Passioni in estinzione

Lo spunto, come già in passato per alcuni miei post, me l’ha fornito quella meravigliosa e insolente creatura che è mia nipote Giulia, quasi tre anni e una lingua che si è improvvisamente sciolta in frasi da fiabe d’altri tempi e un po’ direttive, del tipo “non tornare tardi, non tornare buio, non passare bosco!”. E se mai vi sfiorasse il dubbio che l’ultimo consiglio, quello relativo cioè al bosco, sia esclusivamente frutto di una fantasia visionaria, tipica alla sua età, o di una fascinazione improvvisa per Cappuccetto Rosso, la colpa in realtà risiede in parte nel suo credersi con fermezza l’incarnazione di Robin Hood, in parte nel suo abitare sul serio, secondo una poetica quanto scomoda scelta di mia sorella, semi-circondata da un vero bosco, dove, per raggiungerla, solo in questi ultimi mesi ho evitato di investire con l’auto tre caprioli, un cinghiale, un istrice, un fagiano (per il rospo saltato in mezzo alla strada all’ultimo minuto, invece, non c’è stato purtroppo niente da fare). Dicevo, mia nipote, oltre a quell’indiscusso potere diffuso tra i bambini di trasformare i propri nonni da persone autorevoli in esseri quasi ridicoli (per esempio, l’altro giorno ho beccato mio padre, in genere serissimo, travestito da pirata, con tanto di benda sull’occhio, mestolo di legno a mo’ di spada e custodia del rum spacciata per scrigno del tesoro), ha la consuetudine di uscire sempre di casa (attraverso il bosco, appunto) con qualcosa di diverso ben stretto tra le mani, un qualsiasi oggetto, un giocattolo, un regalo, che per tutta la giornata poi non abbandona mai, eleggendolo a compagno prescelto e inseparabile per le sue ore all’aperto. Al di là dell’assenza di un criterio nella designazione del “favorito del giorno”, che può essere indifferentemente un tubetto di dentifricio, un panetto colorato di Didò, una scarpa di una bambola o l’arco di Robin Hood (modellato, manco a dirlo, da mio padre in persona), quello che mi stupisce ogni volta è il suo trascinarsi con cura ovunque vada il  momentaneo prediletto, senza necessariamente coinvolgerlo nei suoi giochi, quasi fosse tranquillizzata, rassicurata, dalla sua sola presenza, dalla consapevolezza di poterlo avere sempre con sé.

E noi adulti? (vorrei sottolineare che nonostante l’evidente immaturità del soggetto mi sarei inserito anch’io nella categoria, ma solo per motivi anagrafici). Mi chiedevo: avvertiamo ancora anche noi lo stesso bisogno di affidarci alle cose, di vedere l’indispensabile nell’inutile, di rifugiarci dietro una nostra copertina di Linus (senza il dito in bocca, spero), o gli anni che passano ci lasciano indifferenti al valore protettivo, consolatorio, scaramantico, degli oggetti? Beh, sarà per la mia, più volte dichiarata, stramba personalità, incline al maniacale, o per un conclamato difetto genetico che mia nipote al momento dimostra ma che mi auguro le svanisca in futuro, fatto sta che devo ammettere di possedere anch’io un caro e irrinunciabile oggetto, senza il quale mi sentirei nudo: la mia agendina. Una piccola e classica agenda cartacea, che all’inizio di ogni anno scelgo con attenzione, nel colore (che può variare dal rosso all’arancio, ma insomma deve essere sempre caldo), e nella forma (la solita, tascabile, così da poter inserire la vecchia lista di numeri di telefono scrupolosamente ricopiati negli anni, dopo che un dannoso furto di cellulare mi ha privato di colpo di qualcosa come 300 contatti). Che per me è molto di più di un banale supporto mnemonico dove annotare quotidianamente appuntamenti e scadenze, anniversari e compleanni, oscillazione di peso (ultimamente in ascesa) e cambio di password, ma un necessario strumento di pianificazione della mia vita, la fonte dell’illusione di un’esistenza organizzata e disciplinata a dovere. Non mi separo da lei neanche quando passo di stanza in stanza in casa, la poggio sul comodino ogni sera prima di spegnere la luce e la riapro appena sveglio il mattino seguente, la sfodero come un’arma in treno o in bus per annotare le parole che mi colpiscono nelle conversazioni altrui, sicuro che in futuro mi torneranno utili in qualche modo. “Cosa ci scriverai mai?” mi prendono spesso in giro amici e colleghi (che nei miei anni professionali a Roma mi avevano appunto ribattezzato “agendina”, per sottolineare anche la mia “g” debole toscana): ma io, indifferente alla sua fama di oggetto preistorico o inutile, perché soppiantato dall’avvento della tecnologia (http://www.ilgiornale.it/news/interni/2014-vecchia-agenda-addio-979642.html) continuo imperterrito nella mia passione. Irrazionale e incomprensibile, forse. Come un vecchio amore, impossibile da sostituire.

