La zampata della Tortora

Gaia Tortora “mio padre era un’altra storia” – YouTube.

So già quello che state pensando. Adesso ricomincerà con le sue battutine sceme, non aspettava altro che potersela prendere nuovamente con lui, in fin dei conti, come tanti toscani, sarà di sicuro comunista (parola diventata il più grave insulto degli ultimi venti anni). E invece no: non lo chiamerò neanche in causa, evitando perfino di farne direttamente il nome. Perché, per quanto nella vicenda che ho intenzione di trattare in questo post, al nostro inossidabile e prezzemolino ex – premier, col vizio (tra gli altri) di paragonarsi ad altri (più importanti?) personaggi del passato, vada di diritto assegnato l’importante ruolo di antagonista, la scena se l’è meritatamente conquistata tutta lei, la protagonista, Gaia Tortora. I fatti, senza dubbio, li conoscerete già, perciò li riassumo velocemente: nel bel mezzo dell’ennesimo vortice di vicende giudiziarie che l’ha investito, sembra (e speriamo), con più efficacia delle altre volte, il Cavalier convinto ce l’abbiano tutti con lui, un po’ come Calimero (sarà un problema diffuso tra individui della stessa altezza?) e i suoi fedelissimi organizzano a Brescia uno dei comizi più contestati che la storia recenti ricordi. Dove, ed ecco il colpo di genio, S. B. (avevo promesso di non nominarlo) decide di concludere il suo intervento tra la folla citando quella celebre frase che secondo la tradizione Enzo Tortora rivolse ai propri magistrati: “Io sono innocente. Spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi”.

Adesso, per scomodare una delle vicende più infelici e tristemente note della giustizia italiana, quella di un noto presentatore della tv, all’apice del successo da anni, accusato da alcuni pentiti di rapporti con la camorra e per questo incarcerato senza motivo, come verrà finalmente chiarito solo tempo dopo, ci vuole fegato. Farlo per rimarcare la grottesca teoria del presunto accanimento dei giudici nei propri confronti e soprattutto per mascherare le proprie mille nefandezze, tra cui, probabili festini con minorenni, è di uno squallore impareggiabile. Ma, chi come me, si aspettava una replica dura e rabbiosa da parte dei familiari di Enzo Tortora, ha ricevuto invece una gradita lezione di stile, peraltro in diretta. Perché Gaia Tortora, mezzo busto del tg di La7, prima di essere un’ottima giornalista e, perché no, una gran bella signora (con l’unico, trascurabile, difetto, comune a molte donne meditarranee, di tingersi ostinatamente di biondo quando la natura avrebbe scelto un altro colore per i suoi capelli) è appunto la secondogenita del famoso conduttore ingiustamente arrestato (l’altra, Silvia, è invece la moglie dell’attore Philippe Leroy, così, tanto per fare un po’ di sano gossip). E la stessa Gaia, nel commentare pochi giorni fa il servizio tv in cui compariva l’infelice paragone dello pseudoperseguitato, non ha certo perso l’occasione per dar voce alla propria, compostissima, replica (video allegato). Senza insulti, senza urla, senza quei toni inutilmente focosi, appannaggio di noialtri esseri impulsivi e sanguigni quando ci fanno perdere le staffe. Ma con l’inarrivabile efficacia data dalla classe e dalla dignità di chi pretende, a ragione, il sacrosanto rispetto per una vicenda dolorosa e difficilmente rimarginabile, che sarebbe bene ricordare più spesso. Magari, caro S., non così a sproposito.

