Un compleanno esplosivo…

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Al di là delle lecite ma singolari ragioni, non si può non riconoscerle un tempismo quasi perfetto, tanto da far emergere subito il sospetto che una tale, sorprendente, originale, forse anacronistica, decisione, non sia poi così casuale. Perché il recente e sbalorditivo divieto scattato nella città norvegese di Trondheim (la terza del Paese per estensione e popolazione, non un piccolo villaggio medievale di poche anime strette nella morsa del gelo nordico) di proibire lungo le proprie strade l’affissione di immagini pubblicitarie con modelle desnude, o coperte solo da ridottissimi e sensuali costumi da bagno, cade, guarda caso, proprio a ridosso del 70esimo anniversario dell’invenzione stessa del bikini. Un compleanno importante, che forse non sarebbe passato in sordina, ma che la solerte e strombazzata delibera comunale della cittadina norvegese, intenzionata a combattere la presunta gravità delle ripercussioni sociali dovute a quei corpi perfetti e/o abbondantemente ritoccati, comunque gratuitamente esibiti, ha riportato ancor più sotto i riflettori, sottolineando ancor’oggi il potenziale scandaloso di quell’indumento nato ormai sette decenni fa (proprio come Cher, forse solo più deperibile…ah, auguri Cher). E se occorre pur ammettere che un simile oscurantismo mediatico aveva già colpito in passato le curve mozzafiato della top Eva Herzigova, o, in anni più recenti, proprio a Milano, il celebre fondoschiena di Belén Rodriguez, giudicati allora colpevoli non tanto della possibile diffusione di un’immagine negativa del corpo, quanto di poter causare pericolosi tamponamenti agli automobilisti ragionevolmente distratti da tanta ingigantita beltà, resta il fatto che lo storico due pezzi, lungi dal perdere nel tempo la sua prorompente carica seduttiva, in tutte queste storie di ordinaria censura venga ancora incluso fra i maggiori imputati. Aveva visto giusto dunque Louis Réard, il dimenticato sarto francese (liquidato nella maggior parte dei manuali di storia della moda con due righe di circostanza, meno di quanto in genere spetti all’inglese Mary Quant, inventrice della minigonna) a cui si fa risalire appunto il lancio sul mercato, nel 1946, del primo costume bipartito, a volerlo a tutti i costi ribattezzare Bikini – proprio come l’atollo delle Isole Marshall in cui gli americani effettuavano i loro test nucleari – immaginando così alla perfezione gli effetti di atomico sconquasso che l’indumento avrebbe provocato nel mondo. Ciò che forse Réard non avrebbe potuto prevedere è quanto invece il cinema abbia contribuito negli anni ad elevare al rango di capo iconico la sua preziosa invenzione, grazie agli indimenticabili due pezzi indossati da Brigitte Bardot (foto allegata) nei film che l’hanno consacrata al successo -  come E Dio creò la donna del 1956 – o sulle spiagge di Saint Tropez, passando per la sensualissima Rita Hayworth (non a caso definita l’atomica) o per Ursula Andress (ricordata, nonostante la discreta carriera sul grande schermo, sempre e soltanto per il suo emergere dalle acque in 007 – Licenza di uccidere con un succinto costumino bianco corredato di cinturone e pugnale). Ma se il solo sentir parlare di bikini, più che alle leggendarie scene cinematografiche o ai corpi flessuosi delle grandi star vi fa pensare all’imminente (chissà poi quanto, dati i capricci meteorologici di questa primavera) e detestata prova costume, care amiche, avete di che consolarvi: potete sempre contemplare la possibilità, al contrario di noi maschietti, di ricorrere all’alternativa, certo non ideale per l’abbronzatura ma almeno esistente e più coprente, del costume intero. Noi uomini (che un sondaggio impietoso ci descrive provvisti di addominali scultorei da esibire solo nel meno del 30% dei casi…vale a dire che due esemplari su tre possiedono la pancetta, facciamocene una ragione), costretti a mostrare il nostro ventre non sempre tonico sulle spiagge, possiamo al massimo decidere se tirar su l’elastico di slip o calzoncini vicino all’ombelico, con quell’effetto visivo segato di sole al tramonto, o appena sotto, con risultati più simili a un qualche marsupiale. Sempre che non si decida tutti di trascorrere le vacanze altrove, lontani dal mare, oppure in un paese dalle temperature rigide, che so, ad esempio in Norvegia: lì i fisici statuari da ammirare o invidiare sembrerebbero banditi, anche in città.

