Tutta colpa di Gianni!

▶ fashiontv | FTV.com – GIANNI VERSACE HISTORY FEM 1993-1997-1 – YouTube.

Inutile nasconderlo, non ho esattamente quel che si definirebbe “un buon rapporto” con il tempo che passa. Ed è altrettanto inutile che continui a scherzarci su, come faccio qui sopra, ostinandomi a dichiarare allegramente i miei 29 anni, o a insistere a rispondere, quando mi si chiede l’età, “una trentina” (vorrei anche approfittare per ringraziare pubblicamente la signora che l’altro giorno al forno me ne ha dati 27), offendendomi a morte o soffocando il chiaro istinto omicida che mi assale quando invece me ne attribuiscono di più. E non si tratta, poi così superficialmente, di un semplice fatto di vanità, di voglia di apparire più giovane a tutti i costi o di non saper fronteggiare un graduale quanto inesorabile declino fisico: per chi, come me, in breve tempo si è trasformato da uno fighetto snello, abbronzato e capellone in un ometto occhialuto, calvo e semiflaccido, è piuttosto evidente che il massimo della forma raggiunta intorno ai 18-19 anni sia oramai un bel ricordo da lasciare alle spalle, senza più rimpianti. Pazienza. Ciò che al contrario non riuscirò mai a padroneggiare, a gestire al meglio o ad abbandonare dietro di me con altrettanta facilità è quella mortificante sensazione che il tempo tra le mie mani sia qualcosa di continuamente inafferabile e sfuggente, una capricciosa entità che non si lascia piegare al mio volere, sempre troppo veloce, troppo indipendente, troppo lontano dai miei ritmi e dai miei desideri. Così, l’altro giorno, quasi prima che me ne potessi rendere conto, mi ha regalato l’ennesimo compleanno (e tanti auguri!). Che mi è piombato addosso come un macigno, senza alcuna possibilità di appello, rivestendomi di una nuova età – tra l’altro una cifra insignificante e dispari – a cui faccio fatica ad abituarmi, perché percepita come estranea ed esagerata rispetto alla mia vita attuale. Ok, tento di spiegarmi meglio.

Da bambino, appesa alla parete sopra il mio letto, avevo un’enorme cartina geografica del mondo, su cui passavo ore a fantasticare immaginandomi tutti i paesi, anche i più sperduti e irraggiungibili, che un domani avrei visto con i miei stessi occhi, in preda a quel senso di onnipotenza che solo il possedere tanto tempo a disposizione davanti a te può darti. Poi guardavo la finestra della mia camera e il piccolo tratto di mare che incornicia, sicuro che la mia vita sarebbe stata di sicuro oltre quell’orizzonte, non sapevo bene dove, ma di certo in qualche angolo affascinante di quel mondo sconfinato che aspettava solo me. Adesso che vivo a sole due ore di auto dal mio paese natìo in cui ritorno sempre volentieri, che gli anni trascorsi hanno dato una bella sforbiciata alle ipotetiche mete allora date per scontate, che, ci mancherebbe, le occasioni per viaggiare saranno ancora tante e comunque qualche posto in più l’ho visitato, ma insomma, l’isola di Pasqua o lo stretto di Bering forse posso cominciare ad escluderli dall’elenco, mi sembra di aver tradito in parte i miei sogni di fanciullo. Stessa cosa per quanto riguarda le mie ambizioni professionali: folgorato a 16 anni da una sfilata di Gianni Versace trasmessa in tv (video allegato), che avevo registrato e che ho riguardato all’infinito fino a consumarne il nastro (esistevano i VHS, lo so, preistoria), tutte le mie scelte da quel momento in poi sono state condizionate da quella ferma convinzione nata davanti ai suoi incantevoli abiti, “mi occuperò di moda”. E chissenefrega dei soldi spesi per le migliaia di riviste, di foto e di cataloghi che compongono la mia ventennale collezione, che adesso nessuna libreria sembra più voler contenere, della parziale delusione dei miei, che non mi hanno mai ostacolato, ma che avrebbero di certo preferito un figlio medico, ingegnere o avvocato piuttosto che un laureato in “storia del costume e delle arti decorative e industriali” (o in “ciondoli e cazzetti” per dirla come mio padre), degli spaventosi e altalenanti vuoti professionali che una formazione del genere implica. Volevo, e voglio tutt’oggi, scrivere di moda.

