L’elogio della diversità

Lungi da me l’idea di tenere una lezione alla Vittorio Sgarbi – non ne ho la cultura, ancor meno il ciuffo sbarazzino e ribelle – o alla Philippe Daverio, quel critico d’arte dal faccione bonario, che in tv, collegato dai musei e dalle piazze di tutto il mondo, snocciola elenchi infiniti di date, personaggi, opere, spesso conditi dall’aggettivo “divertente” (così è riuscito a definire perfino alcune scene degli affreschi di Giotto a Padova, bah). Sì, è vero, una qualche piccola pubblicazione in materia la vanto anch’io nel curriculum, una delle quali incontrata casualmente pochi giorni fa su di una bancarella in un mercatino dell’usato, in vendita all’abbordabilissima cifra di 9,99 euro, praticamente meno di un paio di boxer da Tezenis. Ho perfino avuto la tentazione di ricomprarla io stesso, ma poi ho pensato che lasciarla lì, tra quattro romanzi Harmony sbiaditi e una collezione di Gente degli anni ’60 le conferiva un diverso fascino (e poi mi mancava un paio di boxer arancioni). Torniamo a noi: volevo approfittare di questo post per parlare di un’opera, interessante e poco conosciuta (divertente potrebbe esserlo davvero, ma non mi azzarderò mai a dirlo) in questi giorni tornata prepotentemente di attualità, perché citata addirittura dal nostro neo-presidente del Consiglio Enrico Letta durante la sua intervista nell’ultima puntata di Che tempo che fa (http://www.youtube.com/watch?v=VCcqrG3CWQc da 00.57.37). Adesso, perché Letta, pisano di origine, ha menzionato proprio questo murale, che si trova nella sua città, a pochi passi dalla stazione centrale (sul lato sinistro andando verso il centro, in un luogo un po’ defilato) datato 1989 e firmato da uno dei più conosciuti artisti del secolo scorso, Keith Haring? Per paragonarlo al PD.

Ecco, se siete sopravvissuti a quest’ultima affermazione, mi permetto di andare avanti. Il primo ministro Letta, con un’audacia che è impossibile non riconoscergli, ha messo sullo stesso piano l’armonia complessiva di quest’opera, intitolata Tuttomondo, ultimo lavoro pubblico di Haring, esponente della pop art scomparso giovanissimo poi l’anno seguente, a quel guazzabuglio politico che è il maggiore partito della (si fa per dire) sinistra italiana. Il movimento in cui convivono (o per lo meno tentano) cattolici moderati, ex PCI, fedelissimi di D’Alema e qualche sindaco giovane, presenzialista e ambizioso (almeno uno di sicuro). La Bindi ed Epifani. Marino e la Concia. Giurerei che se avesse saputo in anticipo di un simile raffronto, lo stesso Haring avrebbe ridipinto di suo pugno l’intera parete su cui si trova l’opera (che tra l’altro è quella minore del convento di sant’Antonio) di vernice nera, o avrebbe scarabocchiato lì due brutture a casaccio. Invece che consegnare all’Italia (che relega in genere la contemporaneità a spazi difficili da raggiungere, nascosti  e periferici) quello che è considerato il suo testamento artistico: un murale di 180 metri quadri in cui trenta figure antropomorfe, simboleggianti le più diverse fasi o passioni della vita (la maternità, la tecnologia, il male, la natura) s’intersecano con coesione ed equilibrio in una composizione di singolare potenza espressiva. Un soggetto e un concetto che ben rappresentano un’idea armonica di civiltà, in cui tutte le diversità possono coesistere fianco a fianco senza sottrarsi spazi a vicenda, anzi, quasi appoggiandosi sicure le une alle altre. Che forse poco si addicono, caro Letta, non solo al PD ma anche a un governo che, salvo poi ripensamenti dell’ultimo minuto, affida importanti ministeri, come quello delle pari opportunità, senza apparente criterio.