Eterni bagliori

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Fate pure tutti gli scongiuri del caso, ricorrete tranquillamente, se vi sembra opportuno, a tutto il necessario, più o meno simpatico, talvolta volgare repertorio di gesti e gestacci di natura scaramantica, di quelli che spesso ci troviamo ad eseguire con studiata nonchalance, di nascosto, sotto i tavoli o appena voltate le spalle al nostro interlocutore, quando il viso rimane a lungo congelato in quell’espressione tirata e indefinita di vago disagio, al contrario delle nostre mani che, prontamente trasformate in corna di circostanza, cercano il contatto con il ferro o con altri intimi gingilli. E adesso che vi siete premuniti a dovere contro le eventuali sciagure potenzialmente attirate, come orsi dal miele, dall’argomento di tono funereo e vi sentiti al riparo nonché refrattari ad ogni forma di disgrazia incombente, grazie alla comprovata efficacia di tutti i vostri più strambi e collaudati rituali di superstizione, tirate un respiro profondo e servitevi allegramente della giusta dose di leggerezza occorrente per affrontare il prossimo, delicatissimo, tema. Perché parliamo di morte. Allora? Via quelle mani di lì, ho detto. Ma possibile che basti scomodare quella semplice parolina, cinque, comunissime lettere, m-o-r-t-e, ed ecco sgorgare fiumi di terrore e di angoscia a riempire indistintamente occhi, cervello e cuore, mentre nella testa si fa sempre più forte una vocina spaventata a suggerirci con prontezza “vabbè, parliamo pure d’altro!”?. Eppure, per quanto sia umano e comprensibile allontanarne di qualche galassia più in là il solo, agghiacciante pensiero, dovremmo esserci ormai abituati o rassegnati all’idea di un suo, inevitabile e perciò detestato, arrivo: voglio dire, questa meravigliosa, spiazzante, talvolta schizofrenica ma senza dubbio straordinaria (e naturalmente speriamo anche lunga) esperienza chiamata vita, per goderci e forse complicarci la quale siamo stati messi al mondo, dall’età in cui più o meno acquisiamo (più o meno) la nostra ragione sappiamo perfettamente averla ricevuto in dono con una sua (misteriosa, questo ve lo concedo) data di scadenza. E allora perché non preoccuparsi già, con un pizzico di audacia e di tempismo, del futuro destino che desideriamo riserbare a questo nostro corpo effimero, una volta che sarà diventato un’ingombrante e deteriorabile carcassa, se non altro per quell’enorme rispetto che indifferentemente tutti gli dobbiamo dopo averlo, per decenni, ignorato o maltrattato più che curato e coccolato? Soprattutto se, al pari del sottoscritto, rientrate anche voi nella cinica e materialistica categoria di chi non aspira affatto a sopravvivere sotto forma di anima per godersi l’eterna beatitudine di paradisi ameni (o per arrostire nei secoli tra il guizzo di alte fiamme di dannazione), o meglio, di chi non si illude di possedere neanche una minima traccia di una qualsivoglia sorta di anima, ed è anzi fermamente convinto che, lasciata a malincuore questa vita, quel giorno non ci sarà ad attenderci proprio niente e nessuno, nessun santo “chiavi in mano”, nessun luogo concreto, forse solo lo stesso, indefinibile, dove abbiamo distrattamente albergato prima di nascere. E se rabbrividite almeno quanto me alla sola, spiacevole, ipotesi di passare chissà quanto tempo sigillati e compressi (ma ben vestiti) dentro una scomoda bara, e preferite al contrario che i vostri resti vengano definitivamente bruciati per essere poi conservati in un’urna da due soldi, dispersi al vento o dati in pasto ai pesci (ah, quest’ultima sarebbe la mia opzione, mi raccomando, adesso che è tutta nero su bianco, vediamo un domani di metterla in pratica, che non potrò essere lì a vigilare direttamente sulle vostre azioni), ebbene, da qualche anno abbiamo anche un’ulteriore scelta: quella di essere trasformati in pietre preziose. In diamanti, per la precisione, come promette, con un filo di macabro sarcasmo, la campagna pubblicitaria dell’azienda capitolina di pompe funebri Taffo (foto allegata) proprio in questi giorni affissa, con un inimmaginabile e riuscito ritorno mediatico, per le strade di Roma e provincia. Grazie ad un accordo esclusivo con alcuni laboratori in Svizzera, deputati ad occuparsi dell’insolita operazione, sarebbe dunque possibile ricavare dalle normalissime ceneri di un caro estinto la quantità di grafite necessaria per ottenere un diamante (di cui si può inoltre scegliere la caratura, con costi che oscillano fra i 3 ed i 15 mila euro), da montare eventualmente su un gioiello da indossare e perché no, esibire, anche con frasi del tipo “sai, mio zio Paolo, te lo ricordi? Eccolo qui!” Una scelta bizzarra, forse, non ancora di successo, ma supponiamo in crescita, consigliabile soprattutto per due ordini di motivi. Dare, in primo luogo, la possibilità anche a chi non ha mai particolarmente brillato durante la sua stessa esistenza di riuscire invece a farlo, in altro modo, dopo la sua morte. E poi, dato che l’ironia è sempre stata un’ottima risorsa per contrastare le numerosissime difficoltà di questa vita, che sia anche la strumento migliore per affrontarne la fine?