Ed io tra di voi…

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“Ancora non hai scritto niente? Ma è finita quasi una settimana fa!” esordisce con tono severo il mio amore, durante la prima delle nostre innumerevoli e spesso improbabili conversazioni telefoniche quotidiane, rinunciando anche stavolta alla prevedibilità di un frasario minimo che la natura del nostro rapporto invece richiederebbe (tipo “Ciao, come stai? Dove sei? “Quando torni?”, cose così). “Lo so, ma vedi, il lavoro, i viaggi, il tempo, la stanchezza…” tento di farfugliare io a mia discolpa, acciuffando le prime parole transitate in mente ad un orario che d’altronde ancora non mi permette di articolare frasi di maggior senso compiuto, “Niente scuse. Un vero fashion blogger non avrebbe tardato così tanto!”. Già, un “vero” fashion blogger, eccolo il punto. Una figura mediatica stuzzicante, forse, all’importanza odierna del cui ruolo, però, diciamocelo francamente, in fin dei conti non ho mai aspirato, perché ritenuta così lontana da me per indole, necessità di presenzialismo, vocazione alla stravaganza. Un’etichetta invece, di cui mi ritrovo, mio malgrado, rivestito, ad ogni appuntamento a cui accorro oltretutto volentieri data la natura delle mie competenze e delle mie collaborazioni (moda, costume e dintorni), ma che, in quanto autore di questo modesto spazio online finisce appunto con il relegarmi nel più vasto, variopinto e per me disagevole “calderone” dei fashion blogger. Come è successo di nuovo per l’ultima edizione di Altaroma, la tradizionale vetrina di haute couture nostrana, un concentrato di sfilate, eventi, presentazioni di moda che hanno animato per tre giorni, dal 29 al 31 Gennaio scorsi, soprattutto il volto post – industriale dell’Ex dogana ferroviaria di San Lorenzo: un palcoscenico coraggioso e azzeccato in cui ambientare gran parte della kermesse fino ad ampliarne il senso stesso, per porlo, anche visivamente, ben oltre la Roma sfarzosa e barocca dei palazzi nobiliari, facendone a sorpresa una capitale che può e deve nutrirsi, anche nella moda, di sperimentazione e contemporaneità. Una scelta quella della location, inutile nasconderlo, che ha sollevato in corso più di un dubbio o malumore (“Sai dove siamo qui?” mi fa un collega di fronte a un caffè “Nel quartiere storico dei centri sociali, capisci? Hai provato a farti un giro intorno?”. Beh sì, l’ho fatto subito dopo, grazie del consiglio. Ma non mi sono imbattuto in nessun “pericolo comunista”, solo in viuzze ed edifici dal fascino decadente), ma che è apparsa quantomeno necessaria ad una manifestazione come Altaroma intenzionata a cambiar pelle e quindi sempre più focalizzata nella promozione di giovani talenti, forse altrove facilmente azzerati dall’ingombro di un’opulenza estetica poco in linea con le loro stesse ricerche nel campo.