We’ll miss you, Missoni

Questa è una storia che si svolge secondo un copione più vicino alla trama di una fiction o di un romanzo rosa che alla realtà. La storia di un campione nazionale di atletica leggera, un promessa dello sport, che un incontro fortunato ed alchemico trasforma in uno dei maggiori protagonisti del prêt – à – portér mondiale. Una storia in cui ricorre spesso, come un amuleto, una lettera fortunata, la M. M come maglia, vera anima delle loro creazioni, stravolta, reinterpretata, resa ogni volta superba grazie alla perizia artigianale celata dietro alla preziosità di lavorazioni. M come mix di colori, un’infinità di gradazioni diverse, fuse come per magia in combinazioni sempre originali, imprevedibili, poste fianco a fianco per colpire lo sguardo con la stessa intensità cromatica di una tela pointilliste. M come moda, che cavalcano con l’unicità del loro stile da quasi sessant’anni, senza scossoni o tentennamenti, ma imponendo una visione di eleganza e soprattutto un gusto ben precisi, assolutamente innovativi, lontani dalla schematica ripetitività dietro cui spesso si arroccano i mostri sacri del mestiere. M come Missoni, la compatta famiglia di stilisti – artisti – imprenditori, chiave di volta di un successo straordinariamente duraturo, perché al di là delle leggi effimere di un settore pronto a idolatrare o distruggere il talento di un creatore nel giro di una stagione. Tutto inizia nel 1953, anno del matrimonio tra Ottavio e Rosita, data in cui vede la luce il primissimo laboratorio di maglieria fondato dai due, più simile in realtà al clima informale, da “bottega” sartoriale, che alla piccola industria. Ci sono davvero tutte le premesse per un ingresso in grande stile nel mondo della moda: dopo i primi successi commerciali di capi dalla sbalorditiva vivacità di fantasie e di colori, della cui carica rivoluzionaria si accorgono ben presto le più importanti boutiques milanesi, nel 1967 finalmente il debutto a Firenze a Palazzo Pitti. Da qui ha inizio l’ascesa inarrestabile dei Missoni, che divengono in brevissimo tempo sinonimo di creazioni in cui il disegno e la forza della cromia prevalgono sull’esuberanza di linee. Fattore che, unito all’inesauribile inventiva con la quale realizzano e mescolano i motivi decorativi dei loro abiti, fantasie disparate, quadri e zig – zag, linee ondulate e pois – sottilmente evocative delle tradizioni folkloristiche dell’Africa o dell’America meridionale – costituisce la formula vincente dello stile Missoni, in grado di attraversare, inossidabile,  oltre mezzo secolo di moda. Nel 2013, l’annus horribilis: il 4 Gennaio, Vittorio, il primogenito della coppia, scompare, a bordo di un aereo in volo tra l’arcipelago di Los Roques e Caracas, in Venezuela. Due giorni fa la morte di Ottavio Missoni, il fondatore, novantadue anni compiuti lo scorso Aprile. Due tragici avvenimenti che gettano di colpo un’ombra cupa e dolorosa sulla luminosità della loro storia, destinata comunque a continuare.

L’elogio della diversità

Lungi da me l’idea di tenere una lezione alla Vittorio Sgarbi – non ne ho la cultura, ancor meno il ciuffo sbarazzino e ribelle – o alla Philippe Daverio, quel critico d’arte dal faccione bonario, che in tv, collegato dai musei e dalle piazze di tutto il mondo, snocciola elenchi infiniti di date, personaggi, opere, spesso conditi dall’aggettivo “divertente” (così è riuscito a definire perfino alcune scene degli affreschi di Giotto a Padova, bah). Sì, è vero, una qualche piccola pubblicazione in materia la vanto anch’io nel curriculum, una delle quali incontrata casualmente pochi giorni fa su di una bancarella in un mercatino dell’usato, in vendita all’abbordabilissima cifra di 9,99 euro, praticamente meno di un paio di boxer da Tezenis. Ho perfino avuto la tentazione di ricomprarla io stesso, ma poi ho pensato che lasciarla lì, tra quattro romanzi Harmony sbiaditi e una collezione di Gente degli anni ’60 le conferiva un diverso fascino (e poi mi mancava un paio di boxer arancioni). Torniamo a noi: volevo approfittare di questo post per parlare di un’opera, interessante e poco conosciuta (divertente potrebbe esserlo davvero, ma non mi azzarderò mai a dirlo) in questi giorni tornata prepotentemente di attualità, perché citata addirittura dal nostro neo-presidente del Consiglio Enrico Letta durante la sua intervista nell’ultima puntata di Che tempo che fa (http://www.youtube.com/watch?v=VCcqrG3CWQc da 00.57.37). Adesso, perché Letta, pisano di origine, ha menzionato proprio questo murale, che si trova nella sua città, a pochi passi dalla stazione centrale (sul lato sinistro andando verso il centro, in un luogo un po’ defilato) datato 1989 e firmato da uno dei più conosciuti artisti del secolo scorso, Keith Haring? Per paragonarlo al PD.