Quando una stella muore…

Philip Seymour Hoffman winning Best Actor – YouTube.

Con una prevedibilità e un cattivo gusto di natura semi – universale, inclini allo stesso modo a sollevare la più annichilente banalità di reazioni come a legittimare una successiva quanto macabra ossessione per certi inutili e trascurabili dettagli, il repertorio di comportamenti collettivi in caso di prematura, tragica e scioccante scomparsa di un volto noto dello spettacolo – ogni volta più simile, a dire il vero, all’ennesimo, interminabile e noiosissimo déjà – vu – si compone sempre di alcune chiare e specifiche fasi, peraltro ben individuabili. L’ultimo esempio, in ordine di tempo, è il triste e sfortunato caso di Philip Seymour Hoffman, straordinario attore hollywoodiano trovato morto solo qualche giorno fa nel suo appartamento di New York, drammatica vicenda divenuta anch’essa paradigmatica di un irritante e superfluo atteggiamento generale che si sta trasformando in una pessima consuetudine quando si ha a che fare con certe dinamiche di diffusione e fruizione delle notizie. Perchè, quell’inspiegabile dispiacere che coglie più o meno chiunque di fronte alla morte in giovane età di personaggi celebri, lo sgomento per l’improvvisa e inaspettata scomparsa di un viso che il grande schermo o qualunque altro media ci ha reso familiare, (seppur mai incrociato durante la nostra tranquilla esistenza condotta dall’altra parte del pianeta), sembra che adesso debba necessariamente passare attraverso il conoscere il maggior numero di particolari possibili sulla sua dolorosa fine (meglio se fornendo una cospicua quanto raccapricciante dose di dettagli morbosi). Non vorrei peccare di eccessiva semplificazione o vestire i panni del moralista da quattro soldi che si scaglia contro il mal costume dei “tempi moderni”, quando in realtà si è sempre un po’ indugiato in casi del genere, forse per tentare una maggiore presa sul pubblico, nell’accentuare il “lato oscuro” di simili vicende. L’impressione però è che adesso, da quando cioè la rete ha permesso più o meno a tutti di colmare le proprie lacune pseudoculturali in ogni campo con la rapidità di un clic, chi tradizionalmente detiene il compito di informare sui fatti (leggi stampa e dintorni) tenda a farlo secondo modalità piuttosto deprecabili.

Vado al sodo, servendomi proprio della storia di Hoffman per esemplificare il mio, forse astruso, ragionamento: comincia a circolare la notizia della morte di un attore, il nome però non dice granché, così lungo poi, meglio cercarlo su Google (come si scriverà mai?), ah, eccolo, sbucano anche le immagini, sì, il viso non sembra del tutto nuovo, accidenti in quale film era? forse somiglia perfino a qualche altro attore, ma dove diamine si sarà visto? Nel frattempo migliaia, forse milioni di utenti web, che hanno ripercorso esattamente le stesse azioni, vanno già diffondendo ed annunciando su ogni possibile pagina di ogni possibile social il loro cordoglio, la loro commozione, compreso il solito teatrante che arriva sempre a sostituire la propria immagine del profilo con quella del personaggio appena deceduto (chissà con quale utilità poi). Per carità, fra tutti ci sarà anche chi è stato sinceramente un accanito fan della prima ora, ma insomma, distinguerlo adesso nel mare magnum di esperti di cinematografia che affiora d’un tratto in un paese in genere dedito alle commedie di Vanzina è piuttosto arduo. Quindi se da un lato il tragico fatto rimbalza dappertutto amplificato alla velocità di fulmine, dall’altro tv e testate online si prodigano nel confezionare i propri servizi sul personaggio in questione, nelle teoria delle intenzioni più esaustivi, nella pratica dei fatti ovviamente non limitati a ripercorrerne la carriera (leggibile ovunque, anche sulle pagine dell’80% dei tuoi contatti) ma infarciti di uno scontato e avvilente contorno. In ordine, in coda a quello che in gergo si chiama coccodrillo (l’articoletto strappalacrime post – mortem) si ritrovano così: 1) l’immancabile pezzo sulla “maledizione” di un talento e di una fama difficili da gestire (con annessa digressione su eventuali abusi di droga e alcol 2) la carrellata di volti noti, partendo dalla metà secolo scorso fino all’altro ieri, vittime di un simile destino (per capirci, cominciando da Marilyn Monroe per finire a Whitney Houston) 3) il video a riprova della vita comunque difficile del vip e/o la sfortunata coincidenza con un altro evento altrettanto drammatico. Nello specifico, lo stesso video qui allegato, risalente alla premiazione di Hoffman come miglior attore protagonista nel 2006 per il film Truman Capote, ricomparso su gran parte della stampa di questi giorni per sottolineare la presenza, nella medesima rosa di candidati di allora, di un altro attore prematuramente scomparso, l’australiano Heath Ledger. E’ forse doveroso riproporre perciò le stesse immagini per leggerle da un punto di vista diverso, per un ricordo più rispettoso di tanti particolari affiorati questi giorni sulla vita privata dell’attore e spacciati per tracce di una sua vulnerabile umanità: quello di uno straordinario e singolare interprete, di cui spesso si sbagliava il nome, che conclude commosso il discorso più importante della sua carriera ringraziando semplicemente l’anziana madre.