Di sicuro, di poco adatto all’intera situazione, c’era come al solito l’eccessivo rigore del mio look, (un paio di maglioncini del medesimo tono “ceruleo” da protagonista sfigata de Il Diavolo veste Prada, l’immancabile coppola di un brand low – cost da non sbandierare nell’etichetta per non turbare tutti gli altri presenti): pensiero condiviso perfino dai diversi addetti alla security o dalle solerti assistenti lì al lavoro che non perdevano occasione di intercettarmi ogni cinque metri per chiedermi di mostrar loro il pass nominativo con il regolare accredito, trattamento di rado visto riservato ai vari altri tizi che si aggiravano nei medesimi luoghi con gilet di paillettes, stivaletti tempestati di strass o cappellini svettanti di piume (l’esuberanza decorativa, si sa, viene sempre interpretata come la miglior garanzia di appartenenza al settore). A risollevarmi il morale ci hanno pensato, per fortuna, le interessanti intuizioni viste nelle varie collezioni, dalla raffinata disinvoltura di accostamenti cromatici e materici ad opera del duo creativo Greta Boldini, alla purezza scultorea delle borse di Avanblanc (degno di menzione anche il labirintico allestimento in legno studiato per l’intera sezione espositiva degli accessori), dai colletti e dai ricami di sapore surrealista audacemente poggiati sulle creazioni di Luca Sciascia, alla sfilata più sorprendente e innovativa, quella firmata dal giovanissimo Giuseppe di Morabito (nella foto), nuovo portavoce di una visione di stile senza dubbio coerente e quasi pittorica. Da segnalare, tra i nomi più accreditati, anche quello di Sabrina Persechino, per l’originale ispirazione alla figura mitologica di Aracne esplicitamente dichiarata nei suoi capi, tanto più effervescenti per il giorno, quanto più tradizionalmente austeri per la sera, nonostante gli studiati squarci di nudo ad infiammare la collezione e nonostante che dal posto assegnatomi, in linea del resto con la natura poco autorevole di questo blog, riuscissi a vedere per lo più l’acconciatura delle modelle e qualche schiena vip in prima fila (tra cui Tosca d’Aquino, la più elegante dell’intera kermesse, a mio modestissimo parere). Motivo per cui, nella mia prossima necessaria e stravagante tenuta da fashion blogger, prenderò forse di più in considerazione l’ipotesi di indossare un salvifico binocolo da opera che un qualche accessorio bizzarro, luccicante o ben identificabile da lontano.