Ecco, se siete sopravvissuti a quest’ultima affermazione, mi permetto di andare avanti. Il primo ministro Letta, con un’audacia che è impossibile non riconoscergli, ha messo sullo stesso piano l’armonia complessiva di quest’opera, intitolata Tuttomondo, ultimo lavoro pubblico di Haring, esponente della pop art scomparso giovanissimo poi l’anno seguente, a quel guazzabuglio politico che è il maggiore partito della (si fa per dire) sinistra italiana. Il movimento in cui convivono (o per lo meno tentano) cattolici moderati, ex PCI, fedelissimi di D’Alema e qualche sindaco giovane, presenzialista e ambizioso (almeno uno di sicuro). La Bindi ed Epifani. Marino e la Concia. Giurerei che se avesse saputo in anticipo di un simile raffronto, lo stesso Haring avrebbe ridipinto di suo pugno l’intera parete su cui si trova l’opera (che tra l’altro è quella minore del convento di sant’Antonio) di vernice nera, o avrebbe scarabocchiato lì due brutture a casaccio. Invece che consegnare all’Italia (che relega in genere la contemporaneità a spazi difficili da raggiungere, nascosti  e periferici) quello che è considerato il suo testamento artistico: un murale di 180 metri quadri in cui trenta figure antropomorfe, simboleggianti le più diverse fasi o passioni della vita (la maternità, la tecnologia, il male, la natura) s’intersecano con coesione ed equilibrio in una composizione di singolare potenza espressiva. Un soggetto e un concetto che ben rappresentano un’idea armonica di civiltà, in cui tutte le diversità possono coesistere fianco a fianco senza sottrarsi spazi a vicenda, anzi, quasi appoggiandosi sicure le une alle altre. Che forse poco si addicono, caro Letta, non solo al PD ma anche a un governo che, salvo poi ripensamenti dell’ultimo minuto, affida importanti ministeri, come quello delle pari opportunità, senza apparente criterio.

Siamo seri!

Ci sono momenti in cui, anche una persona votata alla frivolezza e alla superficialità di interessi, come me, riportati immancabilmente (e maniacalmente) sul mio blog, come se fossero questioni di chissà quale importanza, ha bisogno di uno stop. Di ricavare cioè un piccolo spazio per riflessioni di altro, forse più noioso, genere, con cui spero di non tediare il mio pubblico, che mi dimostra invero più fedeltà quando mi lancio in considerazioni e post di stampo ironico e brioso, perché, effettivamente, mi riescono meglio. Mi scuso in anticipo perciò se nelle parole seguenti non troverete la consueta vena satirica o il commentino pungente, ma i miei pensieri, in queste occasioni, vanno in tutt’altra direzione. Succede quando la mia tranquilla quotidianità, fatta di affetti sinceri, di lavori saltuari a cui non mi abituerò mai, di sogni e di ambizioni irrinunciabili, viene messa inaspettatamente alla prova da una perdita improvvisa, da quell’idea, spaventosa e detestabile, di una separazione definitiva. Credo che il dolore sia qualcosa di intimo, inviolabile, che occorre difendere dall’interferenza degli sguardi altrui, che le lacrime versate in pubblico siano poco cosa rispetto a quelle ricacciate a fatica indietro o spese in solitudine. Ma quando alla sofferenza si intrecciano la rabbia, il senso d’impotenza, la delusione per un lieto fine che sembra giungere solo nelle fiabe, la necessità di uno sfogo, come questo, diventa inevitabile. Per il grande rispetto e per l’ammirazione che nutro nei riguardi della persona in questione, non scenderò nei dettagli drammatici della sua storia, perché reputo di cattivo gusto consegnare al web una vicenda così delicata. Non posso fare a meno però di condividere qua sopra la grande lezione che ho tratto dalla sua vicinanza in quasi dieci anni di rapporto professionale, in cui non sono mancate incomprensioni, piccole liti, divergenze, ma anche gratificanti manifestazioni di stima reciproca. Avevamo perciò imparato a comprenderci, ad ammettere le nostre differenze, a parlare con la schiettezza e la lealtà necessarie sul lavoro. Mi aveva parlato apertamente anche della sua malattia: con grandissima dignità, con la fierezza e la caparbietà di chi non vuole arrendersi, di chi si attacca ostinatamente alla vita anche quando quest’ultima gioca il peggiore degli scherzi. E da allora il nostro abbraccio di saluti si è fatto più tenace, intenso, per il timore, sempre più concreto, che potesse essere l’ultimo. L’ultimo, purtroppo, c’è stato, non più di tre mesi fa. Non credo di poterlo mai dimenticare.