Vita (e morte) da cani

▶ Family Guy – Brian Dead !! – (OFFICIAL Family Guy Brian Death Scene) R.I.P. Brian Griffin – YouTube.

Uno dei meriti indiscussi delle serie animate tv made in Usa, dalla fine degli anni ’80 in poi, è stato quello di essere finalmente riuscite a infrangere molti tabù. Ricordo, anni fa, una critica intelligente e a tratti feroce di un noto giornalista nei confronti del primo irriverente cartone “per adulti” a stelle e strisce, i Simpson, colpevoli a suo dire di aver fatto letteralmente a pezzi l’immagine tradizionale e perbenista con cui il piccolo schermo si era da sempre preoccupato di dipingere la vecchiaia. Abraham Simpson, padre del celebre e simpaticamente inaffidabile Homer, è difatti un anziano sgradevole e scorbutico, con l’abitudine disgustosa di maneggiare sempre la sua dentiera, spesso dedito al racconto di lunghi e noiosi aneddoti, dubbiamente veritieri, per di più confinato dalla sua stessa famiglia in una lontana casa di riposo. Insomma, tutta un’altra storia rispetto alla figura del nonnino saggio, affettuoso e presente, occupato in regali, attenzioni e fiabe da leggere per i nipoti, con cui la tv è decisamente più incline a narrare la terza età. I Griffin, sgangherato e altrettanto deplorevole nucleo familiare protagonista dell’omonima (ed ennesima) serie animata nata sulla scia del successo dei Simpson (negli Stati Uniti in onda sul canale Fox con il titolo originale di Family Guy) trasmessa in Italia, con alterne fortune, già dal 2000, si è spinta ben oltre, mettendo alla berlina anche il ruolo dell’animale domestico di casa, in questo caso un cane parlante, di nome Brian. Così, oltre al padre Peter, genitore egoista, assente, mai all’altezza del proprio ruolo, Lois, madre casalinga con ambizioni artistiche frustrate, due figli adolescenti Meg e Chris, con evidenti problemi di insicurezza e di peso, un terzogenito Stewie, piccolissimo e diabolico, desideroso di sbarazzarsi delle attenzioni oppressive della mamma, Brian si inserisce perfettamente, con riuscito e caustico sarcasmo, nelle dinamiche zoppe dello sconclusionato equilibrio in cui vive la famiglia catodica americana. Perché, in sostanza, è l’unico personaggio dotato di senno, di intelligenza, di una sensibilità sconosciuta al resto degli altri componenti (dote che in più puntate lo porterà ad avere dipendenze da droghe e alcol), l’unico che ascolta con la dovuta premura i progetti deliranti di Stewie, l’unico ad esprimersi correttamente, con garbo e con un linguaggio talvolta più saccente di quello televisivo, l’unico provvisto di una propria profondità psicologica in netto contrasto con la generale superficialità che lo circonda. Insomma, per me divenuto da subito un appassionato del cartone, conosciuto grazie alla segnalazione di una carissima amica che sosteneva, con tanto di fotografia alla mano, di possedere da bambina la stessa forma della testa a “pallone da rugby” identica a quella di Stewie, il personaggio fra tutti meno amato. Per una ragione molto semplice: non è divertente. I Griffin incarnano difatti, in maniera catartica, i peggiori difetti della famiglia vista come luogo in cui proliferano anche nefandezze e rapporti malsani, in cui tutti contribuiscono, con le proprie debolezze e i propri limiti, magari armati delle più buone intenzioni, a peggiorare il disastro delle esistenze altrui. Si ride perché c’è, in fondo, un briciolo di verità nelle clamorose imperfezioni e nei tentativi maldestri di ciascun membro di agire secondo la propria discutibile (in)coscienza, seppur tra le evidenti esagerazioni di trama e un’ironia tagliente, a volte perfino demenziale. Non devo essere stato l’unico a pensarla così, visto che, gli stessi creatori dei Griffin, giunti oltreoceano oramai alla dodicesima serie, hanno deciso nell’ultima puntata trasmessa negli Usa soltanto lo scorso 24 novembre di far fuori proprio Brian, nel modo poi più crudele e scioccante, perché verosimile, cioè drammaticamente investito da un’auto in corsa (video allegato). Prenderà il suo posto Vinny, meticcio italo-americano, incontrato in un canile, appartenuto in passato a una famiglia di mafiosi: personaggio scomodo, dalla storia oscura, forse più in linea con il deprecabile cinismo che accomuna il resto della famiglia. Senza dimenticare che proprio la morte di Brian rappresenta però il momento per eccellenza in cui i Griffin danno prova di tutta la loro difettosa umanità, e come tutte le famiglie imperfette, si stringono l’un l’altro, di fronte al dolore.

