Dancing queen

lea_t2Non è ancora celebre né paparazzata come Naomi, o controversa e inossidabile come Kate Moss, neanche strapagata come la brasiliana Gisele Bundchen, sua connazionale. Eppure Lea T, al secolo Lea Cerezo, professione modella, 32 anni vissuti da cosmopolita tra l’Italia, la Francia e il Sud America è tutt’altro che una sconosciuta nel rutilante mondo del fashion – system. Il suo è piuttosto un nome di nicchia, di quelli che difficilmente escono dal giro degli addetti ai lavori, la sua enigmatica bellezza non risulta ancora inflazionata come nel caso delle altre top model, a dire il vero non sarebbe neppure corretto definirla una top model. Che sia idolatrata e corteggiata da stilisti e fotografi di mezzo mondo, questo è fuori discussione; soltanto la scorsa settimana il suo corpo sottile incedeva sulle passerelle di Parigi, splendidamente fasciato in una creazione di Givenchy, marchio di cui è la principale testimonial da diverse stagioni. Anzi, per Riccardo Tisci, italianissimo direttore creativo dal 2005 al timone della maison francese – caso eclatante di strepitoso talento nazionale accaparrato in giovane età dai più furbi cugini d’Oltralpe – Lea T. è molto di più dell’intenso volto scelto per le sue campagne: è un’amica, una sorella, una musa. Una creatura naturalmente dotata di un fascino singolare, un mix di esuberanza e fragilità, una per cui, tra uno scatto e l’altro durante i servizi fotografici o nei backstage delle sfilate, si è soliti spendere quegli aggettivi che fanno subito professionista del settore come ”adorable”, “amazing”, “divina”. Una che deve indubbiamente parte del suo successo, oltre che alla notevole e innegabile avvenenza, alla sua, peraltro mai taciuta, ambiguità sessuale: in realtà, pur non avendone lei stessa mai fatto mistero, a chi la ama e la segue da tempo non è mai importato granché se sulla sua carta d’identità ci sia scritto uomo o donna. Per la moda Lea T è solo e soltanto Lea T. Poi è arrivata la tv.

Che al contrario, non si è limitata a raccontare il lato umano di tutta la sua vicenda, a narrare quel percorso, tormentato e doloroso, anche dal punto di vista fisico, di chi a un certo punto della vita scopre di abitare nel corpo sbagliato. Ha ovviamente rovistato nel suo passato, saccheggiando i suoi ricordi di un’infanzia privilegiata da figlio di un famoso e amato calciatore (il padre Toninho Cerezo ha militato nella Roma negli anni ’80), seguendo con spropositato, superfluo e dettagliato interesse tutte le fasi della sua progressiva e intima trasformazione. Adesso è andata oltre: tentando di farne, indecorosamente, un’attrazione di grido, un fenomeno da baraccone, provando a solleticare la morbosità del grande pubblico con il richiamo del “terzo” sesso che entra trionfalmente sui nostri schermi. E’ successo a Ballando con le stelle, semipenoso show del sabato sera di Rai Uno, condotto da un’immutabile Milly Carlucci, in cui personaggi più o meno noti dello spettacolo e dello sport fanno a gara per distruggere la loro fama di sex – symbol dimostrando di non essere in grado di eseguire a tempo neppure due passi di tango o di valzer. Stando sempre attenti, tra l’altro, per quel finto perbenismo, buonismo o moralismo che contraddistingue la tv di Stato, a non citare mai, nel caso di Lea, concorrente del programma, la parola trans, quasi suonasse come un insulto o peggio, un vocabolo del tutto nuovo o incomprensibile per le delicate orecchie degli ascoltatori della rete. Attribuendole un’immagine superata e stereotipata – un fiore appuntato tra i capelli, una gonnellina bianca, leggera e svolazzante, come se fosse appena uscita da una pellicola con Carmen Miranda – puntando sullo scandalo o sullo sbigottimento per la sua presenza tra i vip ed ottenendo una cocente delusione per ciò che il video restituisce: la figura di una donna delicata, per niente trasgressiva, men che mai volgare, di sicuro molto meno di alcune stelline nel cast dello stesso programma. Ecco chi è semplicemente Lea in tv: una modella, che balla, con grazia, e sorride, spesso. Alla faccia, forse, di chi, l’ha seguita solo per deprecabile curiosità.