E per quanto armato solo di buona volontà, o se vogliamo cocciutaggine, sia riuscito a far comparire nel mio curriculum varie e pregevoli collaborazioni con magazine del settore, con istituzioni museali e scuole di moda, per quanto mi sia preso le mie belle soddisfazioni e le mie rivincite di fronte a quanti mi consigliavano di lasciar perdere (o di abbandonare del tutto l’idea della scrittura), ogni anno che passa sembra allontanarmi dalla meta che ancora non ho pienamente raggiunto. Chiamatela presunzione, perenne insoddisfazione, incapacità di accontentarsi o di inchinarsi alle più elementari esigenze delle vita quotidiana; ma quel 16enne imbambolato di fronte alle sfilate di Versace continua a scalpitare in me. Mentre il tempo che si avvicenda implacabile, ridimensionando le mie ambizioni, costringendomi a continui ripensamenti o a valutare quegli eventuali errori di percorso, mi infastidisce perché imporebbe precise scadenze. Che prima o poi dovrò soppesare. Facciamo il prossimo compleanno. Il trentesimo. Forse.

Moda? No, grazie!

In principio fu The Sartorialist (http://www.thesartorialist.com/), blog nato quasi per caso (così vuole la leggenda), nel 2005, per iniziativa del newyorkese Scott Schuman, che, armato unicamente della sua macchina fotografica, di tanta buona volontà e probabilmente di tanto tempo libero, cominciò a girovagare per le innumerevoli strade della sua città fotografando sconosciuti con un certo non so che, diciamo un gusto personale e forse apprezzabile in fatto di abbigliamento. Ne scoppiò un caso, uno dei più fortunati che la recentissima storia del web ricordi: The Sartorialist divenne in poco tempo (ed è tuttora), il capostipite di milioni di emuli online, il primo esempio di un’irruzione anomala, capillare e preponderante dello street – style nei circuiti mediatici fino ad allora un po’ snobbati dalla moda ufficiale. Di più: essere fermati e fotografati da Scott Schuman – che nel frattempo raggiungeva con i suoi scatti i quattro angoli del mondo, ritraendo via via personaggi sempre meno ignoti – è divenuto, in pratica, sinonimo di consacrazione e apprezzamento del proprio stile nell’intero fashion – system, la riconosciuta promozione di un look tra quelli degni di essere recensiti, sia il soggetto immortalato un addetto ai lavori, una modella o un semplice imbucato alle settimane della moda (dove mr. Schuman ha nel frattempo maggiormente dirottato le sue fatiche). L’ho incontrato solo in un paio di occasioni, in quel turbinio di folla variopinta e schizofrenica che affolla le sfilate, dove talvolta avanza un invito anche per il sottoscritto (raramente, ma succede). Ricordo benissimo il continuo passargli tutt’intorno ad opera di personaggi eccentrici, per non dire bizzarri, che avrebbero dato volentieri chissà cosa pur di essere semplicemente notati dal blogger, il quale, con tutta probabilità abituato a certe bieche manifestazioni autopromozionali, pareva beatamente ignorare il 90% della folla intorno a lui. Ricordo benissimo anche altro: e cioè il suo fermo rifiuto, espresso con un sorriso gentile, per carità, ma ribadisco, con fermezza, a lasciarsi lui stesso fotografare da una mia amica, per altro inviata da un’autorevole rivista del settore, in quanto trattandosi di un evento piuttosto informale, Schuman mai e poi mai sarebbe voluto comparire su un magazine in vesti più casual. Un aneddoto a cui ho ripensato di recente, quando, decisamente divertito, ho ammirato le immagini di Eat the Kitsch (http://eat-the-kitsch.tumblr.com) un nuovo fashion blog di ironica perfidia, nato dall’obiettivo inclemente e dalla sagace intuizione di Beatrice e Francesca, amiche con la passione per la fotografia e il pallino per il web. Capovolgendo con efficacia il principio che ha fatto il successo di Schuman, infatti, le due neoblogger si soffermano a ritrarre errori ed orrori di moda, curiosando tra comuni turisti e passanti, colti in situazioni di assoluto e completo relax, quando cioè è più facile (e dunque, per il lettore, più esilarante) scivolare sulla classica buccia di banana in fatto di look. Il risultato è una galleria caleidoscopica, surreale e spesso, ai limiti del pensabile, di colori, fantasie, abbinamenti azzardati, capi o accessori di cui avresti voluto ignorare l’esistenza. Che riesce a far sorridere, se non quando inorridire, anche chi non è propriamente un autorità in materia: a meno che non vi riconosciate tra i malcapitati ritratti. Beh, in quel caso…

L’occhio dell’imperatrice

Diana Vreeland: The Eye Has To Travel – OFFICIAL TRAILER – YouTube.

