Non è bello ciò che è bello

Arriva “Dopotutto non è brutto” con Geppi Cucciari – YouTube.

Gli edifici erano casupole distorte, squilibrate, addossate le une alle altre senza regola né apparente armonia, come sul punto di crollare o di ripiegarsi sulle fondamenta stesse, quasi fossero diventate improvvisamente liquide. Lo spazio che le conteneva a stento era ridotto, claustrofobico, schiacciava edifici e personaggi su di un unico piano privo di prospettiva, trasformando il paesaggio in una visione da vertigine, un vortice di tinte squillanti e di contorni irregolari, una scena che appariva intrisa dell’angoscia di un incubo. Eppure c’era qualcosa di magnetico in quei quadri, un forza attrattiva, il fascino di un’atmosfera inquietante che mi disturbava i sensi ma mi impediva al contempo di distogliere lo sguardo dalla corposità di certe pennellate, dalla voluta deformità di certe linee, dalla mancanza ricercata di una certa gradevolezza. Fu esattamente lì, davanti ad alcune opere di Chaim Soutine (1893 – 1943) pittore russo naturalizzato francese, non riconducibile ad alcun movimento artistico ma spesso accostato agli espressionisti (etichettato per comodità “un maledetto”, come si è soliti definire personalità indipendenti e difficili da imbrigliare entro precise correnti) che decisi mi sarei interessato di arte. Volevo appropriarmi degli strumenti necessari per comprendere quello che appariva il linguaggio insensato di alcuni autori, per andare al di là del “bello, brutto, mi piace, non mi piace” che ripetiamo come un mantra alle mostre, per riuscire a decifrare quanto di incomprensibile e misterioso si potesse celare dietro un dipinto o una scultura. Quando, anni dopo, mi ritrovai a lavorare in un museo di arte contemporanea, era proprio questo il punto in cui mi accaloravo di più nelle mie spiegazioni, in cui mettevo più foga o entusiasmo, quando aiutavo i ragazzi, che accompagnavo nelle sale, a ripercorrere le tracce e gli indizi necessari per l’apprezzamento e la comprensione di un’opera o di un artista, quando tentavo di condividere con loro la soddisfazione di poter leggere e riconoscere, in un ammasso intricato di forme e volumi (qualora ci fossero) un cavallo, un giocoliere, una ballerina o il nulla più totale.

Ed è ciò che mi accade ancora oggi, quando, solleticato in alcune conversazioni, mi sento punto nel vivo di fronte a frasi come “questo scarabocchio sarebbe arte?”, e dunque mi prodigo in lunghissime risposte difendendo il valore artistico di una creazione che può spostarsi e risiedere nel gesto dell’autore, nello sguardo soggettivo della sua interiorità, nel rispetto di una tradizione che va superata non necessariamente dal punto di vista tecnico. Spesso fiato sprecato: esco il più delle volte sfinito da certi confronti, con il mio irremovibile interlocutore convinto a metà. Da qualche tempo perciò ricorro al solito, indicato, stratagemma: regalo, come è successo qualche tempo fa con il mio amico Andrea, il libro Lo potevo fare anch’io, perché l’arte contemporanea è davvero arte, scritto in un linguaggio leggero, comprensibile, perfino spiritoso, da Francesco Bonami, celebre critico e curatore, professionista con l’invidiabile pregio di rendere accessibile e divertente l’ermetico ed elitario linguaggio artistico. Come convinto sostenitore, perciò, del suo approccio originale e quasi scanzonato alla materia, ci tengo a suggerire, ad Andrea e a chiunque altro legga questo post, anche il programma tv condotto proprio dallo stesso Bonami, in onda da un paio di settimane su Rai Uno il mercoledì sera alle 23,20, dall’azzeccato titolo Dopotutto non è brutto, che vede anche la riuscita partecipazione di Geppi Cucciari (nel video allegato il promo). Quattro puntate, dedicate ciascuna a una città italiana (Venezia e Roma quelle già affrontate, Torino e Napoli i prossimi appuntamenti) alla scoperta, come in un tradizionale Grand Tour, di architetture, installazioni, musei privati e non, spesso snobbati o sottovalutati – in una nazione dal patrimonio antico smisurato come la nostra – perché modernamente attuali, dunque di difficile integrazione o comprensibilità per un pubblico più vasto. Al programma, a dire il vero criticato un po’ ovunque per la vena satirica e irriverente (ma perché, cosa vi aspettavate da Geppi?) va riconosciuto invece il pregio di mettere l’accento su spazi e luoghi di frequente liquidati come “brutti” o mal riusciti perché lontani dal peso della tradizione artistica italiana, vanto e maledizione di un paese che da sempre fatica a guardare oltre il Rinascimento. E di far magari scoprire a qualcuno in più che quel lungo ponte scivoloso, da evitare di percorrere nelle vostre passeggiate cittadine, è soltanto un’altra meraviglia che il resto del mondo ci invidia.