Belle senz’anima

Sull’evoluzione del loro ruolo come del loro canone estetico si potrebbe tracciare una storia sociale della moda. Esistono pochi altri parametri così indicativi delle trasformazioni del gusto e del tentato perseguimento di un astratto ideale di bellezza, durante tutto il ’900, come quelli che si accompagnano a una professione passata in pochi decenni dal completo anonimato e dall’accusa di sconvenienza ad essere annoverata tra le più ambite del pianeta. Stiamo parlando delle modelle, o delle mannequin, come venivano definite, con un pizzico di tono dispregiativo, le indossatrici che già nel XIX secolo nei salotti della couture parigina avevano il compito di mostrare le creazioni ai clienti degli atelier di alta moda. Manichini appunto, sagome, corpi senza volto né storia, indispensabili solo a conferire grazia e movimento ad abiti altrimenti inanimati. E’ soltanto negli anni ’50, quando davanti all’obiettivo e alla genialità di fotografi come Irving Penn o Richard Avedon verranno chiamate a intepretare la magnificenza di Christian Dior, di Cristobal Balenciaga, di Hubert de Givenchy, che assurgono al rango di muse di eleganza. Hanno i nomi di Dovima, Suzy Parker, Dorien Leigh, spesso radici aristocratiche, sono sconosciute ai più, i loro corpi longilinei e filiformi non destano scandalo: le icone di bellezza rimangono le attrici, l’immaginario erotico è presidiato dalle maggiorate, dalle gambe di Marilyn Monroe, dai fianchi generosi di Sofia Loren, dal fascino prosperoso e rassicurante con cui si tentava di lasciarsi alle spalle l’austerità del secondo conflitto mondiale. Nei decenni successivi il primo riconoscimento di celebrità, grazie alla consacrazione nelle pagine delle riviste di moda più famose come Vogue e Harpers’ Bazaar, di nomi come Twiggy, inglese, forme acerbe e viso dai tratti infantili, simbolo della Swinging London degli anni ’60, o di Veruschka, bellezza teutonica inarrivabile, una carriera artistica alle spalle e un paio di incursioni nel mondo del cinema, corpo più richiesto e fotografato negli anni ’70. Per giungere finalmente agli anni ’80 e ’90, momento di massimo splendore per le indossatrici, che grazie all’intuizione di stilisti come Gianni Versace e Karl Lagerfeld, si tramutano in un vero e proprio fenomeno planetario di comunicazione, quello delle top model. Linda, Christy, Naomi, Claudia, la stampa le chiama solo per nome, quasi come fossero divinità, o nel tentativo di creare una sorta di impossibile familiarità: sono le perfette interpreti di una moda che prima di un prodotto vende un sogno, di bellezza, fama, giovinezza, amplificato dagli eccessi, anche economici, che la loro vita, tra copertine e passerelle, impone. Fino ai giorni nostri, in cui i volti delle modelle, ritornate a un parziale anonimato, si succedono a una velocità impressionante, come ondate che non lasciano però alcuna traccia, seguendo il ritmo forsennato di un mercato che propone tutto e il contrario di tutto nel giro di una stagione. Un rapido excursus storico che da oggi e fino al 19 Maggio è possibile ripercorrere nelle sale del Musée Galliera di Parigi (http://www.paris.fr/loisirs/musees-expos/musee-galliera/mannequin-le-corps-de-la-mode/rub_5854_actu_125546_port_12995) grazie alla mostra Mannequin – le corps de la mode: un’antologia di immagini, video e riviste per illustrare come, al pari delle tendenze che da sempre impersonifica, è cambiato negli anni il mestiere di indossatrice: una delle poche professioni che talvolta, più o meno consapevolmente, della moda ne ha rispecchiato l’anima.