Simply blue…

Michelle Obama’s DNC speech: Key moments – YouTube.

In quanto a carisma, popolarità, consensi e occasioni non ufficiali in cui sfoderare anche una naturale e travolgente simpatia, non è stata mai da meno rispetto all’altrettanto celebre e fascinoso marito, quel Barack Obama entrato di diritto nella storia come primo uomo di colore alla Casa Bianca. Anzi, c’è già chi è pronto a scommettere che dopo la candidatura (e la vittoria quasi certa) di Hillary Clinton al medesimo, gravoso, ruolo di presidente degli Stati Uniti (tra l’altro mai ricoperto da una donna), adesso nel pieno della sua campagna elettorale a ridosso della scadenza del secondo mandato dello stesso Obama, la prossima a scendere in campo sarà proprio lei. Perché diciamolo subito: la tradizionale e forse superata figura di contorno di first lady, tutta cappellini griffati, tè da sorseggiare con capi di Stato (e relative consorti), quasi esclusivamente impegnata in attività benefiche o nel decidere la lunghezza delle siepi della residenza presidenziale, a Michelle Obama è sempre andata (per nostra fortuna) stretta. Avvocato di successo, di umili origini, un passato da attivista per i diritti civili, un presente di strenue battaglie su temi delicati come alimentazione ed ecologia, Michelle è l’incarnazione vivente dell’american dream: una donna in grado di guadagnarsi il proprio meritato (e smisurato) successo grazie a intelligenza, caparbietà, tenacia, lei, prima first lady afroamericana in un Paese ancora drammaticamente intriso di gravi pregiudizi razziali. In più è dinamica, colta, spiritosa: davanti alle telecamere mostra una disinvoltura degna delle migliori anchorwomen, posa su prestigiose copertine con garbo e ironia, riuscendo così ad entrare nelle grazie degli americani molto più della stessa Clinton, a cui, tante donne soprattutto, non hanno ancora perdonato l’essersi tenuta, forse per convenienza politica, un marito non particolarmente brillante (il mandato presidenziale di Bill Clinton non verrà certo ricordato per l’accortezza delle sue iniziative), per di più fedifrago. E poi c’è il fattore moda: perché Michelle ha un suo preciso e riconoscibile stile in fatto di abiti, azzarda tinte squillanti e stampe vistose, conosce bene i punti di forza del proprio corpo, come l’altezza o le spalle atletiche, esibisce fieramente tricipiti scolpiti, noto punto critico di gran parte del genere femminile passati gli anta, offuscando anche in questo campo la ben più antiquata Hillary, ancora legata a tailleurini e giacche nascondi-fianchi o a tristanzuoli foulard annodati al collo. Una discreta capacità di padroneggiare il linguaggio della moda confermata ancora una volta dall’ultima apparizione pubblica della stessa Michelle, il discorso tenuto qualche giorno fa alla Convention democratica di Filadelfia a supporto della Clinton (nel video i passaggi salienti). Sorvoliamo sul confronto impietoso con l’intervento della settimana scorsa di Melania Trump, terza e attuale moglie del tycoon e candidato repubblicano dal ciuffo grottesco Donald, ex modella di origini slovene, bellissima quanto impacciata nel suo abito candido e nel suo discorso (copiato in parte, come hanno sottolineato in tanti, da quello che la Obama tenne nel 2008) ripetuto con lo sguardo incollato al monitor e con la stessa spigliatezza che noialtri avevamo nel ruolo di albero di Natale alla recita scolastica. Tralasciamo il piglio autorevole e l’indubbia efficacia delle parole di Michelle, a cui del resto siamo abituati da tempo, e concentriamoci sulla scelta, studiatissima, dell’abito: quel semplice e raffinato vestito blu, dalla vita leggermente rialzata, firmato Christian Siriano, non può essere stato certo selezionato a caso, per un evento di tale risonanza. Siriano infatti, vincitore in passato del reality per giovani creativi Project Runway, stilista apertamente e orgogliosamente gay (è sposato con il produttore musicale Brad Walsh con cui si presenta, mano nella mano, ad ogni red carpet), è anche l’unico ad aver accettato pubblicamente su Twitter la sfida a vestire per la prima di Ghostbuster 2 l’attrice di colore Leslie Jones, a suo dire snobbata dalla maggior parte delle case di moda perché non particolarmente avvenente. Il look di Michelle, firmato Siriano, è perciò una sottile e ben ponderata scelta politica: è soprattutto un segnale di apertura, parla di tolleranza, di inclusione, è profondamente “democratico” al pari del suo intenso messaggio, al pari di quegli orecchini a cerchio, vagamente afro, lieve richiamo agli schiavi neri citati nello stesso discorso. Michelle Obama è per questo, in conclusione, anche un esempio insuperabile della moda messa a servizio della comunicazione: sarà difficile che il primo first gentleman della storia a stelle e strisce, Bill Clinton, riesca a fare altrettanto.