Creazioni di (buon)gusto…

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Che l’amore per il cibo e i piaceri della tavola si siano imposti, negli ultimi tempi, come la più ricorrente, contraddittoria e inflazionata passione/ossessione di questo millennio, pare ormai un’assoluta certezza. Impossibile difatti incappare in un solo canale televisivo, magazine o spazio social che non abbia pensato di scomodare il parere autorevole di qualche chef stellato o il consiglio per la spesa della prima conduttrice improvvisatasi un’esperta del settore, per dar luogo ad una rubrica, un contest, una cucina reale o virtuale in cui poter fare sfoggio delle proprie abilità amatoriali o professionali ai fornelli o della propria, oggi quasi indispensabile, approfondita cultura in materia di piatti e alimenti. Curato e spettacolarizzato allo stremo il suo lato estetico, previa necessaria presentazione scenografica da immortalare e condividere sul web ogni istante, ridotto spesso ad un voyeuristico piacere per gli occhi più che per il palato o per lo spirito, il mondo della tavola e la sua conseguente, spasmodica, dedizione si sono trasformati in una nostra priorità quotidiana quasi quanto lo stesso bisogno di mangiare, soprattutto nell’anno della discussa Expo milanese incentrata proprio sul tema dell’alimentazione. Che il linguaggio della moda abbia invece da sempre, ed è il caso di dirlo, “nutrito” un rapporto più sottile e complesso con il variegato universo del cibo, a cui ha molte volte guardato per attingere forma e ispirazione in maniera irriverente o al contrario evocativa – basti pensare alle note gorgiere seicentesche correttamente definibili “lattughe” o alle maniche “a prosciutto” degli abiti femminili di fine ’800 – è un aspetto non così scontato, senza dubbio più intrigante, più che mai attuale ed oggi finalmente indagato nella singolare quanto incantevole mostra L’eleganza del cibo. Tales about food and fashion (foto allegata), inaugurata soltanto lo scorso 18 Maggio presso i Mercati di Traiano a Roma. Oltre 160 prestigiose creazioni databili dagli anni ’50 fino ai giorni nostri, fra abiti raffinatissimi e divertenti accessori provenienti da diverse fondazioni, collezioni private, archivi di maison storiche, che rimaranno visibili al pubblico fino al 1 Novembre, tutte riunite dai curatori dell’esposizione Bonizza Giordani Aragno e Stefano Dominella sotto il comune denominatore di un continuo e stuzzicante dialogo sul cibo, in un gioco di rimandi e citazioni imperniato spesso sull’ironia o sulla sperimentazione materica. Si va dai grandi protagonisti del prêt – à – portér italiano (Krizia, Gianfranco Ferré, Antonio Marras, Romeo Gigli) in un vortice di stampe, moduli decorativi, soluzioni grafiche o tessili ispirate agli alimenti più vari, alle spiazzanti e coloratissime trovate che arricchiscono i capi firmati Enrico Coveri, Moschino, Agatha Ruiz della Prada, fino ad ardite invenzioni come il completo di Gattinoni ornato con spighe di grano e biscotti veri o il suggestivo abito del giovane Tiziano Guardini interamente realizzato con radici di liquirizia intrecciate. E poi ancora nomi celebri come Giorgio Armani, Emilio Pucci, Etro, Jacques Fath, Ken Scott, Laura Biagiotti e le loro calibrate ed originali interpretazioni sullo stesso tema: una mostra davvero unica, consigliabile soprattutto a chi pensando al binomio moda e cibo riesca soltanto a ricordare quell’abito di carne rossa indossato da Lady Gaga.

Alt(r)aRoma

Greta Boldini

Per un impegno improrogabile arrivo con un giorno di ritardo. Pazienza, il calendario pare comunque denso di appuntamenti, gli eventi in programma sembrerebbero piuttosto numerosi, qualche collezione interessante dovrei pur riuscire a vederla. Peccato che il mio smartphone abbia deciso, proprio durante il viaggio, di cominciare la sua lenta e drammatica agonia verso una fine poco tempestiva. Di usare la fotocamera del cellulare, per immortalare i momenti salienti della kermesse, perciò, non se ne parla. E stavolta non ho neanche con me una macchinetta digitale; a dire il vero, per non appesantirmi di bagagli, non mi sono preoccupato neanche di portare, come faccio di solito, il mio beneamato pc. Tecnologicamente inattrezzato, incupito dall’insolito grigiore del cielo ma armato delle più buone intenzioni, mi accingo perciò a seguire la XXVI edizione di AltaRoma, la manifestazione di haute couture capitolina, che quest’anno non mi sarei perso per niente al mondo, visti soprattutto i noti momenti critici che a meno di un mese dal suo avvio, hanno rischiato di comprometterne del tutto la realizzazione. E invece no. Dal 30 Gennaio al 2 Febbraio, dopo un provvidenziale stanziamento di fondi, con il contributo dello stesso Comune di Roma, la manifestazione è andata in scena: 30 appuntamenti tra sfilate, eventi e presentazioni, un discreto numero di iniziative dedicate ai talenti emergenti, qualche piacevole sorpresa sbucata tra nomi vecchi e nuovi. Quello che segue sarà dunque il personalissimo racconto della quattro giorni di alta moda, condito con tanto di retroscena (spero) divertenti, le immancabili osservazioni o critiche del sottoscritto, le frasi più ironiche o fuori luogo rubate agli altri ospiti e lavoratori presenti. Buona lettura.

