia, non posso farne a meno: divento terribilmente appiccicoso. E’ proprio una necessità fisica: sarò forse invadente e talvolta inopportuno, ma se mi trovo con una persona a cui voglio davvero bene nasce in me l’irrefrenabile l’impulso di abbracciarla spesso, prenderla sottobraccio mentre si passeggia, salutarla sempre col bacino su entrambe le guance e via con tutto il repertorio di tenere cretinate. Il fatto è che dovrei anche rispettare chi è del tutto estraneo a simili slanci: non di rado succede che alcuni dei miei migliori amici, senza scomporsi o manifestare fastidio di fronte alle mie attenzioni semimorbose, si irrigidiscano però come baccalà. Ovviamente li capisco. Fatevene però una ragione: mi fa bene all’umore, sul serio. E vi dirò di più: è scientificamente provato. Risale infatti solo a ieri la notizia della scoperta dei neuroni specializzati nel riconoscere la sensazione di benessere che scaturisce dalle carezze e dagli abbracci (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/scienza/2013/01/31/Scoperti-neuroni-coccole_8169131.html) come sostiene un gruppo di ricercatori del Caltech, l’Istituto di Tecnologia della California, che ha pubblicato i risultati di questo singolare studio sulla rivista Nature (http://www.nature.com/). In realtà questi meccanismi neuronali che traducono in piacere i gesti d’affetto sono stati per il momento individuati soltanto nei topi (vuoi vedere che c’è uno studio approfondito dietro lo “Strapazzami di coccole” di Topo Gigio?), ma non è escluso che siano comuni a tutti i mammiferi. Che aggiungere? Intanto credo di aver trovato un buono spunto di riflessione. O almeno, un alibi più che valido per chi, come me, soffre di esagerata espansività.

Peccati da social

Stavolta temo proprio di non capire. Eppure sull’argomento dovrei essere piuttosto ferrato. Le dinamiche dei social network, Facebook in primis, principale colpevole nel dimezzare la produttività delle mie giornate lavorative, le trovo così appassionanti e divertenti che siamo di fronte all’unico caso in cui sia riuscito a vincere le mie note resistenze di fronte al mondo della tecnologia in generale.  Di “invidia” invece non ne so nulla: si dice, a tal proposito, che sia l’unico dei sette vizi capitali che non si riesce mai a confessare. Ammettiamo molto più facilmente di essere creature irascibili, di sfoderare tutta l’avarizia degna di un personaggio di Molière e talvolta, perfino con una punta di orgoglio, ci vantiamo della nostra natura lasciva, incline alla lussuria. Ah, no, non stavo parlando di me. Io non rientro neanche nelle categorie appena citate.  Diciamo che sul mio personale podio peccaminoso svetta incontrastata la superbia (ebbene sì), seguita, ex aequo, da gola e accidia. Non che di tale primato vada orgoglioso, intendiamoci. Ma, di fatto, l’immotivata sopravvalutazione delle mie qualità esclude automaticamente il “rosicare” per il benessere altrui. Non invidio, e non ho mai invidiato qualcun altro, perchè non ho mai desiderato essere qualcun altro. Ma torniamo all’argomento principale, perchè se ricomincio a scrivere di me poi divago e non concludo (vedete, la superbia…o è egocentrismo? Vabbè, tanto li possiedo di sicuro entrambi). Dicevamo, l’invidia: stando alle conclusioni non ancora ufficiali di uno studio condotto da due Università tedesche, in pubblicazione il prossimo mese, ma già anticipato proprio ieri dalle pagine di numerosi quotidiani internazionali e dai principali siti (http://www.repubblica.it/tecnologia/2013/01/22/news/facebook_provoca_infelicit-51060718/?ref=HREC2-18 ) Facebook causerebbe ai suoi utenti, oltre alla deprecabile nullafacenza da ufficio, al continuo cazzeggio clandestino e alla preoccupante dipendenza compulsiva da gioco (che vi impedisce, al momento, di staccarvi da Ruzzle), anche un costante senso di infelicità e frustrazione. Motivo? L’invidia che scaturisce nel vedere sulle pagine dei vostri amici, la loro, vera o presunta (lo sappiamo, su Facebook, si finge benissimo) ma comunque strombazzatissima, felicità. Permettetemi, a questo punto, di dissentire: dopo 4 anni, quasi 5, di permanenza del mio profilo, 3 o 4 diverse reiscrizioni, centinaia di contatti, innumerevoli commenti e pollici su di apprezzamento, il mio è un parere che possiamo presuntuosamente definire da esperto. Perciò, tentiamo di fare chiarezza: ma chi si azzarderebbe mai, non solo a definirsi felice, ma anche soltanto ad accennare un qualsivoglia moto di allegria e contentezza su Facebook? Siamo tutti uomini di mondo, suvvia, chi si dichiara pienamente appagato e soddisfatto di se’ o della proprio vita rimane sempre un po’ sulle balle. I social sono ormai un’efficace vetrina aperta sulla nostra esistenza, dove allestiamo ciò che più attrae: cerchiamo complicità, comprensione, solidarietà. Perciò sulle nostre pagine ci sfoghiamo e ci lamentiamo, di continuo: del lavoro, della politica, dell’amicizia, dell’amore, della nostra quotidianità in generale. Che, di sicuro, è molto più ricca di apprezzamenti e di momenti piacevoli di quanto vogliamo far credere, ma perchè ammetterlo? Risultiamo di gran lunga più simpatici nella creazione di un nostro alter ego ironicamente sfigato che  nel sottolineare continuamente ciò che invece funziona. Provate voi stessi, anche adesso, a dare un’occhiata alla vostra home di Facebook e a contare i post da includere in un’eventuale categoria “felicità”: ne avete molti? Dubito. Perchè forse sarà anche meglio suscitare invidia che compassione: ma di quella virtuale, al momento, ne facciamo volentieri a meno.