Ad alto rischio…

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La paura di passare in sordina stavolta c’era, e maggiore del previsto. La buona riuscita dell’intera kermesse perciò, naturalmente auspicabile, non così scontata, senza dubbio meritatissima, alla fine è giunta, forse in maniera ancor più entusiasmante. Quasi compressa fra il contemporaneo clamore per le nomine – shock dell’haute couture parigina (il passaggio alla direzione creativa di Dior di Maria Grazia Chiuri, ex di Valentino e prima donna al timone della maison francese), tra gli abbaglianti festeggiamenti per i 90 anni di Fendi, rei di aver profanato l’intoccabile magnificenza di Fontana di Trevi, e i 30 anni di Dolce & Gabbana pittorescamente allestiti per le vie di Napoli, con un’inossidabile Sofia Loren osannata sotto un baldacchino barocco come una Madonna in processione, Altaroma, la storica manifestazione di alta moda capitolina, poteva forse sparire in mezzo a tanta mediatica opulenza. E invece no. Merito, al contrario, di un programma accorto e ben strutturato, che dall’8 all’11 Luglio scorsi, ha eletto nuovamente i locali dell’ex Dogana di San Lorenzo come sede principale e più appropriata per un esplicito tentativo di innovazione stilistica affidato sempre più al talento di nomi nuovi o emergenti. Merito soprattutto di una formula consolidata che ha fatto progressivamente a meno di inutili eccessi, colpi di teatro o stramberie superflue, per rifugiarsi così in proposte concrete e spendibili, in iniziative lungimiranti, in un terreno in cui la moda intesa come sostanza e non semplice forma potesse finalmente dare i suoi frutti migliori. Come a dire: qui si torna a parlare di abiti, di competenze, di mercato, le stravaganze (immancabili, ma più dosate) lasciamole alla folla (fin troppo) variopinta che assedia spasmodica le passerelle più per il gusto di deliziare il pubblico dei social che per innato buongusto. Su questo registro dunque ci si è mossi sin dall’attesissimo evento inaugurale, Who is on next?, il celebre progetto di scouting, realizzato in collaborazione con Vogue Italia, che, forte di una giuria di mostri sacri del settore (da Franca Sozzani accolta da ovazione da stadio a Suzy Menkes con consueto ciuffo a banana e cappa plissettata viola), ha premiato, forse penalizzando il lieve “citazionismo” di alcune collezioni (come i richiami sottili allo stile di Gucci e di Moschino presenti qua e là), i giovani brand di Brognano (1° classificato) e Miahatami (2°) per il prêt – à – portér e Pugnetti Parma per gli accessori. E proprio dalle scuderie di Who is on next? provengono alcuni dei nomi più interessanti visti, non a caso, negli stessi giorni, come quello del greco Angelos Bratis, vincitore dell’edizione 2011, e artefice di una collezione matura, coerente, chiaramente evocativa in certi drappeggi, grafismi o nei blu, brillanti e insistiti, della sua terra di origine. O quello di Hussein Bazaza (vincitore soltanto lo scorso Ottobre dell’edizione speciale 2015 tenutasi a Dubai), giovanissimo couturier libanese (è nato nel 1990) che coniuga nelle sue creazioni uno spericolato iperdecorativisimo alla predilezione per volumi rigidi e geometrizzanti. Impossibile infine non menzionare l’eleganza raffinata e onirica, al contempo quasi sospesa, di Greta Boldini (foto allegata), brand oggi esclusivamente affidato alle intuizioni sofisticate del designer Alexander Flagella, autore di una collezione portabilissima e di ampio respiro, passando per la sfilata più emozionante, quella siglata dal duo creativo veneziano Arnoldo] [Battois, che mescola impunemente nei propri abiti tracce di Oriente e motivi animalier a tinte fluo ed accessori zoomorfi, in un insieme di grande impatto estetico. Perfettamente in linea con quello che, ci auguriamo, possa continuare ad essere, non solo qui a Roma, il prossimo futuro dei fashion – show: molto, molto meno show, molta, molta più moda.