La location: Accantonato il complesso di Santo Spirito in Sassia, cornice delle recenti passate edizioni, la kermesse si svolge tra due diverse sedi, vicinissime tra loro: il MAXXI, il Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, superbo e avveniristico progetto di Zaha Hadid, e lo Spazio Altaroma, una tensostruttura provvisoria situata davanti all’Auditorium Parco della Musica. Bene: la scelta del MAXXI, il cui avvincente volto contemporaneo si sposa magnificamente con le collezioni dei giovani designer lì accolte, oltre a rappresentare un sensazionale ingresso per stampa e ospiti. Così così: la tensostruttura, soluzione dettata da ovvie esigenze di rapidità, non incontra le simpatie generali, e viene malignamente ribattezzata “Il Circo Nero”, “La tendopoli”, “Il sacco della monnezza”. Assente un punto di ristoro (gratuito) per operatori, fotografi e stampa accreditata, rimpiazzato dal bar del MAXXI stesso (a pagamento). Da sottolineare: la gentilezza e la professionalità del personale del bar citato, per la prima volta alle prese con le bizzarrie del popolo della moda. Il commento rubato: “Ma perché si chiama MAXXI?” “Mbeh, non vedi quanto è grande?” (due fashion victims in coda dietro di me per l’accredito, evidentemente all’oscuro dell’acronimo del museo)

Accademia di Costume e Moda: il Talents 2015 Fashion Show è forse il momento più entusiasmante dell’intera manifestazione: le 10 mini – collezioni presentate dagli altrettanti studenti diplomati alla celebre scuola, che proprio l’anno scorso ha festeggiato i suoi 50 anni di attività, convincono per l’originalità di idee e l’ottima esecuzione. Bene: Nicolas Martin Garcia, il vincitore decretato dalla giuria di esperti, fa il pieno di applausi per il suo défilé Lolito, una collezione uomo colorata, sopra le righe, di travolgente ed efficace ironia. Così così: il lunghissimo discorso di ringraziamento di Marco Mastroianni, responsabile creazione materiali di Louis Vuitton ed ex alunno dell’Accademia, premiato per la sua carriera da Giovanna Gentile Ferragamo, a cui fortunamente verrà poi passato il microfono. Da sottolineare: le raffinate e femminili creazioni di Tommaso Fux, con cui si apre l’evento, frutto della sensibile visione di un designer davvero promettente. Il commento rubato: “Ma quella con quella cofana non potevano metterla in fondo, che seduta lì davanti non si vede niente?” (un tizio della sicurezza sulla presenza della blogger Diane Pernet in prima fila con la sua acconciatura gotica a torre).

Piccione.Piccione: ultimo vincitore, soltanto lo scorso Luglio, del decimo concorso Who is on next?, il progetto di scouting realizzato da AltaRoma in collaborazione con Vogue Italia, il giovane designer Salvatore Piccione presenta in anteprima la sua prossima collezione A/I di prêt – à – portér. Bene: Coerenti, ben strutturati, onirici eppur ugualmente indossabili, gli abiti di Piccione Piccione sono un crescendo di poetiche soluzioni, spesso evidenziate da ricami scintillanti in 3D. Così Così: certi grafisimi insistiti e certi accostamenti cromatici ricordano un po’ troppo lo stile decorativo di Valentino. Più riuscita la prima prova di Luglio. Aspettiamo con ansia la terza. Il commento rubato: “Ma se è lo stilista è solo lui, perché il brand si chiama Piccione.Piccione?” “Aveva cominciato con il fratello!” “Ah, certo, Due Piccioni non potevano chiamarlo, sai le battute!” (la blogger al mio fianco che tenta inutlimente di istruire il compagno in materia).

Daizy Shely: brand nato dalla fantasia dell’israeliana Aliza Shalali Deizy, formatasi a Milano, dove ha tuttora il proprio atelier, e vincitrice insieme a Salvatore Piccione dello scorso Who is on next?, come lui invitata a presentare la sua prossima collezione invernale di ready to wear. Bene: le camicie e i capispalla dalla maniche lievemente scese, coronate da lunghi polsini fiammeggianti trattenuti da grandi fiocchi, che allungano otticamente le braccia ridisegnando così una nuova silhouette. Così così: tanti spunti diversi, non sempre fusi con la dovuta armonia. Troppa carne al fuoco, insomma. Il commento rubato: “A me è piaciuto il top di piume viola sopra la longuette verde” “non faceva troppo uccello del paradiso?” (due giornaliste in vena di eccentricità all’uscita).