Riduttivo definirlo documentario, impossibile etichettarlo semplicemente come un film. Però vi basti questo: è la cosa migliore che mi sia capitata di vedere da tempo. Diana Vreeland, The eye has to travel (anche se nella versione italiana, per una magia quasi incomprensibile, quell’azzeccata perifrasi “l’occhio deve viaggiare” che sigla il titolo originario è stata rimpiazzata da un ben più banale “l’imperatrice della moda“) assume piuttosto le forme, stravaganti e scanzonate, di un ritratto, intimo ma non troppo, della più celebre e celebrata giornalista di moda del Novecento. Nata a Parigi nel 1903 da una famiglia dell’alta società americana, nel pieno quindi del fermento culturale della Belle Epoque, la Vreeland ha attraversato quasi per intero, con la sua vita mondana e cosmopolita, divisa tra Francia, Londra e New York, con le sue intuizioni geniali, dettate da uno spirito sagace e anticonformista, un secolo di trasformazioni, stili, tendenze. Le stesse che proprio lei ha raccontato per decenni, nelle pagine patinate delle riviste più importanti del settore, Harper’s Bazaar prima e Vogue poi, radicalmente innovate dal suo contributo e da quell’invidiabile, unico e riconosciuto talento nell’individuare, prima della sua esplosione mediatica, il personaggio giusto, la modella giusta, il fenomeno giusto. La Vreeland è infatti colei a cui va riconosciuto il merito di aver consacrato, prima di ogni altra, la fama di artisti come Mick Jagger, i Beatles, Barbra Streisand, Cher, colei che ha lanciato indossatrici come Twiggy, Jean Shrimpton, Veruschka, Marisa Berenson, colei che ha compreso e sottolineato l’importanza di possedere un’immagine forte quanto la sostanza, cogliendo ogni volta la profondità dietro la superficie e dandole la forma più adeguata. E proprio come l’altra grande fashion icon del Novecento, Coco Chanel, sua amica di vecchia data, che si era reinventata per l’ennesima volta nell’industria della moda a 70 anni, Diana Vreeland si ritaglia una nuova carriera, quando, licenziata da Vogue perché disposta a spendere troppo per i suoi servizi fotografici, approda nel 1971 come curatrice e consulente tecnico per il Metropolitan Museum di New York. E’ un nuovo trionfo: le sue mostre, seppur prive di quel puro rispetto filologico tipico della storia del costume, richiamano folle di visitatori in quanto coraggiose, atipiche, attuali, come quella allestita nel 1983 e dedicata, circostanza mai verificatasi in precedenza, a uno stilista ancora in vita, Yves Saint Laurent. Il tutto raccontato con un ritmo coinvolgente e incalzante, dato dai filmati di repertorio, estratti da alcune sue irresistibili interviste televisive, in cui la Vreeland mischia divertita realtà e finzione, intervallati da anedotti e testimonianze di stilisti, attori, modelle (c’è mezzo jet set internazionale) che nel tempo hanno avuto la fortuna e il privilegio di affiancare una donna così vulcanica, irriverente, leggendaria. Un mito, ancor oggi inimitabile.

Iris fa il bis!

L’anno sta per concludersi e, a livello mediatico, è tutto un proliferare di (inutili?) classifiche, best moments, liste di avvenimenti (spesso catastrofici) e di volti che hanno scandito questi ultimi 365 giorni. Non fa eccezione il dorato mondo della moda, interessato nel 2012 dal singolare fenomeno della riscossa delle over 65, inattesa e più efficace risposta a chi sostiene che nell’ambiente a 25 anni vieni inesorabilmente considerata vecchia e ”scarto senza possibilità di recupero” appena passati gli anta. Un caso su tutti, quello dell’eccentrica interior designer statunitense Iris Apfel, classe 1921 (91 anni, se non riuscite a fare il conto in fretta) e occhiali da far impallidire la nostra Lina Wertmuller, onnipresente nelle top list di fine anno in tutto il mondo. Il motivo? Oltre ad essere segnalata come una delle donne meglio vestite del 2012 (anche secondo Fashion Tv, cfr video allegato) grazie al suo stile stravagante ed eccessivo, fatto di maxi – accessori di sapore etnico, colori squillanti e una buona dose di coraggio, la signora è riuscita a comparire, alla sua veneranda età, nella campagna pubblicitaria di uno dei colossi mondiali del make – up, la Mac, che le ha dedicato un’intera linea di prodotti, avvenimento tra i più memorabili degli ultimi 12 mesi di moda secondo la prestigiosa testata britannica The Guardian (http://www.guardian.co.uk/fashion/fashion-blog/2012/dec/18/2012-fashion-year-review). Una bella rivincita che dimostra quanto non siano poi così indispensabili quei temibili (e rari) privilegi chiamati bellezza e giovinezza, anche in un settore solitamente accusato di amplificarne e sopravvalutarne il mito, ma che talvolta si avvale dello spiazzante ricorso a donne vere e carismatiche, proprio come Iris. Chapeau!