N.d.r. Negli stessi anni in cui mi appassionavo alla storia dell’arte, presi anche consapevolezza che certe materie, in cui raggiungevo a stento la sufficienza, le avrei abbandonate lì (“la matematica non sarà mai il mio mestiere” andavo infatti cantando come Venditti). A rendermi chiaro che non fossi esattamente tagliato per i numeri e le formule è stata una professoressa a cui era impossibile non voler bene, perché ironica, stravagante, sopra le righe, una vera forza della natura (mi ha sempre voluto chiamare Stefano, tanto per dire). A lei, che solo ieri ha deciso di lasciarci, in modo imprevedibile, proprio come aveva insegnato, va il mio ricordo e la mia affettuosa dedica di questo post.

So this is Christmas…

▶ Mina Feat. Fiorello – Baby, It’s Cold Outside [Christmas Song Book] – YouTube.

Non è che proprio detesti il Natale. Diciamo che non mi sta particolarmente simpatico. D’accordo, sarò sincero: un po’ lo detesto. E non c’è neanche una ragione plausibile poi, che so, una spiegazione logica e inattaccabile che possa fornire ogni volta a chiunque si accorga della mia più che visibile intolleranza alla stucchevole atmosfera da Jingle Bells. Ma non riesco davvero a fingere il minimo entusiasmo o una noncuranza strategica: perché mi innervosisce il clima di euforia collettiva che sembra cogliere tutti già in fase di allestimento dell’albero (che infatti io nemmeno possiedo), mi irrita l’eccitazione generale in vista dei preparativi che serpeggia nelle strade addobbate a festa (perfino la sperduta e semideserta località in cui vivo assomiglia in questi giorni a Las Vegas), mi infastidiscono le maggiori attenzioni e gli atteggiamenti premurosi della gente mirati al “volemose bbene, è quasi Natale”. In altre parole, in questo periodo la sensazione con cui più spesso mi trovo a fare i conti è quella del disadattato, del pesce fuor d’acqua, dell’alieno, perché profondamente incapace di comprendere e condividere il comune senso di ebbrezza che pervade il mio prossimo per l’imminente arrivo delle festività. Ecco, vi dirò di più, se poi ci fosse davvero un inferno (in cui finirei per direttissima, senza neanche passare dal “via”, come succedeva al gioco del Monopoli) direi che per me potrebbe avere proprio le sembianze del classico (e insopportabile) mercatino di Natale: quel posto sempre troppo affollato, zeppo di coppiette e famigliole infagottate per il freddo tra cui muoversi è divertente come in un campo minato, in mezzo all’ingombro di bancarelle stracolme di oggetti inutili e di dubbio gusto, spacciati per capolavori artigianali, dove ogni anno vengo trascinato, o meglio risucchiato, in cerca dei regali più appropriati.