Antonio Grimaldi: tra i couturier più talentuosi della sua generazione, poco incline ad eccessi o colpi di teatro, eppure in grado di distinguersi ogni volta per garbo e raffinatezza, Grimaldi dà vita ad una riuscita collezione di alta moda per la prossima primavera/estate. Bene: innegabile e ben presente il concetto di leggerezza che permea l’intero défilé, dalle creazioni eteree e impalpabili, grazie alla maestria di lavorazioni e tessuti quasi evanescenti. Così così: pressoché assente il giorno, introvabili tailleur o pantaloni, sembra che la donna di Grimaldi non badi mai alla praticità ma viva unicamente ricoperta di volants. Il commento rubato: “Ma chi è quella fotografata accanto alla Cucinotta?” “La ex moglie di Raoul Bova!” “Ah…e cosa fa adesso?” “Non saprei…ma per averlo lasciato io le dedicherei comunque una piazza!” (due giornaliste in vena di gossip all’ingresso).

Project149: finalista al concorso Who is on next? del 2014, il duo creativo Monica Mignone ed Elisa Vigilante illustra le sue proposte di ready to wear del prossimo inverno. Bene: una collezione portabile, ben studiati gli abbinamenti cromatici, il mix di tessuti, dosate con cura le stampe. Così così: nel parterre alcune penne autorevoli del giornalismo di moda fatte sedere dietro a blogger ventenni e sconosciuti. Il fuori programma: al termine della sfilata una signora inciampa sulla passerella e cade rovinosamente a terra, dove rimane per alcuni minuti, tra le premure dell’ufficio stampa e la generale indifferenza degli altri ospiti che la scavalcano pur di guadagnare l’uscita.

Quattromani: Altri finalisti di Who is on next?, questa volta nel 2013, Massimo Noli e Nicola Frau portano una loro capsule collection per l’autunno/inverno 2015. Bene: buona la costruzione degli abiti, forme e lunghezze sufficientemente armoniche, azzeccati i tocchi iridescenti. Così così: 40 minuti di ritardo per una sfilata si perdonano solo a Giorgio Armani. Il commento rubato: “Non saprei, mi è sembrata senza un sapore preciso, come un risotto mari e monti” (una giornalista al termine del défilé, forse in preda a un languorino).

Curiel Couture: Storica maison dell’alta moda italiana, di tradizione tutta al femminile, Raffaella Curiel e sua figlia Gigliola scelgono per le proprie creazioni di ispirarsi al folklore del continente asiatico. Bene: i curiellini, i celebri completi da giorno ideati dalla couturier, in versione ancor più sobria e impeccabile, abbinati a divertenti scarpe bicolori. Così così: l’uscita finale con l’abito che riproduce nelle stampe la Canestra Ambrosiana di Caravaggio, fatto sfilare sulle note di Va, Pensiero. Ridondante. Il commento rubato: “Guarda, io voglio molto bene a Raffaella e a Gigliola, ma la collezione, diciamolo, è un po’ antica” (una giornalista che esterna la sua singolare idea di affetto).

Greta Boldini: brand che nel nome esprime la sua ricercatezza, unendo due icone di stile come Greta Garbo e il pittore Giovanni Boldini, dietro cui si cela la creatività dei designer Alexander Flagella e Michela Musco, finalisti a Who is on next? nel 2013. Bene: una collezione rigorosa e sontuosa al tempo stesso, dalla riuscita vocazione sperimentale nella combinazione di tessuti e ricami. Stupefacente il finale, con le modelle congelate in un tableaux vivant di creazioni (foto). Così così: alcuni volumi essenziali, impreziositi da applicazioni, seppur egregi, ricordano certe soluzioni recenti di Prada. Peccato. Il commento rubato: “La passerella è fatta ad U, e me le fai sfilare in diagonale? E io come le riprendo, a zig – zag?” (un cameraman infastidito dalla scelta della regia).