Just me and you…

“Vuoi che ti passi dell’insalata?” “No, grazie, non mangio cibi verdi!” “Davvero? Ma pensa, neanch’io!”. Ero incredulo, quasi sconvolto, soprattutto sollevato. Ho perfino provato forte il desiderio di tuffarmi al di là del tavolo dove era seduta anche lei, durante un pranzo fra colleghi, solo per abbracciarla, manifestarle tutta l’improvvisa e sconquassante gioia per la fine dell’attesa pluridecennale di un altro essere umano che pronunciasse quelle stesse, fatidiche parole, esultare in pubblico per il piacevole e inaspettato conforto dovuto alla speranza colmata di ritrovare nei gusti altrui la mia identica e forse un po’ bizzarra consuetudine, universalmente considerata dal 99% degli abitanti del pianeta una stramba e capricciosa rarità. “E le zucchine?” “Dipende da come sono cucinate, ma in genere non mi fanno impazzire” “Uguale! E il radicchio?” “No, ma scherzi? Non sarà verde ma ha quella consistenza lì” abbiamo proseguito nella nostra trascinante ed empatica conversazione, probabilmente suonata un tantinello surreale alle orecchie degli altri presenti, quanto così familiare e gradevolmente prevedibile per me, ipnotizzato com’ero dai suoi racconti su lattuga, spinaci o broccoli, talmente sovrapponibili ai miei stessi aneddoti sull’argomento, da darmi quella gratificante sensazione di riascoltare la melodia di una vecchia canzone imparata un tempo a memoria e mai più sentita per anni. Perché se si è speso inutilmente più dei due terzi della propria esistenza per convincere parenti e amici della fondatezza di quella tua, chiamiamola così, irragionevole repulsione, oltre a tutta la propria infanzia a buttar giù bocconi interi di bietole o cavolfiori da non sfiorare mai neppure con lingua e denti, stufo di esser sempre additato come l’ospite esigente e incontentabile, quello che puntuale, dopo ogni invito a cena, riceve la solita telefonata del tipo “ma neanche i carciofi mangi? e gli asparagi? allora cosa posso cucinarti?”, incontrare la comprensione e la solidarietà di un’altra creatura affetta dalla stessa, forse rara ma comunque esistente, abitudine, equivale a un impagabile attestato di appartenenza ad una delle tante schiere imperfette dell’umanità. E visto che abbiamo tutto da guadagnare dal condividere o dal riscontrare nel prossimo le nostre stesse vulnerabili pecche o le nostre più illogiche manie o consuetudini, anche solo per non sentirsi isolati da una muraglia di singolari usanze erroneamente ritenute fuori dal comune, vi invito, come faccio io di seguito, ad uscire allo scoperto e a raccontare qui tranquillamente tutte le vostre stranezze, con la concreta possibilità che appartengano anche all’insensato repertorio di comportamenti e di azioni bislacche di qualcun altro, fino adesso mai purtroppo incontrato. Ecco le mie:

- I barattoli della cucina (caffé, zucchero, sale, etc) devono essere, sui miei scaffali, sempre pieni fino all’orlo. Già se scendono sotto la metà del proprio contenuto vanno riempiti (meno non se ne parla proprio). E per evitare il rischio del ricambio costante della parte superficiale a discapito di un fondiccio ristagnante a lungo, svuoto con cura ciascun barattolo, lo riempio per circa metà dell’altezza direttamente dalla confezione, per poi riversare di nuovo lì sopra il contenuto tolto poco prima. Almeno un paio di volte a settimana.

- Il volume della tv, dell’autoradio, dello smartphone, di qualsiasi altro diabolico congegno atto a riprodurre suoni deve segnare sempre, e dico sempre, un numero pari, mai dispari. Stessa cosa vale per tutte le mie sveglie: mai potrei sintonizzarle, che so, alle 7.37. Più difficile semmai estendere la stessa discutibile mania agli orologi comuni: voglio dire, se quel minuto è dispari, è dispari. Allora lo fisso a lungo, finché non diventa pari. Poi sto meglio.

- Gli acquisti da porre sul tapis – roulant di una cassa in qualsiasi negozio non saranno mai buttati lì in ordine sparso o, peggio ancora, messi a casaccio, sbilenchi, a formare torri pericolanti di spese da imbustare, ma posti ordinatamente in maniera perpendicolare gli uni agli altri. Come in una sorta di Tetris tridimensionale, le cui pedine sono però scatole di scarpe in saldo, pezzi di mobili impronunciabili dell’Ikea o confezioni d’acqua lievemente gassata. Indicibile è la vastità di espressioni sgomente da parte delle commesse avvistate negli anni.

- Il mio oculista di fiducia ormai se n’è fatto una ragione e mi fissa direttamente l’appuntamento annuale di controllo verso le 6 del pomeriggio, l’ultimo della giornata. Perché tanto prima delle 8 non uscirà di lì: di sicuro gli ci vorranno quelle due ore anche solo per potersi avvicinarsi alle mie pupille, pensiero che a rievocare anche adesso mi provoca sudarelle fredde e nausea. Ebbene sì, più di ogni altra cosa al mondo mi terrorizzano le visite agli occhi: in compenso non batto ciglio di fronte al dentista, sulla cui poltrona riesco spesso ad addormentarmi. Qualcun altro può vantarsi di fare altrettanto?

Azzardi in volo…

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Per colpa di un percorso professionale gratificante quanto tortuoso, intrapreso tempo fa privilegiando una passione impossibile da ignorare e snobbando con giovanile incoscienza proposte che mi avrebbero garantito al contrario maggiori certezze economiche e contrattuali, ma anche l’insopportabile noia dei giorni di lavoro tutti uguali a se stessi, da più di una dozzina di anni mi destreggio nell’atipica quanto affascinante carriera di storico del costume, barcamenandomi così tra (i rari) archivi di abiti presenti nei nostri musei, interessanti mostre sull’abbigliamento e qualche dignitosa, seppur non troppo significativa, pubblicazione in materia. Tutte occasioni grazie alle quali ho avuto la fortuna, spesso accompagnata da un terrore giustificabile e paralizzante, di toccare con mano centinaia e centinaia di creazioni originali o di accessori delle più varie epoche e provenienze, di studiarne a fondo fattura e dettagli, di scoprirne, talvolta con stupore, accorgimenti sartoriali nascosti e minuziosissimi, come tagli millimetrici o cuciture invisibili e certosine, interventi in apparenza insignificanti, in grado di determinare invece in ogni capo il giusto e necessario adattamento dell’abito stesso al corpo chiamato ad indossarlo. Giungendo peraltro di frequente, alla fine di ogni lavoro, alla medesima e forse scontata osservazione: in quanto a straordinaria compresenza di stile, femminilità, ricercatezza di gusto e di esecuzione, pochi altri periodi storici riescono a distinguersi nell’intero panorama della moda italiana del secolo scorso come gli anni Cinquanta. Epoca in cui, in realtà, il made in Italy, ancora agli albori e appena regolato da un sistema di presentazione a buyer e stampa antesignano di quello odierno (le famose sfilate alla Sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze cominciate nel 1952), affacciatosi da poco sulla soglia di un mercato destinato a divenire di lì a breve dirompente, si basava però sull’eccellenza di singole realtà sartoriali presenti in diverse città. Nomi quali quelli di Emilio Schuberth, il couturier partenopeo amato da dive come Gina Lollobrigida e celebre per impreziosire spesso i propri abiti con tocchi pittorici, di Roberto Capucci, il creatore animato da una vocazione scenografica, spregiudicata e scultorea per la moda, delle Sorelle Fontana, il team familiare e creativo primo a conquistarsi il favore della clientela americana, hanno tutti contribuito a definire quell’unicità di eleganza quale prerogativa di un decennio irripetibile per lo stile come sono stati appunto gli anni Cinquanta.