Perché poi, manco a dirlo, c’è appunto la temuta parentesi “regalini”: che è, dal mio punto di vista, un’operazione delicatissima e scrupolosa, da non risolvere, come spesso avviene, con la prima bruttura acquistabile sotto casa e poi donata con un “ho cercato tanto qualcosa che ti potesse piacere”, concretizzatosi talvolta nel tempo, con tutto lo stupore del caso, in un orrendo soprammobile in finto vetro soffiato. Quei (pochi, in realtà) pensieri che io invece mi preoccupo di comprare, mi richiedono un discreto impegno di tempo e dedizione, perché provo perlomeno a calarmi nelle esigenze dei destinatari, e arrivo così a buttare interi pomeriggi di shopping alla ricerca di un’idea che alla fine non sbuca mai. Poi va sempre a finire che il giorno della vigilia non possieda ancora alcun pacchetto da donare e il tutto termina, da copione, con una dannata corsa tra quei pochi negozi rimasti aperti, che mi vedono arrampicare come uno scalatore tra gli scaffali ormai svuotati. Al contrario, c’è chi, tra i miei amici, ha affinato una tattica efficacissima e magari, mesi prima, anche in pieno Agosto, ti butta lì una frase del tipo “e come regalo, per esempio a Natale, cosa vorresti?” e intuisci che tutto quello che dirai in quel momento potrebbe essere usato in futuro contro di te (“me l’avevi chiesto tu, ricordi? quella sera, sulla spiaggia…). Che poi, in simili occasioni, mentre nella tua testa, in risposta, oscillerebbero pensieri costosi o atroci che vanno dalla vacanza in Marocco a uno sfollagente o una mazza chiodata, sai bene che non puoi offendere o ferire il tuo affettuoso interlocutore, e quindi ti tocca limitarti a un “mah, non saprei…un libro?”. Sorvolando sulla categoria di quelli che arrivano a svelarti il regalo nel momento stesso in cui te lo porgono ancora impacchettato fra le mani (“Tanti auguri! E’ un bagnoschiuma!” “Ah, grazie! Potevi evitare anche di incartarlo, a questo punto!”), discorso a parte meritano quelli, come mia madre, che non stanno nella pelle all’idea di averti fatto una sorpresa, e muoiono dalla voglia di dirtelo. “Non immagini nemmeno cosa ti ho comprato quest’anno!” comincia, giorni prima, e io “No, infatti. E’ un regalo, non dovrei saperlo”, poi aggiunge “chissà se ti piacerà. O se ti ho preso la taglia giusta” “Quindi si indossa? Allora di sicuro non è un dopobarba” e lei conclude “ecco, vuoi sempre sapere troppo. Anche da bambino, era così, arrivava il Natale e avevi già aperto tutti i regali” “Forse perché qualcuno mi aveva già fatto capire cosa fossero?” e la conversazione si chiude in un’allegra divergenza di opinioni sui vecchi tempi. Concludo questa mia insensata parentesi sul Natale, con le sue conseguenti disavventure, allegandovi il mio personale pensiero, che poi, è più o meno lo stesso dello scorso anno: una canzone di Mina, l’ultima, tra l’altro, il duetto con Fiorello Baby, it’s cold outside, tratta appunto dal suo album di canzoni natalizie Christmas Song Book, sperando che vi piaccia. Per gli auguri invece c’è ancora tempo.

P.s. Mentre scrivevo questo post il mio amore era tutto intento a spargere per casa decine di metri di lucine a intermittenza. Adesso mi sembra di abitare allo Studio 54. Non c’è scampo.