Catherinelle: Attrice, modella, pittrice, ma soprattutto designer di accessori, la bellissima Catrinel Marlon organizza un cocktail party per presentare la sua nuova collezione di borse chiamata Sublime. Bene: l’ispirazione anni ’70 delle forme, la palette cromatica sui toni autunnali, le fodere realizzate in tessuti vintage. Da sottolineare: la cortesia e la disponibilità dell’ufficio stampa che ci fa entrare con mezz’ora di anticipo per gustare la collezione senza il contorno di folla invitata all’evento. Il fuori programma: una nevicata improvvisa piomba sugli ospiti in attesa, dando luogo a una serie di esilaranti scivoloni sui tacchi.

A.I. Artisanal Intelligence. Evento tra i più interessanti della kermesse, per il dialogo tra diverse forme creative, il percorso di questa edizione si snoda tra la pittoresca Villa Poniatowski e la galleria d’arte contemporanea AlbumARTE. Bene: il singolare confronto tra le storiche maglie di Albertina e le creazioni del giovane couturier Gianluca Saitto. Così così: gli abiti originali settecenteschi, esposti senza alcun tipo di protezione dal pubblico, un rischio davvero enorme, da non correre mai. Il commento rubato: “Sì, bello, mi è piaciuto…vabbé, che sta a fa’ la Roma con l’Empoli?” (un fotografo con la testa alle sue priorità calcistiche).

Sono di nuovo in treno, per fare ritorno a casa. Questa è la prima frase che scrivo, a mano, come d’altronde i migliaia di appunti presi in questi giorni. Mi verrà un post lunghissimo, già lo so. Purtroppo lo smartphone non si è più ripreso, sennò vi avrei fotografato la cupola di San Pietro che sto guardando dal finestrino, illuminata dai raggi del sole che finalmente si è deciso ad uscire. Che città magnifica. Colonna sonora ideale: Arrivederci Roma.

Can che appare…

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Ecco, ancora non sono riuscito a scrivere neanche una parola al riguardo (in realtà prima di aprire questa parentesi insensata ne avrei usate ben dodici, tanto per puntualizzare) che già mi sto pentendo dell’argomento scelto per questo post. Perché so benissimo come andrà a finire: che mi accuserete di essere una creatura del tutto priva di quell’encomiabile sensibilità animalista, poco incline a manifestazioni d’affetto come a istintivi slanci di apprezzamento verso l’intero universo a quattro zampe, un detestabile e disgustoso individuo antropocentrico, di quelli che mai si fermerebbero per strada a riempire di lodi la graziosa bestiolina che con tanto orgoglio portate fuori ad orari forse accettabili in un altro emisfero, il tutto a scapito del vostro sonno e della vostra indispensabile lucidità diurna. Perciò tanto vale uscire subito allo scoperto: non è del tutto esatto affermare che non provi una qualche forma di amore per gli animali, diciamo piuttosto che preferisco con loro una più disinvolta relazione a distanza, di quelle che si limitano a due carezze e un buffetto sul musino, proprio nel caso di un rapporto più confidenziale con i relativi padroncini, e poi ognuno, per favore, a casa propria. Nutro per essi (per gli animali, intendo) un profondo rispetto, quello sì, lo stesso che impone moralmente alla mia coscienza il divieto assoluto di assumersi una responsabilità così gravosa nei confronti di un altro essere vivente, di cui mai e poi mai sarò in grado, almeno in questa esistenza, di tener fede o finanche badare alle sue esigenze più elementari, che, a dire il vero, talvolta sono le medesime che io stesso stento a soddisfare appieno perfino per me. E, sincerità, per sincerità, non sono ancora del tutto persuaso che il circondarsi esclusivamente del calore di un animale non significhi in fondo ritagliarsi un rifugio più comodo e sicuro per sfuggire in parte alla complicatezza delle relazioni umane: voglio dire, un cane ad esempio, non potrebbe mai abbandonarti o tradirti intenzionalmente, ti aspetta sempre a casa festoso e scodinzolante, non ti trascina in lunghe e snervanti discussioni per avere sempre ragione o l’ultima parola, e da questo punto di vista, se non fosse per tutto quell’impegnativo programma di cibo/cure/bisogni da lasciare alle 6 del mattino al primo albero fuori casa, sarebbe forse il/la compagno/a ideale di un’intera vita.

