Il genio in un ciak

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A soli tre anni dall’uscita del toccante docufilm L’amour Fou di Pierre Thoretton, prima opera a rischiarare le ombre di una silenziosa vita privata fatta di passioni brucianti e malinconia, e a quasi sei dalla sua tragica scomparsa (è morto il 1 Giugno del 2008) il cinema torna nuovamente ad occuparsi di uno dei più affascinanti e tormentati talenti della moda contemporanea, Yves Saint Laurent. E lo fa con l’omonima pellicola di Jalil Lespert, in questi giorni anche nelle sale italiane, già acclamata oltreoceano nei mesi scorsi per la delicata intepretazione del giovane protagonista Pierre Niney e per la sceneggiatura che il regista, di origine algerine come lo stesso couturier, ha scritto con il fondamentale contributo di Pierre Bergé, storico socio in affari, factotum e compagno dello stilista fino alla fine dei suoi giorni. Il risultato è un film raffinato e meticoloso, che al di là della realistica presenza delle creazioni originali dello stesso Saint Laurent e dello scioccante lavoro di immedesimazione compiuto dal bravissimo Niney, riesce a concentrarsi sull’intenso e travagliato rapporto tra i due, fatto di successi condivisi, liti apocalittiche e tradimenti, in un altalenante equilibrio che deve spesso fare i conti con le nevrosi e i demoni che affliggono l’anima del couturier. A far da sfondo alla complicata e duratura relazione il racconto dell’ascesa di un mito, quello dello stilista, chiamato a sostituire, a soli ventuno anni, il proprio maestro Christian Dior, al timone della più prestigiosa, e dunque più ambita, maison di alta moda parigina, tra la pressioni di un compito allettante e gravoso e la maledizione di un talento e di una personalità non sempre facili da gestire. Un ventennio professionale, dal 1956 al 1976, scandito prima dalla scomoda eredità di un ruolo portato avanti con rigore e determinazione e dal lancio poi, nel 1962, della propria etichetta, per la quale Saint Laurent passerà alla storia come uno dei più geniali e innovativi creatori di tutti i tempi. Di sua ideazione infatti alcuni dei capi presenti ancora oggi in ogni guardaroba femminile, dalla sahariana al blazer, dallo smoking al trench, passando per le memorabili collezioni ispirate nei tagli e nei colori ai capolavori di artisti del calibro di Mondrian e Braque, senza dimenticare la straordinaria capacità di tradurre in tendenze sensuali suggestioni etniche tratte dall’Oriente e dall’Africa. E poi ancora le intuizioni all’avanguardia di grande e magnetico comunicatore, lui primo stilista a posare completamente nudo, nel 1971, con addosso soltanto i suoi riconoscibili occhialoni, nel provocatorio scatto in bianco e nero di Jeanloup Sieff realizzato per la campagna, tutt’oggi copiatissima, del suo primo profumo maschile. Infine la complicità e la delicatezza del suo pacifico e leale rapporto con le donne, spesso amiche e muse, come la mannequin prediletta per la sua bellezza aristocratica, Victoire (Charlotte le Bon), o la profonda stima che lo legò, per decenni, alla sua più stretta collaboratrice e confidente, di reali nobili origini, Loulou de la Falaise (Laura Smert), forse colei che più di ogni altra ha impersonificato quell’ideale di superba e ricercata eleganza tipico delle sue creazioni. E che oggi finalmente torna a rivivere, sul grande schermo, in tutta la sua dirompente, originale e indimenticabile essenza.

L’antitestimonial

Siamo alle solite. D’accordo, la bellezza non sarà poi tutto nella vita. O per dirla con quell’infinità di proverbi che amiamo elargire in queste occasioni, la bellezza in fondo è nell’occhio di chi guarda (ma meno fastidiosa di un bruscolino o di una lente a contatto), perché non è mai bello ciò che è bello (e come potrebbe?) ma solo ciò che piace (a me piacciono da morire le lumache al sugo, dunque sono belle?) e via discorrendo. Oppure, come era solita ripetere Brigitte Bardot, che in fatto di bellezza qualcosuccia in più di noi comuni mortali ne sapeva, se non altro per la sola e forse ipnotica visione di se stessa, tutte le mattine, per decenni, davanti allo specchio, “la bellezza è un dono che va restituito”. Sì, ovvio, verissimo, ma intanto a vent’anni, prima che cominciasse quell’inesorabile trasformazione da meraviglioso volto del grande schermo ad attivista battagliera, un po’ sciatta e piuttosto intransigente, sei stata l’indiscusso sex – symbol di un’epoca e il sogno erotico di milioni di uomini, e non esattamente perché andassi predicando la salvaguardia dei cavalli da macello o dei cuccioli di foca. Ma proprio per quel, come lo chiami tu, dono, mia cara Brigitte, che, ti ricordo, non tutti, anzi, in minoranza, hanno avuto la fortuna di ricevere e dunque di poterne godere o di servirsene, anche se solo per un periodo di tempo limitato, impossibile da prorogare perfino per le più avanzate tecniche di chirurgia estetica. Credo che a questo punto manchi solo di citare l’adagio “altezza mezza bellezza”, ma si tratta solo di un altro caso di saggezza popolare facilmente smentibile, portando avanti proprio come esempio il personaggio che avevo intenzione di affrontare, divagazioni a parte, in questo post.

E cioè un ragazzone di quasi un metro e novanta, che all’anagrafe risulta registrato come Brian Hugh Warner, che come cantante già dalla fine degli anni ’80 ha riscosso poi un successo inarrestabile con il controverso pseudonimo di Marilyn Manson, che soprattutto si è dichiarato, in più occasioni, sadomasochista, autolesionista, particolarmente incline a droghe ed eccessi, e per finire in allegria, l’anticristo in persona. E che a milioni di fan in tutto il mondo risulterà carismatico, talentuoso, forse perfino affascinante. Di certo, bello nel senso più puro del termine non lo è e non lo è mai stato. Non che poi lui stesso si dia da fare più di tanto per accrescere o migliorare la propria gradevolezza estetica; anzi, pare invece ci metta tutto l’impegno per sottolineare con trucco e parrucco da Morticia Addams e altri discutibili artifici i tratti irregolari di quel suo viso inquietante, a cui comunque deve parte della propria fama. Uno sforzo che alla fine sembra sia stato premiato, almeno a giudicare dalla scelta del neo-direttore creativo di Yves Saint Laurent Hedi Slimane, che ha deciso, oltre che di mutare il nome storico dell’azienda in un più semplice e asettico Saint Laurent, di scommettere proprio sulla faccia pallida e picassiana di Marilyn Manson quale nuovo testimonial della griffe (foto allegata). Evento che assume quindi il sapore di una rivincita storica per tutti i bruttini, oggi finalmente rappresentati dal cantante statunitense, nelle pagine patinate delle riviste di moda, tra i soliti attori e indossatori belli e un po’ stucchevoli. Quelle Beautiful People che lo stesso Manson arrivava a deplorare in musica in uno dei suoi brani più noti: e che forse, già allora, aveva il sospetto di poter un giorno tranquillamente scalzare.