Sex post

“Posso farti una domanda?” mi chiede a bruciapelo, dopo una cena cinese ricca e insolitamente raffinata, Claudia, la mia amica chiassosa, scoppiettante e altruista come solo alcuni partenopei sanno essere, assumendo proprio tutta l’aria di chi sta per metterti k.o. con un quesito scomodo, di quelli a cui non vorresti mai rispondere. “Certamente” le replico io, ricorrendo a quelle dosi di finta disinvoltura di cui mi sono armato durante la mia esistenza da ex-timido, e pensando “stai a vedere che ora mi rovino anche la digestione, peccato, le costolette di maiale con spezie del Sichuan erano eccezionali (devo dedicare un post a questo ristorante, prima o poi)”. Ed ecco infatti, dopo il mio cordiale permesso, esplodere come un ordigno tutta la potenza della sua indiscrezione “Perché nel tuo blog non parli mai di sesso?”. Eh? Ho capito sicuramente male. Spiazzato, riempio un nuovo bicchiere di grappa di riso, lo bevo tutto d’un sorso e indifferente alla gola in fiamme e al rossore ormai dilagante sul mio volto balbetto qualcosa del tipo “Possibile? Non c’ho mai fatto caso. Ma sei proprio sicura?”. “Si, sicurissima. Pensavo ci fosse una ragione”. No, a dire il vero non c’è. Almeno non una anche solo vagamente convincente che sia riuscito a fornirle quella stessa sera a tavola, anche se per fortuna, ho potuto dare la colpa alla citata bottiglia di grappa, che ha continuato a farci compagnia durante la nostra conversazione. L’indomani però mi riprometto di trovarmi a quattr’occhi con il mio blog per passarlo letteralmente al setaccio, ne rileggo avidamente tutti i post passati, lo rigiro e lo rivolto in lungo e in largo, cerco, frugo, rovisto. Trovo talvolta frasi infarcite di doppi sensi, allusioni neanche troppo velate, battute più o meno sottili, alcune al limite del volgare (certo che quando mi ci metto riesco ad essere proprio cretino). Però post che affrontino per intero e direttamente l’argomento “sesso”, non dico in maniera seria (aggettivo che del resto mal si addice alla natura frivola di questo spazio come all’indole del suo autore) ma perlomeno più approfondita o esclusiva neanche l’ombra. Beh, Claudia aveva ragione: non era tanto questo a lasciarmi incredulo e confuso (ok, anche questo, lo ammetto), quanto il non aver mai avvertito l’esigenza di scrivere qualcosa al riguardo. Perché?

Eppure non credo di potermi definire una persona refrattaria alla materia bollente di cui stiamo parlando (e meno male) né, a dire il vero, particolarmente inibito o bacchettone. Non ritengo neanche che il sesso sia, oggigiorno poi, questo insormontabile tabù, anzi, mai come nella nostra epoca vive un momento di così capillare sovraesposizione mediatica, di facile reperibilità su ogni tipo di mezzo (basti pensare al web), di onnipresenza nell’immaginario quotidiano tale da sbucar fuori anche quando non richiesto o non così necessario. Non grido infine allo scandalo di fronte a corpi esibiti ovunque seppur in maniera superflua (semmai posso ammirarne la bellezza o criticarne gli esiti patetici), non mi imbarazzano i commenti o i resoconti di chi ci tiene a divulgare nei dettagli le proprie acrobazie amatorie (che ascolto con lo stesso scetticismo di chi narra la grandezza delle sue prede di pesca), non mi tiro mai indietro neppure dinanzi alle domande più intime, indiscrete o esplicite degli amici (sì Michele, mi riferisco proprio a te). Parlare apertamente di sesso, giocarci su, sottintenderlo maliziosamente alla fine, nella vita, mi diverte e non mi crea alcun tipo di problema: scriverne, ahimè, è tutta un’altra storia. E lo dico da lettore prima che da blogger: perché i numerosi libri, le storie, le migliaia di racconti incentrati sul sesso, sono, nel 90% dei casi, di una noia e di una prevedibilità mortali. Fatta la dovuta eccezione per quei pochi, indiscussi, capolavori, della letteratura erotica e non solo (Anais Nin e Marguerite Duras, tanto per citare i primi di cui, a memoria, rimasi incantato) il resto delle pubblicazioni e dei testi che tentano di far maggiormente presa sul pubblico, a volte con successo, ricorrendo alla narrazione delle avventure passionali (come il fortunato esordio di Melissa P. con i suoi Cento colpi di spazzola, abbandonato dal sottoscritto, vinto dagli sbadigli, a pagina 10) si muovono su un terreno rischiosissimo. Perché, per rendere giustizia con le parole al piacere fisico, bisogna saper evocare piuttosto che fotografare, alimentare fantasia e desiderio senza indugiare nei particolari, perché l’eros vissuto da spettatore e non da attore percorre la strada dell’insinuazione e non del minuzioso realismo. Come potrei mai riuscirci qua sopra? E soprattutto, vi pare che stavolta sia riuscito a scrivere di sesso? Io dico di no.