Lasciate che i bambini…

Giulia, mia nipote, ha poco più di un anno, il sorriso impertinente di sua madre, un vocabolario di circa 15 parole (due delle quali, “zia” e “ovo”, usate indifferentemente per chiamarmi), occhi enormi azzurro cielo, pelle e capelli chiarissimi, da scandinava, così lontani dal mio incarnato “arabeggiante”, da farmi temere spesso di leggere negli sguardi altrui il dubbio che l’abbia rapita in qualche supermercato. Ieri, per Natale, insieme a un mega – puzzle di Winnie the Pooh (con cui mi ha tenuto occupato gran parte del pomeriggio) un simpatico telefono – macchinina e qualche altra diavoleria “spaccatimpani”, Giulia ha ricevuto due abitini fatti interamente a mano, uno di un grazioso tessuto rosa a fiorellini, l’altro di maglia viola lavorata ai ferri. Felicissima per l’improvviso incremento del suo guardaroba, complice la sua civetteria acerba, ha continuato a specchiarsi e a pavoneggiarsi (ecco il dna Guasti che emerge) con addosso i suoi nuovi regali, incurante delle loro piccole imperfezioni e della chiara assenza di un’etichetta. Ultimamente, alle mie collaborazioni, si è aggiunta quella, gradita e impensabile, con una nuova rivista di moda per bambini (che non nominerò, non perchè trovi scorretto farmi pubblicità sul mio blog, ma perchè, forse, dopo questo post, preferiranno fare a meno di me): vengo così a sapere che il childrenwear è l’unico segmento dell’industria di moda fortemente in ascesa, come testimoniano le inaugurazioni in tutto il mondo di megastore e fiere dedicate all’universo dei più piccoli, il lancio di linee kid e junior da parte di grandi firme del settore, a cui si affiancano i dati di numerose aziende specializzate, che riescono a chiudere l’anno con il bilancio in attivo (ebbene sì, succede ancora). In conclusione, in tempi di manovre “lacrime e sangue”, di festività in cui si preferisce rinunciare al cenone di Capodanno e ai regali, magari riciclando quell’orrenda camicia a righe mai indossata, pare sia difficile fare a meno di acquistare per i nostri (cioè, i vostri) figli maglioncini griffati e stivaletti numero 14 all’ultimo grido. Possibile? E soprattutto, perché? I bambini, (o fa eccezione mia nipote?), badano davvero alla costosissima marca dell’abito che indossano o non importa forse più loro la libertà di correre, sporcarsi, divertirsi, essere insomma bambini fino in fondo? Già, perché il dubbio che mi assale è proprio questo: non è che questa rincorsa (superflua?) al brand e al tutto griffato sin dalla culla finisce semplicemente con lo snaturare la loro stessa infanzia? A volte ho l’impressione di trovarmi di fronte nient’altro che bambini travestiti da adulti. Lo penso guardando e riguardando le foto delle campagne pubblicitarie che continuano ad arrivarmi per lavoro, zeppe di pose artificiose, sguardi ammiccanti e altre piccole mostruosità. Tra cui la nascita di nuove (baby)star: come Romeo, 10 anni, secondogenito di David e Victoria Beckham (se non vi fossero sembrati abbastanza onnipresenti sui media i genitori), protagonista della campagna per la prossima collezione primavera/estate di Burberry (che trovate nel video qui allegato). Probabilmente mi sbaglio, anzi, me lo auguro. Ma soprattutto mi auguro che Romeo, come farebbe un qualsiasi altro bambino, possa aver rovesciato, sopra il suo trench impeccabile, un bel frullato al cioccolato.