D’accordo, incolpiamo pure, per questo mio esplicito e spesso ritenuto “mostruoso” pensiero, l’evidente quanto scarsa dimestichezza con un qualche animale nella vita di tutti i giorni, così pure come la totale mancanza, nel mio (breve) passato di 29enne, di una qualsiasi fase di crescita accompagnata dalla presenza nei dintorni di un cucciolo da stringere. Sappiate però che di occasioni per rifarmi o in cui in teoria poter almeno apprezzare l’emozionante e affettuosa compagnia di un animale domestico ne ho avute eccome. Bash, ad esempio, la cagnolina che ha vissuto con il mio amore per una dozzina d’anni, un incrocio fra un pastore belga e un pastore tedesco, tanto mastodontica di stazza quanto docile di carattere (eccezion fatta per i sacerdoti, a cui abbaiava per strada con una ferocia mai dimostrata con nessun altro), così legata al sottoscritto che non riuscivo mai a camminare senza ritrovarmi il suo naso attaccato alla coscia. I due gatti di mia sorella, a cui, manco a dirlo, sono tremendamente allergico, mentre lei, al contrario, pare includerli in cima alla lista dei propri affetti, come una volta arrivò a dimostrarmi, durante una passata e avventurosa carriera da archeologa, mandandomi un sms dalla Giordania del tipo “Ho lasciato i gatti dal vicino (poi divenuto suo compagno n.d.r.), puoi sentire come stanno? Io tutto ok, c’è stata qualche bomba qui vicino, ma sto bene, se senti mamma e babbo rassicurali!”. Ho avuto un pesce, ma non credo conti, che la mia passione per la moda e il suo muoversi sinuoso nell’acqua mi avevano spinto a ribattezzare Naomi, ma poi, colpito non so da quale malattia, che l’ha portato alla morte nel giro di pochi giorni, aveva sviluppato due enormi rigonfiamenti sugli occhi tanto da assomigliare più al trombettista jazz Louis Armstrong che non alla venere nera delle passerelle. Niente ovviamente di paragonabile all’esperienza di una coppia di trentenni newyorkesi, Yena (speriamo solo di nome) Kim e Dave Fung che sono riusciti a trasformare il proprio amato cane, Bodhi, uno shiba inu di razza, in un’indiscussa e seguitissima star del web. Solo sul suo profilo Instagram Mensweardog (da cui è tratta la foto), in cui compare sempre immortalato nei più diversi abiti maschili, classici o sportivi, che gli danno talvolta quell’aria inquietante da trofeo impagliato, la simpatica bestiolina è arrivata a contare già oltre 160.000 followers, a cui si vanno ad aggiungere altre centinaia di migliaia di seguaci, impazziti per i suoi singolari ritratti, sui tutti i restanti e più famosi social. Cifre da capogiro, che molti blogger o aspiranti tali (presenti inclusi) possono solo permettersi di sognare di raggiungere un giorno. Allora, se volete, rinfacciatemi pure la mia palese freddezza o semi-indifferenza nei confronti degli animali: ma uno, uno solo, quel Bohdi lì, posso almeno odiarlo pubblicamente?