Es Guets Neus Jahr!

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Da buon italiano medio/superficiale/attaccato alle proprie radici, credo di rientrare in gran parte degli stereotipi, anche i peggiori, che vengono attribuiti ai nostri connazionali quando si trovano a viaggiare all’estero. Sono chiassoso, disordinato, impaziente e scalpitante di fronte alla perfetta linearità di certe file, restìo nel bere quei caffè di un marroncino tenue, visibilmente lontani dal gusto inconfondibile di un vero espresso. Per fortuna posso però contare sulla provvidenziale facoltà di riuscire a esprimermi in un inglese semi-comprensibile, imparato a suo tempo in un lontano periodo di frequentazione dei peggiori pub di Dublino (ma questa è un’altra storia, che prima o poi vi racconterò). Quando perciò posso concedermi, finalmente, una vacanza fuori dai confini nazionali, come è successo nei giorni scorsi a Basilea, in Svizzera, dove ho dato l’addio definitivo a un faticoso 2013 per accogliere speranzoso il nuovo anno, mi diverte sperimentare lo stesso gioco, drizzando le mie antenne di acuto e sarcastico osservatore, alla ricerca di tutti gli eventuali luoghi comuni da sfatare o confermare sugli altri stati o popoli. Ho accolto quindi di buon grado l’invito di Francesca e Vittorio, infaticabile e strepitosa coppia di amici da più di un anno residenti nella cittadina elvetica, che hanno abbracciato voltando le spalle a un’Italia ingrata verso il loro talento e le loro qualità professionali, adeguatamente riconosciute e valorizzate oltralpe. Il mio viaggio è cominciato invece acciuffando un treno in volata la sera stessa del 31 Dicembre, attraverso località suggestive come Domodossola (che tutti conoscono per via della D, ma che nessuno ha mai davvero visitato), Brig, Visp, Spiez, Thun, (prima considerazione in terra straniera: nel trovare un nome alle città gli svizzeri risparmiano un sacco di lettere), cronometrando la durata delle soste e delle partenze del mio mezzo in ogni sua singola tappa. Niente da fare: la famigerata puntualità svizzera esiste sul serio, alle 22.29, non un minuto più tardi, sono alla stazione centrale di Basilea (unica consolazione, i vagoni e il bagno del treno sporchi quanto quelli di un comune intercity italiano). Inghiottito dalla bellezza notturna del posto, dei fuochi di Capodanno riflessi sul Reno, della musica sacra inneggiante da chiese e cattedrali, tento almeno di smentire la supposta freddezza dei suoi cittadini. Confermata anche quella: è la notte di San Silvestro, i numerosi capannelli di persone fuori a brindare sono composti, quasi impassibili, nessun eccesso o follia per le strade, introvabile o inconcepibile il caos per i festeggiamenti (motivo per cui, da copione, ci dirigiamo verso un pub irlandese, dove balliamo fino alle 5). Voglio saperne di più: tutto così esageratamente efficiente, funzionale, organizzato, possibile? L’indomani sommergo di domande Vittorio, ospite generoso e disponibile, beccato intento a “trombare” la pasta per la pizza (verbo che nella sua Alberobello descrive il manipolare con cura l’impasto, nella mia Toscana altre e più goderecce attività). Ricevo solo nuove conferme: l’altissimo senso civico impone che i beni pubblici siano qualcosa da salvaguardare a vantaggio di tutti, gli esempi si contano a milioni. Barbecue e lavatrici sono condominiali (immaginate un accordo simile nelle sanguinose riunioni tra vicini in Italia?), alle famiglie è affidata la cura delle aiuole nelle vie, strisce pedonali e parcheggi riservati sono terreni inviolabili, pena una multa salatissima o la vendetta privata di qualche cittadino zelante che può arrivare a spaccarti lo specchietto o ammaccarti l’auto. I pomeriggi seguenti spesi in giro per i luoghi noti di Basilea e per i suoi innumerevoli e ricchi musei restituiscono l’identica immagine idilliaca: gli edifici sono spazi vivibilissimi e ben strutturati, l’architettura contemporanea non è relegata in squallide zone periferiche ma domina anche il centro della città, elettrizzando il mio amore, che da appassionato della materia, mi fa scendere al volo dai tram quando riconosce dal finestrino un edificio di Mario Botta o di Herzog e de Meuron (foto allegata), a rischio di essere seriamente investiti sui binari, perché deve fotografarlo da ogni lato. Tutto questo senza considerare la posizione più che privilegiata della stessa Basilea: incastonata nel cuore dell’Europa, con una semplice passeggiata di pochi minuti si possono raggiungere le vicine Francia e Germania e riuscire incredibilmente a visitare ben tre nazioni in un giorno solo (faticoso, ma fattibile). Insomma, come ogni comune italiano, se non fosse per gli affetti, la mia dipendenza dal sole abbagliante e dal caffè nero e forte, a parole mi sarei già trasferito anch’io.