Devono aver avuto lo stesso pensiero anche i potenti vertici di Alitalia, la compagnia aerea sorta nel 2014 dalle ceneri in cui era ormai ridotta, anche a causa delle note e tumultuose vicende giudiziarie, la ex compagnia di bandiera, oggi invece risollevatasi, almeno nel capitale, dal provvidenziale ingresso fra gli azionisti della Eithad Airways, di proprietà degli Emirati Arabi, attualmente al controllo di circa la metà (49%) dell’intero gruppo. E che con l’obiettivo forse di sottolineare il nuovo, e speriamo meno accidentato, corso dell’azienda, ha visto bene di ripartire da una mirata e massiccia operazione di restyling, lanciata in pompa magna sulla stampa di mezzo mondo, e volta a rinnovare il look del personale di bordo, da qualche settimana dotato dunque di fiammanti (ma non infiammabili, ci mancherebbe) e, diciamolo subito, criticatissime divise (nella foto la campagna pubblicitaria). Che, per carità, trattandosi della tenuta professionale pensata appositamente per hostess e steward, categoria da cui si pretende, oltre a cortesia infinita e miracolose capacità di placare all’istante le ansie dei passeggeri, un aspetto naturalmente impeccabile, non oseremmo mai immaginare come un qualcosa di troppo informale o kitsch, che so, una tuta di ciniglia, o una mise particolarmente sexy e provocante. Un tocco di modernità, anche minuscolo, escluso in toto dalla pesante e fin troppo coprente classicità della suddetta divisa, dal momento che siamo ormai abbondantemente approdati nel terzo millennio, di certo non avrebbe infastidito nessuno. Anche perché l’artefice della contestatissima collezione, Ettore Bilotta, stilista dalla rispettabile ma non memorabile carriera, almeno non quanto quella dei suoi predecessori incaricati in passato da Alitalia del medesimo compito  (le stesse sorelle Fontana, Mila Schön o in anni più recenti perfino Giorgio Armani), si è prodigato per tentare di evidenziare nel proprio lavoro un voluto omaggio alla raffinatezza tipica degli anni Cinquanta. Dove questa si sia poi nascosta in quel tripudio di tonalità ispirate al tricolore e apparentemente abbinate un po’ a casaccio in divise mai così orrendamente retro, in quelle calze verde bosco che riuscirebbero a rendere il polpaccio di ogni donna simile a una pianta grassa, in quel cappellino che pare purtroppo un soufflé sgonfio poggiato sulla testa, non è dato di sapere. Forse all’interno del semplicissimo e chissà quanto utile borsone in pelle pensato come pendant dell’orribile completo, unico, salvabile dettaglio di un insieme che, ci auguriamo, non contribuisca ad aumentare la nausea di cui tanti già soffrono in aereo.

La musa inquietante…

Miku Hatsune – The World Is Mine – YouTube.