N.d.r. Cara Lorena, volevo semplicemente sottolineare la delicatezza con cui ho evitato di tirati esplicitamente in ballo nel discorso della mia amica con le sue foto da bambina, etc. E ricordarti che ti voglio bene. Ti abbraccio.

We’ll miss you, Missoni

Questa è una storia che si svolge secondo un copione più vicino alla trama di una fiction o di un romanzo rosa che alla realtà. La storia di un campione nazionale di atletica leggera, un promessa dello sport, che un incontro fortunato ed alchemico trasforma in uno dei maggiori protagonisti del prêt – à – portér mondiale. Una storia in cui ricorre spesso, come un amuleto, una lettera fortunata, la M. M come maglia, vera anima delle loro creazioni, stravolta, reinterpretata, resa ogni volta superba grazie alla perizia artigianale celata dietro alla preziosità di lavorazioni. M come mix di colori, un’infinità di gradazioni diverse, fuse come per magia in combinazioni sempre originali, imprevedibili, poste fianco a fianco per colpire lo sguardo con la stessa intensità cromatica di una tela pointilliste. M come moda, che cavalcano con l’unicità del loro stile da quasi sessant’anni, senza scossoni o tentennamenti, ma imponendo una visione di eleganza e soprattutto un gusto ben precisi, assolutamente innovativi, lontani dalla schematica ripetitività dietro cui spesso si arroccano i mostri sacri del mestiere. M come Missoni, la compatta famiglia di stilisti – artisti – imprenditori, chiave di volta di un successo straordinariamente duraturo, perché al di là delle leggi effimere di un settore pronto a idolatrare o distruggere il talento di un creatore nel giro di una stagione. Tutto inizia nel 1953, anno del matrimonio tra Ottavio e Rosita, data in cui vede la luce il primissimo laboratorio di maglieria fondato dai due, più simile in realtà al clima informale, da “bottega” sartoriale, che alla piccola industria. Ci sono davvero tutte le premesse per un ingresso in grande stile nel mondo della moda: dopo i primi successi commerciali di capi dalla sbalorditiva vivacità di fantasie e di colori, della cui carica rivoluzionaria si accorgono ben presto le più importanti boutiques milanesi, nel 1967 finalmente il debutto a Firenze a Palazzo Pitti. Da qui ha inizio l’ascesa inarrestabile dei Missoni, che divengono in brevissimo tempo sinonimo di creazioni in cui il disegno e la forza della cromia prevalgono sull’esuberanza di linee. Fattore che, unito all’inesauribile inventiva con la quale realizzano e mescolano i motivi decorativi dei loro abiti, fantasie disparate, quadri e zig – zag, linee ondulate e pois – sottilmente evocative delle tradizioni folkloristiche dell’Africa o dell’America meridionale – costituisce la formula vincente dello stile Missoni, in grado di attraversare, inossidabile,  oltre mezzo secolo di moda. Nel 2013, l’annus horribilis: il 4 Gennaio, Vittorio, il primogenito della coppia, scompare, a bordo di un aereo in volo tra l’arcipelago di Los Roques e Caracas, in Venezuela. Due giorni fa la morte di Ottavio Missoni, il fondatore, novantadue anni compiuti lo scorso Aprile. Due tragici avvenimenti che gettano di colpo un’ombra cupa e dolorosa sulla luminosità della loro storia, destinata comunque a continuare.