Mostruoso talent(o)

C_4_articolo_2007527__ImageGallery__imageGalleryItem_0_image

E’ soltanto un dubbio, ma forse, anche stavolta, si tratta della semplice realtà dei fatti: quello tra moda e tv, è, alla fine, un connubio infelice. Un matrimonio imperfetto, squilibrato, un’unione che genera spesso obbrobri, che mortifica la natura del variegato linguaggio dello stile, che non rende giustizia alle diverse potenzialità del mezzo televisivo. Basterebbe arrendersi all’evidenza che il piccolo schermo sia, tutto sommato, inadatto a narrare le trasformazioni e le dinamiche in fatto di tendenze, o forse siamo ancora lontani dal trovare una formula particolarmente appropriata che riesca a coniugare alla perfezione due mondi così distanti. Fatto sta che al momento i numerosi, spesso superficiali, talvolta scialbi programmi televisivi, in cui la moda è di frequente relegata, soprattutto in Italia,  faticano a distinguersi per originalità, competenza, appeal. Inutile sottolineare che l’esempio più calzante è il modello Jo Squillo, un contenitore privo di una regia sensata, che indugia sulle prodezze di un ex-cantante pop anni ’80, riciclatasi da tempo come conduttrice, intenta a scorrazzare tra sfilate, backstage e parterre con una telecamera piazzata sulla fronte, come fosse una lampada da minatore, tra la perplessità generale e lo sgomento degli intervistati. Discorso a parte meritano i canali televisivi tematici, quelli che per fugare ogni dubbio sulla loro natura hanno sempre la parola Fashion nel proprio titolo (Fashion Tv, World Fashion Channel, etc), e che arrivano a sfinire anche il più accanito spettatore o appassionato della materia, sottoponendolo a ore interminabili di video istituzionali di migliaia di collezioni, provenienti dai quattro angoli del mondo, trasmessi tutti per intero. Altrettanto fastidioso è l’eccesso opposto: il montaggio incalzante di immagini, frammentate ai limiti dello schizofrenico, non di rado appannaggio dei servizi di vari tg, o delle trasmissioni che nel campo hanno fatto scuola (l’imitatissima Nonsolomoda, ad esempio), dove non si fa mai in tempo a distinguere un tacco, una fibbia, un occhio ed ecco che ti ritrovi già catapultato ai titoli di coda. Se a questo si aggiunge il rammarico per la momentanea e ingiustificata sparizione dal palinsensto de La7 dell’unico, longevo, programma confezionato con gusto e perché no, cultura, M.O.D.A, ideato e condotto dalla bravissima Cinzia Malvini, al cospetto del deleterio moltiplicarsi altrove di personaggi bizzarri e caricaturali, in più spacciati per esperti di costume, che ti propinano, dalle 8 del mattino, discutibili consigli su cosa indossare, il panorama comincia a farsi davvero desolante.