(n.d.r. La foto allegata è uno scorcio di mare del mio Argentario. Il mio luogo natìo a cui in genere affido la malinconia di simili pensieri. Spero non vi dispiaccia.)

Questioni di cover

Sia chiaro, a me Beyoncé piace da matti. E piace già da tempo, molto prima che fosse conosciuta solo come Beyoncé, esattamente da quando era solo “quella bella delle Destiny’s Child, ma un po’ forte di gamba” per distinguerla da “quella più bella di fisico, ma con la faccia lunga (Kelly Rowland)” o dalle altre due, poi ridotte a una, “più bruttina e insignificante (Michelle Williams)”. Il resto è storia: lo scioglimento del gruppo (però amichevole, così, ogni tanto, una reunion per arrotondare possiamo sempre improvvisarla), la pubblicazione nel 2003 del primo album da solista Dangerously in Love, la scalata alle classifiche internazionali, le copertine sui magazine (un po’ smagrita grazie a photoshop), la pubblicità per qualche casa cosmetica (un po’ sbiancata, il fotoritocco è ormai un vizio), la storia d’amore con il rapper multimilionario Jay-Z (il tizio enorme che compare in molti suoi video), lo spot della Pepsi (immancabile), l’inno americano alla Casa Bianca al cospetto di Obama (forse in playback). Poteva a questo punto nel suo curriculum non comparire la colonna sonora del nuovissimo, imminente, kolossal firmato Baz Luhrmann (lo stesso di Romeo + Juliet e Moulin Rouge) The Great Gatsby, con l’immutabile Leonardo di Caprio dalla chioma impomatata? Ovviamente no. E difatti eccola qui, trasmessa qualche giorno fa, per la prima volta, in anteprima mondiale, dal network a stelle e strisce East Village Radio (http://www.youtube.com/watch?v=jxQWckbhVTU). Già, dimenticavo: la canzone, come avrete sicuramente intuito, non è un brano originale scritto appositamente per la pellicola, ma la cover di un pezzo piuttosto noto, Back to black, composto pochi anni or sono dalla compianta Amy Winehouse.

E qui cominciano le note (è proprio il caso di dirlo) dolenti. Perché non soltanto i fan della cantante britannica, scomparsa a soli 27 anni nel Luglio del 2011, non hanno gradito più di tanto l’omaggio in musica, forse precoce, siglato Beyoncé. Ma anche perché il nuovo brano, un singolare duetto con il rapper Andrè 3000 degli Outkast, si allontana fin troppo dal magnetismo della versione originale, così stravolta nella struttura da esserne quasi snaturata, tanto che vien voglia di rimpiangerla. Risulta infatti assente quell’intensità d’interpretazione che non conosceva uguali, quella forza disperata che possiede nella voce solo chi sa cantare come se fosse sempre, come lo era Amy, sull’orlo di un precipizio. Nella cover, invece, la melodia, il ritmo, i passaggi di registro assumono tutta la superficialità di un aspetto non tanto nuovo quanto tirato frettolosamente a lucido. Tutto è edulcorato, inaspettatamente nitido, levigato: non c’è spessore, ma soltanto la piacevole freddezza della più perfetta banalità. La coincidenza che trovo buffa, è che a questo primo, criticatissimo pasticcio, che accompagna l’attesa uscita del nuovo film, se ne aggiunge anche un altro, riguardante, paradossalmente, un’altra “cover”. E cioè la copertina del romanzo di Francis Scott Fitzgerald, da cui la pellicola è stata notoriamente tratta, rieditato, per l’occasione, in una nuova veste: proprio con il bel faccino di Di Caprio campeggiante sotto il titolo (http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2013/04/26/news/grande_gatsby_copertine-57515249/). Una soluzione che ha fatto inorridire, gridare allo scandalo, scomodare parole grosse come insulto o sacrilegio: ma che, come la canzone citata, non fa che accrescere ulteriormente la curiosità nei confronti del lungometraggio. Speriamo che almeno ne valga la pena.