Una certa dose di coraggio, oltre ad un’apprezzabile inclinazione per le sfide (quasi) impossibili, l’aveva mostrata nuovamente non più di un mese fa in occasione del MET Gala, quando, sul red carpet inaugurale della mostra Manus X Machina al Metropolitan Museum di New York era riuscito nell’impresa, non certo facile, di far guadagnare per l’ennesima volta alla solita Madonna lo scettro di regina assoluta della trasgressione. Già, perché quell’abito nero tutto pizzo, pericolose trasparenze e lacci strizzamuscoli indossato allora da Miss Ciccone (criticatissimo sulla stampa di mezzo mondo perché lasciava in bella vista glutei e seni della diva quasi 60enne, ancorché sorretti da apposite e indispensabili stringature) e firmato Givenchy, altro non era che l’ennesimo colpaccio messo a segno da Riccardo Tisci, italiano e talentuoso direttore creativo della medesima maison di moda da oltre un decennio, non a caso recentemente inserito dall’autorevole rivista Time tra le 100 personalità più influenti del 2016. Che Tisci sia dunque, in virtù della sua straordinaria carriera e del suo curriculum impressionante per uno stilista poco più che quarantenne, uno dei creatori di moda più ambiti e richiesti ai quattro angoli del pianeta proprio dalle stesse star della musica internazionale, che sembrano letteralmente fare a pugni pur di accappararsi una sua collaborazione o un suo prezioso abito da sfoggiare in tour o su di un qualche tappeto rosso, non dovrebbe stupire più di tanto. A destare sorpresa è semmai l’invito lanciatogli dalle pagine di Vogue Usa, e prontamente raccolto dall’infaticabile designer, a vestire una cantante non troppo conosciuta in occidente ma, al contrario, già popolarissima in Giappone, la quale, a dispetto della sua giovane età (16 anni) riesce con la disinvoltura di una diva consumata a riempire stadi di fan deliranti e inneggianti il suo nome. Peccato solo non esista nella realtà. Perché Miku Hatsune, questo il nome della celebre stella della musica nipponica, dallo scorso Aprile impegnata in un tour promozionale negli States, è semplicemente un bacharu aidoru - come viene definita in patria dai suoi fedelissimi ammiratori intrisi di tecnologia e manga – vale a dire un essere virtuale, una sorta di gigantesco cartone in 3D, una creatura cioè animata da un software che ne riproduce fattezze e voce (quella, neanche troppo memorabile, con cui si esibisce, naturalmente modificata, appartiene alla cantante Saki Fujita, qui nel video di un suo brano recente The world is mine). E se da questa parte del mondo a fatica riusciamo a spiegarci il successo travolgente di un personaggio che a noi bambini degli anni ’80 ricorda eroine già viste in tante serie animate made in Japan (quelle, per intenderci, con occhioni giganteschi e luccicanti, capelli fluo e improbabile sigla finale da cantare con vocina stridula), per dare un’idea invece della fama raggiunta in estremo oriente da Miku, lanciata nel 2007 dalla Crypton Future Media anche come protagonista di una serie di videogiochi e fumetti, basti pensare che in pochi anni ciascun suo video ha raggiunto in rete una media di 5 milioni di visualizzazioni (cifre da far crepare d’invidia tante star in carne ed ossa), oltre all’onore di aver aperto un concerto di Lady Gaga e di aver duettato con Pharrell Williams in una clip realizzata dall’artista Takashi Murakami. L’unico dubbio rimane però sull’operazione “diva da rivestire”: il nome di Givenchy, passato alla storia anche perché legato alla bellezza senza tempo di un’icona come Audrey Hepburn, avrà fatto bene stavolta ad affiancarsi ai codini verdi e all’aspetto infantile e un po’ inquietante di Miku? E tra dieci, venti, trent’anni, ci sarà ancora chi si ricorderà di lei o parlando di star e moda torneremo a citare il tubino nero di Colazione da Tiffany?