Avevo perciò atteso volentieri e guardato di buon occhio l’annunciato debutto di una nuova trasmissione televisiva, Fashion Style, in onda, dallo scorso Novembre, il lunedì sera su La5, che forse, vestendo i panni del “talent“, del programma cioè volto alla ricerca dell’astro nascente in quel settore – format già collaudato sulle più varie categorie professionali come cantanti/ballerini/chef e di recente, anche scrittori (se non l’avete ancora visto, vi consiglio Masterpiece, la domenica sera, su Rai 3) – poteva risultare un esperimento interessante. Ancor più degna di attenzione la presenza, tra i giurati deputati a valutare le qualità dei vari aspiranti fashion designer, make – up artist, hair – stylist e modelle selezionati nelle puntate, di Cesare Cunaccia, arguto scrittore e giornalista di moda, firma autorevole non così nota al grande pubblico perché di rado presente davanti alle telecamere. Peccato che nel suo delicatissimo e azzeccato ruolo Cunaccia sia affiancato dalla spigliata Alessia Marcuzzi, sempre brava e spiritosa, per carità, (nel caso specifico offuscata però da una luce innaturale, che le dona quell’alone da apparizione mariana a cui già da tempo ricorrono Lilli Gruber e Barbara d’Urso), ma che con la moda, francamente, c’azzecca quanto un mio eventuale ingresso da un parrucchiere. Decisamente più incomprensibile poi la terza giurata, Silvia Toffanin, smagrita ex – valletta, adesso presentatrice, imparentatasi poi con un senatore decaduto (è la compagna di Pier Silvio) che, soprattutto in un’occasione, dimostra di non conoscere il limite del senso del ridicolo, quando si rivolge poco garbatamente a una modella candidata con un “potresti fare la velina”, forse dimenticando che da quella schiera di fanciulle svestite e sgambettanti, in “ine”, proviene lei stessa (era una “letterina” di Gerry Scotti, insieme ad Alessia Fabiani e Ilary Blasi). Il tutto introdotto e commentato dai frizzanti interventi di Chiara Francini, giovane e graziosa attrice, un po’ troppo attenta a sottolineare sempre la sua “toscanità” (voglio dire, neanche la mia vicina ultraottantenne, cresciuta in pieno territorio fiorentino, è solita esprimersi con tutte quelle “c” e “g” strascinate) tra le, spesso importabili, creazioni, le acconciature, il trucco e il fisico dei “provinanti”, in una girandola di espressioni come trendy, glamour, stylish buttate lì a casaccio e risultati il più delle volte grossolani, pacchiani, da dimenticare. Impossibile infine non notare lo studiato tormentone che solerti, giuria e conduttrice, tendono, allo stesso modo, a ripetere all’infinito: “A Fashion Style non conta solo il talento”. E meno male, aggiungiamo noi: perché non sembra affatto comparire.

Vita (e morte) da cani

▶ Family Guy – Brian Dead !! – (OFFICIAL Family Guy Brian Death Scene) R.I.P. Brian Griffin – YouTube.

