Ricomincio da MI

“La mia impressione? Guarda, ad essere sinceri, credo proprio di non essere piaciuto. Se devo dirtela tutta, secondo me hanno già trovato qualcun altro. Si capiva chiaramente, il tono cordiale ma distaccato, le domande poi, proprio quelle di routine. No, non c’è il minimo interesse, garantito. Ho mai sbagliato?”. Puntualmente. Cioè, sempre, in ogni circostanza, ad ogni occasione più o meno meritata, elemosinata o piovuta dal nulla, quando la mia incorreggibile strafottenza arriva a rompere gli argini del pensiero per trasformarsi in parole inutili e vanagloriose, mi illudo di aver intuito con chiarezza il proseguimento della faccenda in questione, e quasi gongolo nel mettermi poi in disparte, altezzoso, a godermi il finale, perché sicuro che si svolgerà secondo quanto scrupolosamente previsto. Cosa che infatti non accade mai. Perché l’esperienza dovrebbe avermi ormai generosamente dimostrato che non possiedo affatto quella dote portentosa chiamata sesto senso, una latente e strabiliante capacità di indovinare situazioni o decisioni future, forse il solo dono che possa rivestirci della convinzione di dominare e perfino anticipare le tattiche fumose del destino. Macché, niente, mai azzeccata una sola, per quanto insignificante, previsione, mai avuto un minimo e strafottutissimo presentimento che alla lunga si sia dimostrato il più veritiero. Come stavolta, quando, dopo l’ennesimo e poco incoraggiante (credevo) colloquio di lavoro, l’ultimo in ordine di tempo aggiuntosi alla mia lunga lista di episodi paradossali, spesso tra il demoralizzante e il tragicomico, mi sono ritrovato in una Milano insolitamente soleggiata a riassumere per telefono al mio amore quello che credevo essere l’esito dell’agognato incontro. “Un altro buco nell’acqua, pazienza. Dai, meglio così, in fondo. Ci avrebbe riscombussolato di nuovo la vita”. Inutile aggiungere che a quel colloquio ne è seguito poi un altro, a breve distanza, con tanto di amministratore delegato in persona a dissezionare il mio variopinto curriculum, a soffermarsi naturalmente sul mio allettante passato da bigliettaio museale (lasciato come ultima voce a dispetto dell’insana curiosità che ogni volta suscita) e a chiedermi soprattutto, con spiazzante franchezza “Sì, ma da grande, cosa vorrebbe fare?” (io? da grande? ma l’avrà letta bene la mia data di nascita?)

Altrettanto inutile stare a specificare che, per il momento, ottenuto non so come quell’incarico provvisorio indicato con un altisonante quanto sibillino acronimo (“crm specialist” per l’esattezza, ma i dubbi sul suo significato ve li saprà chiarire meglio Google), mi ritrovo di nuovo a rincorrere la mia esistenza che pare aver preso una sua direzione del tutto indipendente dai miei più rilassati programmi e dal mio, mai celato, desiderio di una maggiore tranquillità. Per qualche mese dunque vivrò da solo a Milano, in un minuscolo e grazioso appartamento messomi a disposizione dalle salvifiche premure di un vecchio amico, che lo ha dotato di un paio di dettagli kitsch (l’asse da stiro leopardata, tre piramidi di lattine vuote a coronare i pensili della cucina) talmente assurdi da avermi fatto sentire subito a casa. Per non parlare del palazzo poi, forse per assonanza cromatica con il cielo mattutino di qui, dipinto della stesso tonalità di grigio piombo, ravvivato però da un lato da un curioso murales a forma di campanile che incornicia tre finestre cieche e dall’altro dal gigantesco e ipnotico cartellone pubblicitario del “più cliccato sito di incontri extraconiugali in Italia” (e qui si potrebbe aprire una parentesi su un mondo a me sconosciuto: esistono siti di incontri extraconiugali? sul serio? cioè, come funzionano, ti richiedono il certificato di matrimonio al momento dell’iscrizione?). Senza contare inoltre i penosi tentativi con cui fingo di aggirarmi con disinvoltura nella sede di lavoro, perché finché sei “quello nuovo” ti sembra di essere escluso da tutto, dalla complicità dei colleghi che ridacchiano su battute incomprensibili, del genere “no, non puoi capire, è una vecchia storia”, al semplice funzionamento della macchinetta del caffè (boh, questa lucina accesa che vorrà dire?), fino al momento in cui una gaffe ti declassa dalla qualifica di “quello nuovo” al rango disonorevole di “quello stronzo” quando provi a entrare in confidenza con la fanciulla dell’ufficio accanto e accidentalmente le dai più della sua età (“ahhahhahah, 29 anni, anch’io dico sempre così…invece ne hai, 32? 33? “no, ne ho davvero 29, forse stamani ho il viso un po’ stanco” + sguardo comprensibilmente carico d’odio). Un’ulteriore occasione insomma in cui scontrarsi di nuovo, nelle prime, prevedibili, notti insonni come nelle lunghe giornate in cui vago con la testa seduto alla mia nuova scrivania, con tutte quelle paure e quelle insicurezze mai del tutto superate, con quello schiacciante disorientamento che ogni nuovo inizio si trascina immancabilmente dietro, per fortuna sempre inferiore alla mia indomita e mai accantonata, voglia di ricominciare. Anche qui, in una Milano al momento da assaggiare, più che da bere.