Belle senz’anima

Sull’evoluzione del loro ruolo come del loro canone estetico si potrebbe tracciare una storia sociale della moda. Esistono pochi altri parametri così indicativi delle trasformazioni del gusto e del tentato perseguimento di un astratto ideale di bellezza, durante tutto il ’900, come quelli che si accompagnano a una professione passata in pochi decenni dal completo anonimato e dall’accusa di sconvenienza ad essere annoverata tra le più ambite del pianeta. Stiamo parlando delle modelle, o delle mannequin, come venivano definite, con un pizzico di tono dispregiativo, le indossatrici che già nel XIX secolo nei salotti della couture parigina avevano il compito di mostrare le creazioni ai clienti degli atelier di alta moda. Manichini appunto, sagome, corpi senza volto né storia, indispensabili solo a conferire grazia e movimento ad abiti altrimenti inanimati. E’ soltanto negli anni ’50, quando davanti all’obiettivo e alla genialità di fotografi come Irving Penn o Richard Avedon verranno chiamate a intepretare la magnificenza di Christian Dior, di Cristobal Balenciaga, di Hubert de Givenchy, che assurgono al rango di muse di eleganza. Hanno i nomi di Dovima, Suzy Parker, Dorien Leigh, spesso radici aristocratiche, sono sconosciute ai più, i loro corpi longilinei e filiformi non destano scandalo: le icone di bellezza rimangono le attrici, l’immaginario erotico è presidiato dalle maggiorate, dalle gambe di Marilyn Monroe, dai fianchi generosi di Sofia Loren, dal fascino prosperoso e rassicurante con cui si tentava di lasciarsi alle spalle l’austerità del secondo conflitto mondiale. Nei decenni successivi il primo riconoscimento di celebrità, grazie alla consacrazione nelle pagine delle riviste di moda più famose come Vogue e Harpers’ Bazaar, di nomi come Twiggy, inglese, forme acerbe e viso dai tratti infantili, simbolo della Swinging London degli anni ’60, o di Veruschka, bellezza teutonica inarrivabile, una carriera artistica alle spalle e un paio di incursioni nel mondo del cinema, corpo più richiesto e fotografato negli anni ’70. Per giungere finalmente agli anni ’80 e ’90, momento di massimo splendore per le indossatrici, che grazie all’intuizione di stilisti come Gianni Versace e Karl Lagerfeld, si tramutano in un vero e proprio fenomeno planetario di comunicazione, quello delle top model. Linda, Christy, Naomi, Claudia, la stampa le chiama solo per nome, quasi come fossero divinità, o nel tentativo di creare una sorta di impossibile familiarità: sono le perfette interpreti di una moda che prima di un prodotto vende un sogno, di bellezza, fama, giovinezza, amplificato dagli eccessi, anche economici, che la loro vita, tra copertine e passerelle, impone. Fino ai giorni nostri, in cui i volti delle modelle, ritornate a un parziale anonimato, si succedono a una velocità impressionante, come ondate che non lasciano però alcuna traccia, seguendo il ritmo forsennato di un mercato che propone tutto e il contrario di tutto nel giro di una stagione. Un rapido excursus storico che da oggi e fino al 19 Maggio è possibile ripercorrere nelle sale del Musée Galliera di Parigi (http://www.paris.fr/loisirs/musees-expos/musee-galliera/mannequin-le-corps-de-la-mode/rub_5854_actu_125546_port_12995) grazie alla mostra Mannequin – le corps de la mode: un’antologia di immagini, video e riviste per illustrare come, al pari delle tendenze che da sempre impersonifica, è cambiato negli anni il mestiere di indossatrice: una delle poche professioni che talvolta, più o meno consapevolmente, della moda ne ha rispecchiato l’anima.