Uno dei meriti indiscussi delle serie animate tv made in Usa, dalla fine degli anni ’80 in poi, è stato quello di essere finalmente riuscite a infrangere molti tabù. Ricordo, anni fa, una critica intelligente e a tratti feroce di un noto giornalista nei confronti del primo irriverente cartone “per adulti” a stelle e strisce, i Simpson, colpevoli a suo dire di aver fatto letteralmente a pezzi l’immagine tradizionale e perbenista con cui il piccolo schermo si era da sempre preoccupato di dipingere la vecchiaia. Abraham Simpson, padre del celebre e simpaticamente inaffidabile Homer, è difatti un anziano sgradevole e scorbutico, con l’abitudine disgustosa di maneggiare sempre la sua dentiera, spesso dedito al racconto di lunghi e noiosi aneddoti, dubbiamente veritieri, per di più confinato dalla sua stessa famiglia in una lontana casa di riposo. Insomma, tutta un’altra storia rispetto alla figura del nonnino saggio, affettuoso e presente, occupato in regali, attenzioni e fiabe da leggere per i nipoti, con cui la tv è decisamente più incline a narrare la terza età. I Griffin, sgangherato e altrettanto deplorevole nucleo familiare protagonista dell’omonima (ed ennesima) serie animata nata sulla scia del successo dei Simpson (negli Stati Uniti in onda sul canale Fox con il titolo originale di Family Guy) trasmessa in Italia, con alterne fortune, già dal 2000, si è spinta ben oltre, mettendo alla berlina anche il ruolo dell’animale domestico di casa, in questo caso un cane parlante, di nome Brian. Così, oltre al padre Peter, genitore egoista, assente, mai all’altezza del proprio ruolo, Lois, madre casalinga con ambizioni artistiche frustrate, due figli adolescenti Meg e Chris, con evidenti problemi di insicurezza e di peso, un terzogenito Stewie, piccolissimo e diabolico, desideroso di sbarazzarsi delle attenzioni oppressive della mamma, Brian si inserisce perfettamente, con riuscito e caustico sarcasmo, nelle dinamiche zoppe dello sconclusionato equilibrio in cui vive la famiglia catodica americana. Perché, in sostanza, è l’unico personaggio dotato di senno, di intelligenza, di una sensibilità sconosciuta al resto degli altri componenti (dote che in più puntate lo porterà ad avere dipendenze da droghe e alcol), l’unico che ascolta con la dovuta premura i progetti deliranti di Stewie, l’unico ad esprimersi correttamente, con garbo e con un linguaggio talvolta più saccente di quello televisivo, l’unico provvisto di una propria profondità psicologica in netto contrasto con la generale superficialità che lo circonda. Insomma, per me divenuto da subito un appassionato del cartone, conosciuto grazie alla segnalazione di una carissima amica che sosteneva, con tanto di fotografia alla mano, di possedere da bambina la stessa forma della testa a “pallone da rugby” identica a quella di Stewie, il personaggio fra tutti meno amato. Per una ragione molto semplice: non è divertente. I Griffin incarnano difatti, in maniera catartica, i peggiori difetti della famiglia vista come luogo in cui proliferano anche nefandezze e rapporti malsani, in cui tutti contribuiscono, con le proprie debolezze e i propri limiti, magari armati delle più buone intenzioni, a peggiorare il disastro delle esistenze altrui. Si ride perché c’è, in fondo, un briciolo di verità nelle clamorose imperfezioni e nei tentativi maldestri di ciascun membro di agire secondo la propria discutibile (in)coscienza, seppur tra le evidenti esagerazioni di trama e un’ironia tagliente, a volte perfino demenziale. Non devo essere stato l’unico a pensarla così, visto che, gli stessi creatori dei Griffin, giunti oltreoceano oramai alla dodicesima serie, hanno deciso nell’ultima puntata trasmessa negli Usa soltanto lo scorso 24 novembre di far fuori proprio Brian, nel modo poi più crudele e scioccante, perché verosimile, cioè drammaticamente investito da un’auto in corsa (video allegato). Prenderà il suo posto Vinny, meticcio italo-americano, incontrato in un canile, appartenuto in passato a una famiglia di mafiosi: personaggio scomodo, dalla storia oscura, forse più in linea con il deprecabile cinismo che accomuna il resto della famiglia. Senza dimenticare che proprio la morte di Brian rappresenta però il momento per eccellenza in cui i Griffin danno prova di tutta la loro difettosa umanità, e come tutte le famiglie imperfette, si stringono l’un l’altro, di fronte al dolore.

N.d.r. Cara Lorena, volevo semplicemente sottolineare la delicatezza con cui ho evitato di tirati esplicitamente in ballo nel discorso della mia amica con le sue foto da bambina, etc. E ricordarti che ti voglio bene. Ti abbraccio.